di Fulvio Ferrario. Professore di Teologia sistematica e Decano della Facoltà valdese di teologia di Roma.
La sensibilità culturale e l’apertura ecumenica compiono da decenni grandi passi avanti nel dialogo fra fedi diverse. Tuttavia c’è uno spazio in cui i rapporti di forza sembrano essere immutabili…
Secondo la Conferenza episcopale italiana (Cei), è giusto valorizzare lo studio scolastico della Bibbia, «sia da un punto di vista culturale che storico artistico».
Difficile non essere d’accordo, a parte la formulazione perfettibile (la dimensione storico artistica non è “culturale”?): da decenni, anzi, una sparuta ma competente e appassionata pattuglia di idealisti si impegna affinché la scuola italiana contribuisca a ridurre l’analfabetismo biblico di questo paese di tradizione cattolica.
L’associazione Biblia si è particolarmente distinta in questa riflessione, ottenendo da un lato ampi consensi, dall’altro risultati praticamente nulli. Che la Conferenza episcopale si associ ora a questa battaglia potrebbe dunque apparire, alle persone di animo candido, un segnale positivo.
Non lo è, ovviamente. Quale strumento si propone infatti per incrementare le competenze bibliche? L’Insegnamento della religione cattolica (Irc). Cioè: uno spazio confessionale, gestito per l’essenziale dalle diocesi e finanziato dallo Stato, dovrebbe svolgere una funzione “laica” e di interesse generale.
Ne deriva naturalmente che, secondo la Cei, anche persone che non si considerano in sintonia con la Chiesa cattolica farebbero bene a invitare i loro figli ad “avvalersi” di tale opportunità, in quanto appunto ridurre l’incompetenza biblica è un obiettivo evidentemente auspicabile ed è essenziale per comprendere la storia dell’arte, della letteratura e, in generale, la storia del nostro mondo, compreso quello scristianizzato.
Uno spirito malevolo, come chi scrive, potrebbe osservare che l’Irc esiste da quasi un secolo, introdotto dal concordato Mussolini-Gasparri e confermato da quello Craxi-Casaroli, e che non pare abbia ottenuto risultati apprezzabili per quanto riguarda l’obiettivo in discussione.
Ma, si osserva da parte cattolica, le cose sono cambiate e ora vanno assai bene (che prima andassero male, però, ci viene detto solo ora e anche a mezza voce): gli e le insegnanti ricevono una preparazione accademica di carattere teologico e i contenuti dell’insegnamento sono culturalmente qualificati. Frequento decine di insegnanti di religione e conosco bene l’elevata competenza di molti tra loro.
Resta il fatto che la scuola pubblica acquista un prodotto elaborato e certificato da altri: e sono questi altri, attraverso appositi uffici diocesani, ad esercitare il controllo sull’insegnamento. Al di là di ogni valutazione di merito sui programmi, l’unico requisito per riconoscere l’anomalia della situazione è la buona fede.
Se si prova, informalmente e dietro le quinte, a interpellare in materia intellettuali cattolici di riferimento e di provata apertura ecumenica e pluralista, la cortese risposta che si riceve è più o meno la seguente: capiamo il problema, ma la proposta di un cambiamento strutturale è irrealistica.
Che cosa si vorrebbe? Che la Chiesa cattolica abbandonasse una posizione di forza nella scuola, occupata da personale di propria fiducia, con tutto quanto ciò significa, non solo sul fronte della presenza culturale? Un po’ ingenuo, o no? Che le minoranze disponessero di uno strumento analogo (nessuno lo ha mai chiesto, ma non sempre lo si sa)? Praticamente ingestibile. L’unica possibilità concreta è favorire una sempre maggiore qualificazione dell’Irc, il che potrebbe comprendere, perché no, un incremento dell’ apertura ecumenica, ecc.
Detto in altri termini: il “malloppo” è nostro e ce lo teniamo ben stretto. Siamo però disponibili a gestirlo in modo tale da rendere la situazione meno indigesta anche ad altri, magari condividendo (a nostra discrezione, si capisce) spazi, invitando pastori e teologhe di altre confessioni (di solito senza pagarli: non sono forse adepti della religione del “senza oneri per lo Stato”? E comunque soldi non ce ne sono, tranne che per noi).
Le cose stanno effettivamente così. La sensibilità culturale e l’apertura ecumenica compiono da decenni grandi passi avanti, a patto che i rapporti di forza restino tali e quali. Mi chiedo solo se la loro difesa, comprensibile da parte di chi se ne avvantaggia, richieda di tirare in ballo il significato culturale della Bibbia.
[pubblicato su Confronti 03/2020]
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