Intervista a cura di Marzia Coronati. Giornalista Rai RadioTre
Francesca De Masi, vice presidente della cooperativa sociale BeFree nonché coordinatrice dell’area antitratta. BeFree è una cooperativa sociale contro tratta, violenze, discriminazioni. Nata nel febbraio del 2007, gestisce sportelli e case rifugio per vittime di violenza e di tratta ed elabora progetti nazionali e internazionali. È attiva in campagne di sensibilizzazione e stampa a contrasto di violazioni dei diritti umani e delle discriminazioni di genere.
Come vi siete riorganizzate in queste ultime settimane? Avete dei centri antiviolenza, come stanno vivendo le ospiti questa situazione di emergenza e come riuscite a fornire l’assistenza e il supporto che davate fino a prima della pandemia?
Ovviamente le case rifugio sono aperte, le donne ci abitano e le operatrici lavorano su turni di 24 ore. In questo momento di emergenza stiamo cercando di portare avanti delle attività con loro, con i bambini, ovviamente sempre nel rispetto delle disposizioni a livello sanitario. Abbiamo due case rifugio per donne che fuoriescono da una situazione di violenza domestica e una per donne che fuoriescono da una situazione di tratta di essere umani a scopo di sfruttamento sessuale. Questo per quanto riguarda la Regione Lazio, poi abbiamo un’altra casa rifugio in Abruzzo e un’altra a Campobasso con delle operatrici, nostre colleghe, che come noi continuano con l’assistenza nei centri.
Per quanto riguarda i servizi offerti dai centri antiviolenza diffusi sul territorio, invece, abbiamo ovviamente delle linee telefoniche di reperibilità attive 24 ore su 24 e in caso di emergenza ci rechiamo anche sul posto per fare dei colloqui con le donne che necessitano di supporto. Il nostro lavoro si fa più complesso nel momento in cui dobbiamo valutare, dopo il colloquio con la donna, quale tipo di rischio corre e quali possono essere le alternative e le procedure che possiamo attivare insieme. Una settimana fa la Fondazione Haiku ha finanziato un progetto, per noi molto importante, che prevede tra le altre cose anche la possibilità di dare ospitalità in emergenza presso alcune strutture alberghiere. In una settimana già sono tre le donne che abbiamo accolto in questi residence. Ovviamente non si tratta di luoghi tipicamente adibiti all’accoglienza, quindi dobbiamo supportare queste strutture, che si sono rese disponibili a ospitare queste donne. Le operatrici si recano sul posto per fare i colloqui e dare sostegno, perché non si tratta solo di dare un tetto sulla testa ma di iniziare un processo di elaborazione della violenza subita e un sostegno anche psico-emotivo, che possa favorire processi di empowerment delle donne che escono da una situazione di violenza e che nella maggior parte dei casi devono ricominciare da capo e reinventare la propria vita al di fuori della violenza.
Sicuramente uno dei problemi della pandemia è che ci costringe tutti in quarantena, quindi immagino che per molte donne sia difficile trovare un momento per lanciare un allarme e venire in contatto con voi, visto che il proprio aguzzino si trova sotto lo stesso tetto, magari 24 ore su 24. Che consigli potete dare a queste persone, in che modo possono riuscire a contattarvi, magari c’è un modo più discreto di una telefonata, ci sono altri strumenti…
Le strategie di resistenza delle donne, anche quando sono dentro situazioni di violenza, devono essere messe in evidenza. Le donne sono capaci di essere creative e, anche se con fatica ovviamente, trovare da sole delle modalità. Abbiamo avuto un aumento delle richieste via mail, ad esempio, e proprio per questo stiamo spargendo molto più di prima indirizzi mail dei vari servizi antiviolenza. Alcune donne ci hanno scritto esplicitamente: «vi scrivo questa mail così lui non sente la telefonata». Per questo motivo è molto importante dare delle informazioni chiare alle donne. Le richieste che ci fanno sono quelle in cui ci dicono se possono allontanarsi da casa, anche rispetto alla questione dell’autocertificazione, alla “comprovata necessità”: salvarsi la vita è una comprovata necessità! In alcuni casi abbiamo redatto noi dei certificati per quelle donne, per permettere loro di allontanarsi dalla propria abitazione e fare un colloquio con noi, oppure nel caso in cui stessero stavano scappando di casa e avevano bisogno che fosse BeFree a prendersi la responsabilità nel caso in cui venissero fermate per strada ai posti di blocco delle Forze dell’ordine. Le prime richieste sono state proprio queste ed è importante diffondere queste informazioni quanto più possibile.
Grazie Francesca, queste sono indicazioni fondamentali. Si è registrato un aumento del numero di telefonate ai numeri verdi attivi per le vittime di violenza. Puoi in qualche modo confermare questo dato? Se sì, perché? È tutto dovuto al fatto che si sta di più in casa o ci sono altri motivi?
Per quanto riguarda i dati, per i primi giorni in cui è scattato il Dpcm, abbiamo avuto un calo delle telefonate di donne “nuove”, che per la prima volta chiamavano un centro antiviolenza. Quanto è avvenuto nei primi giorni è anche connesso con il senso di spaesamento e disorientamento generale che tutti noi abbiamo avuto nel dover riorganizzare le nostre vite da casa.
Dopo un breve periodo di una decina di giorni in cui le chiamate sono effettivamente calate, dal 20/25 marzo c’è stata una ripresa. Per quanto riguarda i colloqui di sostegno con le donne che avevano già intrapreso un percorso, ma che continuano ad aver bisogno di sostengo emotivo da parte delle operatrici, abbiamo continuato a farli anche per telefono. Quindi il calo ha riguardato un breve periodo, poi sono ripartite le richieste di informazioni, come quelle sul potersi allontanare da casa. Ovviamente noi operatrici antiviolenza continuiamo a dire alle donne che, se si sentono in pericolo, devono lasciare l’abitazione in cui convivono con il partner.
Per quello che ovviamente avviene nella seconda fase sta a noi trovare una soluzione pratica, e il progetto della Fondazione Haiku va proprio in questo senso, dicendo alle donne non solo “non siete sole”, ma anche “abbiamo una soluzione per voi”. Queste due parti devono essere connesse. In questo periodo infatti, da parte dell’ufficio legale, stanno aumentando le richieste di misure cautelari, e di allontanamento dell’uomo violento.
L’obiettivo delle associazioni femministe, delle associazioni antivolenza, è proprio quello di dare la possibilità alla donna di riprendere in mano la propria vita senza perdere tutto quello che aveva prima. Quindi le misure di allontanamento dalla casa coniugale in questo senso sono una risposta concreta, e permettono alla donna di non essere lei a doversi allontanare, ma il maltrattante. L’ufficio legale sta puntando molto su questo, soprattutto adesso che c’è l’ulteriore difficoltà di trovare dei posti in accoglienza. Questa difficoltà, data dall’emergenza Covid-19, si somma a una difficoltà atavica del contesto italiano, quella per cui abbiamo un decimo dei posti in accoglienza che sarebbero previsti dal Consiglio d’Europa per donne che fuggono da situazioni di violenza. In Italia dovremmo avere 6000 posti, invece ne abbiamo 600, un decimo, per dare un’idea della situazione. Ad una ancestrale mancanza di posti in accoglienza in luoghi specificatamente preposti a sostegno delle donne vittime di violenza si aggiungono tutte queste misure sanitarie che rendono ancora più faticosa la fuoriuscita. I centri di accoglienza del Comune di Roma, quelli non specificatamente adibiti alle donne vittime di violenza, hanno sospeso le accoglienze: lo Sprar, il Sistema Siproimi, la Cooperativa Sociale le hanno sospese, e non mi risulta che i Cas ne stiano facendo di nuove. Quindi diciamo, in maniera molto cruda e anche polemica, che gli unici ingressi che stanno continuando ad avvenire sono quelli nei Cpr, i Centri per il rimpatrio.
I nuovi arrivi non stanno avvenendo, ad esempio negli Sprar, però per chi c’era già dentro i centri funzionano…
Sì, chi era dentro vi sta rimanendo. Anzi, sono state sospese le dimissioni nel senso che la permanenza è stata prorogata a chi l’aveva in scadenza, però non entrano persone nuove. Penso che debbano ancora organizzarsi rispetto alle misure sanitarie. Per quanto riguarda le case rifugio per le donne sopravvissute a violenza, la Regione Lazio ha emanato una lettera con cui si rivolge alle responsabili delle case rifugio, in ragione della quale ogni nuovo ingresso deve essere concordato attraverso una cabina di regia Covid-19, che la Regione ha messo a disposizione per i nuovi ingressi. Se una donna ha bisogno di un posto in una casa rifugio bisogna mandare una mail alla Regione Lazio e organizzare con loro uno screening sanitario per verificare che stia bene. A noi non è ancora capitato di usare questa modalità semplicemente perché le case rifugio erano già piene da prima dell’emergenza Covid-19. Ecco perché abbiamo trovato questa soluzione, anzi ne approfitto per ringraziare la Fondazione Haiku che è stata velocissima nell’erogare questo piccolo contributo, che a noi è molto utile per garantire l’accoglienza fisica delle donne che fuggono da situazioni di violenza.