di Luciana Borsatti. Giornalista e scrittrice
La protesta di un gruppo di religiosi estremisti contro la chiusura dei santuari di Qom e Mashad è solo una delle sfide che Teheran ha dovuto affrontare nel contrastare il contagio.
Si fa presto a dire “estremismo religioso”. La questione può essere infatti molto complessa, e tanto più nella Repubblica Islamica dell’Iran. Dove la massima autorità politica e religiosa, l’Ayatollah Ali Khamenei – in cui pur si riconosce l’ala più conservatrice e tradizionalista del sistema – ha infine sostenuto il governo del pragmatico e moderato Hassan Rouhani nella decisione di chiudere, per l’alto rischio di contagio da Coronavirus, i più popolari santuari del paese a Qom, Mashad e Teheran. Sfidando in questo non solo la devozione popolare – che si è adeguata alle misure –ma anche la rabbia di un gruppo di religiosi radicali che hanno invece reagito dando l’assalto agli stessi luoghi sacri.
I santuari dell’Imam Reza a Mashad, di Fatima Masumeh a Qom e di Shah Abdol-Azim a Rey (Teheran), sono stati in realtà sbarrati ai fedeli solo tra il 15 e il 16 marzo, dopo che il governo aveva già disposto la chiusura di scuole e università il 5 marzo e quella di cinema e teatri il 22 febbraio. Il governo d’altra parte ha atteso il 26 marzo per imporre ufficialmente il distanziamento sociale, il divieto di spostarsi da una città all’altra e la chiusura di gran parte degli esercizi commerciali. Lo stesso governo ha anche già deciso, anche alla luce di qualche segnale incoraggiante nell’andamento dei dati ufficiali, la riapertura di alcune attività economiche “a basso rischio” a partire dall’11 aprile (tranne che nel focolaio di Teheran) e altre dal 18. L’11 tuttavia si contavano oltre 70 mila contagi, fra cui quasi 2.000 nelle precedenti 24 ore, e 4.327 vittime, di cui 125 dal giorno prima. Contestualmente, si erano levate dalle autorità sanitarie inviti alla cautela e voci critiche sull’operato delle autorità anche in ambienti ufficiali. «Allentare le restrizioni non significa ignorare i protocolli sanitari», è stato l’appello di Rouhani.
Nell’incertezza e nei ritardi delle misure hanno giocato molti fattori: dal timore che l’annuncio del contagio pregiudicasse l’affluenza alle urne per le elezioni parlamentari del 21 febbraio (vinte dagli ultraconservatori ma con una media di appena il 40% circa degli elettori alle urne) a quello, ben più rilevante, che un totale lockdown avrebbe rappresentato un irreparabile colpo per un’economia già in grave difficoltà per l’effetto combinato di una serie di disfunzioni interne e di due anni di sanzioni Usa. Tanto che la Banca Centrale iraniana ha chiesto al Fondo Monetario Internazionale un prestito da 5 miliardi di dollari, osteggiato però dagli Usa, proprio per far fronte all’emergenza economica conseguente a quella sanitaria. Nel frattempo, le autorità hanno denunciato le difficoltà di accesso alle forniture mediche determinate dalle sanzioni Usa, trovando un vasto sostegno sia tra i governi che nelle istituzioni internazionali, dall’Unione europea alle Nazioni unite, che hanno chiesto a Washington un allentamento della sua politica di “massima pressione” contro Teheran. È questo l’importante risvolto geopolitico della battaglia iraniana contro il Covid-19; virus che rischia di fare ciò che gli Stati Uniti attendono dal 1979: dare il colpo di grazia alla Repubblica Islamica.
Ma sul piano interno il virus ha messo in moto anche altre battaglie, come appunto quella intorno alla chiusura dei santuari sciiti più venerati. Il 16 marzo un gruppo di fedeli estremisti ha creato una ressa davanti a quello di Fatima Masumeh a Qom, chiedendo che venisse riaperto e infine sfondandone le porte è riuscito ad entrare. Un’analoga protesta si è registrata anche a Mashad, l’altra città santa sciita in Iran.
Secondo il giornalista iraniano Ali Ashem, che ne scrive su Al Monitor, l’attaccamento spirituale degli iraniani per l’Imam Reza, ottavo imam sciita sepolto a Mashad, e per sua sorella Fatima Masumeh «va oltre la religione» ed è «inscritto nella identità collettiva iraniana – e forse è questa una della ragioni per cui c’è voluto tempo per decidere di chiudere quei luoghi». Tuttavia questa necessità è stata sostenuta da molte autorità religiose sciite, dall’Ayatollah Ali-Sistani a Najaf, in Iraq, alla Società dei docenti dei seminari di Qom. Ma osteggiata dai custodi dei due santuari.
Chi sia stato a compiere gli attacchi è un tema controverso. Secondo Radio Farda sarebbero stati seguaci sia di Khamenei, ben presto ricondotti all’ordine, che dell’Ayatollah Sadegh Shirazi: autorità religiosa entrata presto in rotta di collisione con il fondatore della Repubblica Islamica Rouhollah Khomeini e con i principi della sua dottrina politica, ma che si nutre anche di una visione tradizionalista e retrograda dello sciismo (per esempio approvando la pratica di ferirsi con armi da taglio durante i riti dell’Ashura, definitivamente bandita da Khamenei negli anni Novanta in Iran).
Questa corrente è definita dai suoi detrattori degli “sciiti britannici”, ad indicare una visione divisiva ispirata da un nemico esterno, qual’è appunto Londra per il nazionalismo iraniano. «I manifestanti che credono che i santuari abbiamo grandi poteri terapeutici – scrive Maryam Sinaiee – accusavano il governo di seguire le direttive anti-religiose dell’Organizzazione mondiale della sanità». Tanto che a inizio marzo giravano video in cui si vedevano fedeli addirittura leccare le griglie protettive dei sepolcri nei santuari.
Un’ulteriore lettura è quella proposta da Rohollah Faghighi su Middle East Eye, secondo cui nell’ultimo trentennio, dopo la morte di Khomeini, la potente ala ultraconservatrice del sistema avrebbe coltivato stretti rapporti con il radicalismo religioso, per farne uso, quando necessario, nel conflitto politico con l’ala moderata e riformista. In un divario sempre più ampio tra la “destra”, rappresentata dagli interpreti più tradizionalisti della giurisprudenza islamica, e la “sinistra” dei moderati e riformisti. Una tensione costante nel tempo, quella tra le due componenti, in cui la prima ha avuto però la meglio nel detenere posizioni strategiche come il controllo della magistratura, e così poter ostacolare i tentativi riformatori – dal campo economico e politico a quello sociale e culturale – dell’altra.
Tuttavia, le proteste di Mashad e Qom avrebbero colto di sorpresa anche gli ultraconservatori, che pure conoscevano bene quelle frange radicali. Le quali in questo caso sarebbero sfuggite al controllo di chi le manovrava, mostrandosi pronte a sfidare anche l’autorità di Khamenei, che aveva appunto dato il suo benestare alla chiusura dei santuari. Si tratterebbe tuttavia – sempre secondo Faghighi, interpellato da Confronti – di un gruppo di radicali numericamente limitato, una minoranza politica e ideologica che poco o nulla avrebbe a che fare con gli iraniani genuinamente devoti e le famiglie più tradizionaliste. Ma che avrebbe mostrato, in questo caso, una propria autonoma assertività politica, potenzialmente capace di riemergere anche in futuro in altre partite interne cruciali quale, ad esempio, la successione a Khamenei.
Comunque si voglia leggere quegli episodi, un estremismo religioso minoritario – e coesistente con ampi settori della società iraniana largamente secolarizzati – è stato in grado di condizionare le prime risposte al contagio nella Repubblica islamica, contrapponendosi alle indicazioni del governo, benché alla fine si sia dovuto adeguare all’“ultima parola” della Guida Khamenei. La quale ancora una volta, più che un dittatore teocratico come talvolta viene semplicisticamente definito, rappresenta piuttosto un’autorità massima chiamata a mediare tra le diverse anime della classe dirigente e tra molteplici centri del potere. Insomma, si fa presto a dire “estremismo religioso”. È tutto molto più complicato, perlomeno in Iran.