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«It’s an invisible enemy». Metafore belliche e malattia

di Costanza Bonelli

di Costanza Bonelli (Storica della Medicina)

A metà marzo, ammettendo per la prima volta la gravità dell’epidemia di Covid-19 in corso e la possibilità di una recessione economica, Donald Trump dichiarava dalla Casa Bianca: «I think that we’ve done a fantastic job from just about every standpoint. With that being said, you look — no matter where you look, this is something — it’s an invisible enemy». L’espressione che descrive il coronavirus come un nemico trasparente all’occhio umano entrerà da questo momento nel vocabolario quotidiano delle dichiarazioni di Trump, associata all’insistente metafora della lotta al virus come “guerra”. Una retorica funzionale al consolidamento della sua immagine come «wartime president», che troverà largo spazio durante il discorso del 22 marzo.

L’espressione che descrive il coronavirus come un nemico trasparente all’occhio umano entrerà da questo momento nel vocabolario quotidiano delle dichiarazioni di Trump, associata all’insistente metafora della lotta al virus come “guerra”.

A metà mese anche Emmanuel Macron ricorreva alla formula “nemico invisibile” per giustificare l’applicazione delle misure di confinamento in Francia: «Nous sommes en guerre. Pas contre une autre nation, mais contre un ennemi invisible et insaisissable». Un linguaggio condiviso e ripetuto dalle autorità politiche (e non solo) [vedi G. Agamben, Chiarimenti, «Quodlibet», 17 marzo 2020] di diversi Paesi occidentali, non esclusa l’Italia, in cui all’invisibilità del nuovo nemico globale — il coronavirus — fanno non di rado appello le parole del governo, in particolare quelle di Luigi Di Maio (il ministro Di Maio parla di “avversario invisibile” su Twitter il 25 marzo; nuovamente si riferisce al coronavirus come “nemico invisibile” due giorni dopo). 

Lontano dal rappresentare un’invenzione retorica della politica di oggi, la formula che definisce le malattie come nemici invisibili costituisce un’idea consolidata nel nostro discorso pubblico, con radici lontane dall’attualità. Il suo spazio di elaborazione va per di più ricercato non tanto nel linguaggio della politica mediatizzata quanto in quello della scienza, nei suoi processi di costituzione e volgarizzazione — se mai si potesse ammettere una netta separazione fra questi due campi del reale.

Che la terapeutica sia chiamata a lottare contro “nemici invisibili”, che i sistemi di cura debbano combattere contro esseri subdoli, invisibili e molteplici, sono retoriche che accompagnano la medicina occidentale sin dalla sua costituzione come scienza, nella seconda metà dell’Ottocento. Robert Koch, padre della batteriologia tedesca, definiva i batteri «i più piccoli ma più pericolosi nemici del genere umano»; il botanico Ferdinand Julius Cohn, impegnato nella loro classificazione tassonomica, li identificava nel 1882 come «invisibili nemici nell’aria».

Lontano dal rappresentare un’invenzione retorica della politica di oggi, la formula che definisce le malattie come nemici invisibili costituisce un’idea consolidata nel nostro discorso pubblico, con radici lontane dall’attualità.

Non che l’idea del corpo malato come un corpo “invaso”, “assediato” da esseri esterni costituisca una novità nel pensiero medico; la medicina “moderna” di fine Ottocento condivide quest’immagine con le concezioni magiche, demonologiche della malattia, diffuse in tutti i tempi e spazi dell’abitato. La batteriologia di Louis Pasteur e Robert Koch, padri fondatori della medicina che ancora oggi offre la grammatica di base del nostro vocabolario sanitario, darà però un nuovo statuto (e portata) a questa concezione, trasformandola in un principio scientifico, universalmente valido (per le malattie infettive), verificabile nello spazio controllato del laboratorio. Per i medici, da quel momento, le malattie saranno provocate da batteri, ritenuti causa unica e specifica delle affezioni epidemiche, la cui origine era prima cercata in una molteplicità non gerarchizzata di fattori.

La corsa alla scoperta della causa microscopica delle patologie, che procede a ritmo accelerato dalla fine del XIX sec., ha come corollario una nuova concezione della malattia, orientata attorno al principio eziologico. Le affezioni — in questo orizzonte teorico — non sono il prodotto di uno squilibrio o di una disarmonia dell’organismo “globale”, come le immaginava la medicina ippocratica a lungo dominante nel pensiero europeo, ma l’esito di una specifica minaccia esterna (visibile al solo occhio dello specialista). La patologia è dunque un essere che “entra” ed “esce” dal corpo umano (diminuito o aumentato di “qualcosa” ma non in disequilibrio); un’entità che può essere isolata e coltivata grazie alle moderne tecniche di laboratorio, combattuta attraverso le nuove armi della vaccinazione pasteuriana.

Se l’igiene, scrive Koch nel 1902, costituisce un «atteggiamento difensivo» di chi evita i rapporti con il nemico, protetto da un luogo fortificato, la batteriologia di fine Ottocento rappresenta una strategia d’attacco, una medicina “offensiva” che dà la «caccia ai microbi», secondo una formula identificativa della nuova tecnica sanitaria che avrà larga fortuna nelle rappresentazioni culturali di fine XIX e del XX secolo prima di giungere a noi. 

L’individuazione delle cause specifiche delle infezioni trasmissibili e l’elaborazione di tecniche di vaccinazione in vitro da parte della scuola pasteuriana consentiranno alla medicina un nuovo interventismo: un’operatività che sostituisce gli attendismi terapeutici tipici delle epoche precedenti e si traduce in una rappresentazione trionfalistica della capacità dell’azione sanitaria. La fiducia riposta dalla scienza pasteuriana nella possibilità di sradicare dalla società umana le malattie, attraverso un esteso programma di vaccinazioni, ben testimonia il nuovo orientamento che indirizza l’arte medica tra XIX e XX secolo, in cui l’uomo è posto a dominio del male. Georges Canguilhem, filosofo e storico della medicina, non a caso intravedeva nella batteriologia di fine Ottocento il momento in cui il progetto baconiano di dominazione della natura diventa effettivo sul piano della pratica medica, rimasta a lungo ben poco efficace nell’arte della cura e risanamento dei corpi malati.

Sguardo causale ed efficacia terapeutica marcano il tempo della “rivoluzione batteriologica”: non stupisce dunque che la metafora dominante nel linguaggio medico del tempo sia quella della battaglia, dell’offensiva bellica contro un nemico che condivide con l’uomo lo statuto di vivente ma non la corporeità.

Non stupisce dunque che la metafora dominante nel linguaggio medico del tempo sia quella della battaglia, dell’offensiva bellica contro un nemico che condivide con l’uomo lo statuto di vivente ma non la corporeità.

La storia della permeabilità tra linguaggio medico e linguaggio politico è però ben più lunga e ampia di questo singolo episodio di scambio lessicale. Negli anni Settanta dell’Ottocento, poco prima che Koch isolasse in laboratorio i microbi responsabili della tubercolosi e del colera, il fondatore della medicina sperimentale — Claude Bernard — spiegava il funzionamento dell’organismo ricorrendo ai princìpi della divisione del lavoro della società industrializzata: «gli organi sono, per il corpo vivente, ciò che, per la società progredita, sono le manifatture e le industrie, che forniscono ai diversi membri della società i mezzi per vestirsi, riscaldarsi, alimentarsi, illuminarsi». 

Nell’interrogare il corpo (sano o malato) sul piano delle rappresentazioni, si troveranno molteplici e spesso compresenti immagini che hanno nel raccordo fra scienza e politica la loro base costitutiva: la dimensione “politica” dell’organismo e quella “organica” della società sono da sempre questioni che interessano la riflessione umana e ogni epoca ha i suoi centri interpretativi, parole attorno a cui si modellano ambiti del sapere distanti tra loro.

Ci si potrebbe a questo punto chiedere perché l’immagine del “nemico invisibile” abbia lunga persistenza nelle nostre società, tanto da ritrovarla ancora oggi, tra le metafore che sorreggono il discorso pubblico attorno al Covid-19. La risposta a questo interrogativo non può certo essere univoca e va ricercata in una molteplicità di fattori che riguardano, in primo luogo, le scelte dei governi e le loro forme di mobilitazione della cittadinanza ai tempi dell’emergenza; ma la riflessione non può e non deve escludere un esame delle dinamiche che interessano la scienza occidentale e la nostra cultura in materia di salute, sanità, epidemia.

Nel corso dell’ultimo secolo e mezzo, l’incidenza delle malattie infettive sulla mortalità collettiva ha subìto, nel mondo occidentale, un drastico mutamento. Per effetto di una molteplicità di fattori — in cui avanzamenti scientifici, politiche sanitarie e benessere economico si presentano affiancati — la popolazione mondiale ha conosciuto una crescita senza precedenti e un aumento sorprendente delle speranze di vita: in Italia la vita media è passata, tra il 1900 e oggi, da 42 anni a più di 80. I miglioramenti igienici, le scoperte della batteriologia, l’obbligatorietà delle vaccinazioni, il benessere diffuso, l’utilizzo degli antibiotici hanno modificato profondamente il quadro epidemiologico dello spazio europeo nel corso del XIX e XX sec., relegando le malattie infettive a una posizione secondaria, tra le cause di morte, rispetto alle affezioni croniche. Una trasformazione demografica ed epidemiologica non senza conseguenza sul piano delle nostre rappresentazioni culturali. 

Questa ridefinizione della frequenza delle malattie contagiose viene oggi riassunta con la formula “transizione epidemiologica” elaborata nel 1971 dallo studioso Abdel Rahim Omran; un’espressione largamente utilizzata e ripetuta sia in ambiti “tecnici” che divulgativi, usata però spesso senza esplicitare che si tratta di un concetto, oltreché di un’espressione, o meglio di un modello di sviluppo storico.

Omran elaborava le sue concezioni dividendo la storia umana in tre fasi: la prima caratterizzata da epidemie, carestie e alta mortalità; la seconda da crescita economica, miglioramento igienico e incremento demografico, ma ancora dominata dalle malattie contagiose; la terza infine contraddistinta da bassa natalità e bassa mortalità, quest’ultima dovuta principalmente alle affezioni croniche. In questo affresco, l’Occidente occupa la terza fase, fungendo da modello di sviluppo “normale” per tutti gli altri Paesi, destinati a percorrere la stessa strada di redenzione dal contagio.

Il quadro tratteggiato dall’epidemiologo egiziano era sorretto da una visione ottimistica delle capacità tecniche della medicina moderna; una visione che si era andata progressivamente consolidando — di pari passo con i progressi delle politiche di prevenzione — sia nella società civile sia all’interno dei circuiti dell’expertise medica. Il successo della campagna di vaccinazione contro il vaiolo, dichiarato definitivamente sconfitto nel 1979, avrebbe ulteriormente contribuito a rafforzare questo ottimismo, fiducioso nella possibilità di vincere la lotta contro le affezioni epidemiche — sogno costitutivo, si è visto, della batteriologia ottocentesca.

All’interno di questo processo a più tappe si è fatta strada una visione — ora largamente consolidata — che fa della malattia contagiosa, del tempo dell’epidemia, una “irrealtà” per il mondo occidentale e un corollario (ontologico) del restante spazio mondiale. La malattia come evento di massa, come “normale” sospensione dell’ordinario collettivo (e non come percorso e incontro individuale) si è trovata dunque espulsa dal nostro orizzonte mentale e relegata a società umane che si accusano — prestando poca attenzione alla dimensione politica dei processi sanitari — di non aver incorporato, come noi, le tecniche dell’igiene individuale.

I fenomeni di resistenza agli antibiotici, la diffusione di malattie emergenti (tra cui l’Hiv, l’Ebola, la Sars prima del Covid-19) o riemergenti e i fallimenti di alcune campagne di eradicazione lanciate dall’Oms hanno, negli ultimi decenni, incrinato senza intaccare nel profondo questa concezione che eleva l’uomo (occidentale) a una condizione di inattaccabile sicurezza “organica”.

Nonostante le numerose avvisaglie ricevute, siamo dunque ancora nel paradigma culturale della medicina batteriologica di fine Ottocento, all’interno della sua sconfinata fiducia verso le potenzialità della tecnica scientifica, che occulta lo statuto di fragilità dell’uomo. Una fiducia che paradossalmente persiste anche quando la legittimità della scienza è messa in discussione, sostituita da una expertise diffusa, “fai da te”: quando cioè si critica la medicina dei “tecnici” rivendicando ciascuno il proprio statuto e autorità di esperto. La sensazione è, in questo caso, che si pretenda di disfarsi della scienza medica senza mettere in questione l’idea di onnipotenza sul male di cui la medicina moderna è portatrice, continuando cioè ad accogliere il discorso rassicurante sul rapporto uomo-malattia che le è costitutivo.

Nonostante le numerose avvisaglie ricevute, siamo dunque ancora nel paradigma culturale della medicina batteriologica di fine Ottocento, all’interno della sua sconfinata fiducia verso le potenzialità della tecnica scientifica, che occulta lo statuto di fragilità dell’uomo.

Con queste considerazioni non si vuole mettere in discussione il ruolo svolto dalla scienza nella nostra società, ma il carattere di alcune sue rappresentazioni diffuse, che incidono profondamente sul rapporto che intratteniamo con la malattia, la morte, dunque con le nostre fallibilità. Per affrontare questo momento è necessario — più che in altri casi — rafforzare la nostra idea di scienza, senza cadere nella tentazione di estendere all’infinito le sue capacità di intervento sul reale; la medicina “moderna” è come tutte le altre discipline scientifiche, una tecnica umana, i cui processi di formazione sono intimamente legati a fenomeni di volgarizzazione e di ricaduta nel discorso pubblico. Rafforzare la nostra idea di scienza significa dunque rafforzare anche la nostra consapevolezza delle dinamiche che le sono costitutive — e le nostre capacità di riflessione critica —, senza per questo cedere a visioni nostalgiche del pre-moderno e a tentazioni autodiagnostiche.

PER APPROFONDIRE

Canguilhem, Ideologia e razionalità nella storia delle scienze della vita, La Nuova Italia, Scandicci 1992.

Fantini, La storia delle epidemie, le politiche sanitarie e la sfida delle malattie emergenti, in «Ideomeneo», 17 (2014), pp. 9-24.

Christoph, Invisible Enemies: Bacteriology and the Language of Politics in Imperial Germany, in «Science in Context», 13/1 (2000), pp. 9-30.

O. Méthot, Writing the history of virology in the twentieth century: Discovery, disciplines, and conceptual change, in «Studies in History & Philosophy of Biological & Biomedical Sciences», 59 (2016), pp. 145-153.

A.M. Moulin, L’aventure de la vaccination, Fayard, Paris 1996.

Parodi, Storie della medicina, Edizioni di Comunità, Torino 2002.

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