Intervista a Franco Ippolito a cura di Claudio Paravati
Proposto dalla Fondazione Lelio e Lisli Basso, l’appello per la solidarietà sta raccogliendo grande consenso. Una base europea da cui pensare al futuro dell’Europa? Ne abbiamo parlato col presidente della Fondazione, il giurista Franco Ippolito. [per firmare l’appello cliccare qui]
«L’Europa può ancora prendere in mano la gestione della crisi, la quale richiede una risposta omogenea e unitaria, e perciò comunitaria»: è quanto si legge nell’appello redatto da voi della Fondazione Basso. Perché un appello per la solidarietà europea?
Lo stimolo iniziale è partito dall’emergenza pandemica del Coronavirus, e da tutte le incomprensioni emerse nel dibattito europeo fino ai nostri giorni. Ci è sembrato che un appello che provenisse da personalità di diversi Paesi dell’Unione potesse avere di per sé un significato, proprio per la natura geneticamente europea dei promotori.
Questo appello che abbiamo redatto con Luigi Ferrajoli e con Giacomo Marramao, da sempre componenti organici della Fondazione Basso, ha raggiunto in poche ore la sottoscrizione, come promotori, di oltre cento autorevoli economisti, politologi, giuristi, filosofi etc.
Si va da Balibar e Rosanvallon, tra i massimi esponenti della cultura democratica francese, al filosofo Fernando Savater, maestro di etica e di pensiero in Spagna; dal grande giurista tedesco Denninger a Chantal Mouffe, filosofa a politologa di fama internazionale, belga ma che lavora molto in Gran Bretagna. Senza dire delle tante firme prestigiose italiane. Si trovano tutte sul nostro sito.
In migliaia hanno poi aderito all’appello, a riprova che ha intercettato un sentimento diffuso. Di cosa? Di convinto europeismo da un lato, e dall’altro di profonda critica delle politiche che l’Unione europea sta mettendo in atto, non solo oggi, ma negli ultimi anni.
Questa crisi deve portare a una rinnovata Unione europea?
Si vanno intrecciando varie crisi. La crisi sanitaria, sotto gli occhi di tutti; la crisi economica che si aggrava oggi, ma che deriva dalle politiche liberiste e rigoriste con cui si è preteso di rispondere dopo il 2008. Forse la crisi maggiore è proprio una clamorosa crisi dell’Europa come progetto e come realizzazione. Vedo una prevalente radice unitaria: la ripresa delle miopie e delle chiusure nazionali. Tale chiusura è esplosa di fronte ai flussi migratori, e da taluni Paesi e da alcune forze politiche viene riproposta oggi di fronte alla richiesta di iniziative forti richieste dai paesi in maggiore difficoltà di fronte alla pandemia.
La delega che gli stati membri dell’Ue hanno dato alla Turchia di Erdoğan e alla Libia per contenere i flussi migratori, ha costituito una violazione clamorosa dei diritti e della dignità delle persone, il cui riconoscimento è il cuore del fondamento stesso dell’Unione europea. Non riconoscendo le ragioni e i motivi di chi scappa da guerra o situazioni simili, dalla Siria o dalla regione Subsahariana, l’Europa tradisce i propri principi e rinnega se stessa. Nel momento in cui rinnega se stessa e insieme i valori su cui si è fondata, cancella gli ideali del sogno europeo, e lascia così spazio, inevitabilmente, a ricette nazionalistiche e sovraniste, dettate dalla paura e dal timore. Sono in realtà vicoli ciechi: non sono una cura, bensì alimento della malattia. Da tutto questo nasce l’appello rivolto dalla Fondazione Basso.
Gli aiuti economici sono arrivati da Cuba, Cina, Russia. Abbiamo spostato l’asse geopolitico?
Non darei troppa importanza a fatti contingenti avvenuti in questi tempi. Certamente Cina e Russia usano i soccorsi anche per offrire al mondo una faccia più gradevole di sé. Ma bisogna andare ai fatti: noi abbiamo bisogno, come Italia e Europa, di tutti gli aiuti possibili. Dalla Cina, dalla Russia, è arrivato qualcosa; come sono arrivati all’Italia aiuti, non dimentichiamolo, da paesi europei e dalla Germania, che ha accolto pazienti italiani nei propri ospedali. Non abbiamo ancora capito se arriveranno aiuti dagli Stati Uniti. Il presidente Trump, abituato a proclami estemporanei e demagogici, ha fatto grandi promesse di sostegno che forse non potrà mantenere. In realtà gli Stati Uniti in questo momento, paradossalmente, stanno peggio di noi. I livelli della pandemia americana, infatti, stanno esplodendo e si trovano in più gravi difficoltà: non hanno un sistema sanitario pubblico ed efficiente come il nostro, seppur tagliato di risorse negli ultimi decenni da dissennate scelte “rigoriste”. Gli USA hanno un sistema sanitario privatistico, che tutela chi ha un’assicurazione e un reddito. I disoccupati, i poveri, i più vulnerabili rischiano di pagare, anzi sicuramente pagheranno, i prezzi più pesanti.
Non c’entra dunque qui la geopolitica.
Non mi pare. C’entrano di più le logiche del mercato capitalistico, che oggi accomuna USA, Cina, Russia etc. Continuo a ritenere assolutamente perdente la logica di “ogni singolo Stato per sé”. Di fronte alle dinamiche mondiali che coinvolgono non solo le grandi potenze (Cina, Stati Uniti, Russia, India), ma anche i grandi problemi del pianeta (l’ambiente, il riscaldamento globale, la desertificazione crescente, la salute per il rischio permanente di epidemie e pandemie…), di fronte a tutte queste dinamiche, non può esistere un ruolo a autonomo per l’Italia o la Spagna o la Francia, né per la Germania, che pure è il Paese europeo più forte.
Rispetto alle grandi potenze e rispetto a questi problemi del mondo nessuno Stato europeo può avere un ruolo efficace. Bisogna agire come Unione, e non solo a livello economico. L’Unione europea è un mercato di oltre 500 milioni di persone che, se volesse tradurre questa forza economica, in iniziative politiche basate su pace, ambiente, lavoro, sostegno, apertura ai popoli di Paesi meno sviluppati, potrebbe assolvere un ruolo politico, culturale, valoriale di primaria importanza nel mondo. Da questo deriva la nostra convinzione che fuori dall’Europa per noi Italia, per la Spagna, per ogni Paese europeo non c’è prospettiva.
Presidente, per venire alle questioni più interne, nostre, le è caro il fatto di non usare l’espressione “distanziamento sociale”, ma mutare quest’espressione in “distanziamento fisico”. Cosa sottintende questa sua attenzione?
Io credo che questo termine sia stato introdotto nel linguaggio, anche del Governo, all’inizio inconsapevolmente, senza farci molto caso, ma sta diventando non solo un problema di linguaggio, ma anche un problema concettuale. Noi oggi siamo confinati tutti in casa, e come unica modalità di interlocuzione con gli altri abbiamo la tecnologia, abbiamo i telefoni cellulari, internet, i social e così via. Vogliamo creare le condizioni per uscire dall’emergenza esasperando l’individualismo? Non sto criticando l’invito a stare a casa, che, in mancanza di un vaccino, è l’unica maniera ‒ come i dati dimostrano ‒ per rallentare il contagio fino a livelli non pericolosi. Sto dicendo però che l’invito a stare a casa deve essere basato sulla necessità di distanziamento fisico tra le persone, non di distanziamento sociale, perché molti nostri problemi derivano da quanto è stato fatto negli ultimi trent’anni, in cui la società è stata segmentata e la coesione sociale è stata frammentata: ogni pezzo di società si è allontanato dagli altri, soprattutto quel pezzo superiore, quell’1% che detiene le ricchezze maggiori, ben oltre il 50% di tutte le ricchezze che hanno gli altri, è diventato una stratosfera sideralmente lontana dai pezzi di società che stanno sotto. L’uso ripetuto e acritico dell’espressione “distanziamento sociale” rischia, con un’influenza subliminale, di prefigurare, anche per la fase di ripresa e ripartenza, una società di individui con poche relazioni, composta da tanti strati lontani tra loro, mentre abbiamo la necessità di imboccare una strada opposta: ridurre le disuguaglianze, perché sono le disuguaglianze che stanno facendo pagare prezzi inaccettabili alla maggioranza delle persone, a cominciare dai più deboli e vulnerabili.
Gli ultimi pagano come sempre il prezzo più alto…
Sono rimasto turbato, come tanti altri spettatori, dalle immagini di quell’isoletta vicino New York dove si stanno scavando fosse comuni per le persone decedute che non hanno una famiglia, o la cui famiglia non si è interessata dei funerali. I più emarginati, gli ultimi stanno pagano prezzi terribili, senza neppure la dignità di una persona che ha perso la vita. Il mantra “andrà tutto bene” è stato una sorta di scongiuro collettivo comprensibile, ma illusorio. Non tutto è andato bene, anzi tante cose sono andare decisamente male, Riusciremo a uscire nel modo migliore possibile da questa terribile e drammatica situazione solo se ribalteremo l’ideologia che in questi trent’anni ha dominato il mondo, ovvero quella del liberismo economico, della demonizzazione del pubblico e dei beni comuni, della privatizzazione, della realizzazione e dell’arricchimento personale senza considerazione per gli altri, e in cui i poveri sono colpevoli della loro povertà. Si tratta di pura ideologia, intrisa di interessi e profitto di pochi, che ha fallito sul piano economico e soprattutto sul piano sociale ed umano e va finalmente rigettata. Si dice ex malo bonum. Ecco questo grande dramma collettivo, questa tragedia può e deve essere l’occasione di pulizia di linguaggio, di concetti, rimettendo al centro i valori umani fondamentali di dignità di ogni persona, di qualunque età e cittadinanza, di tutela dei diritti fondamentali, a cominciare dal quello alla vita, dalla salute, alla conoscenza, all’istruzione…
Sono convintamente laico, ma – se mi guardo intorno – vedo che oggi i messaggi più fortemente rivoluzionari rispetto ai passati trent’anni, vengono dal massimo rappresentante di una religione, da papa Francesco. Basti pensare alla forza degli appelli in una piazza San Pietro completamente vuota di fisicità, ma piena di umanità, di relazioni umane, di relazioni sociali.
Quindi tenere fermo il distanziamento fisico, ma vivere la socialità: forse questo è l’antidoto verso pericoli anche per politici, di instabilità delle nostre democrazie?
Oggi è a repentaglio qualcosa su cui il secondo dopoguerra del Novecento aveva aperto prospettive di speranza, ovvero la democrazia così come era stata concepita dopo la tragedia dell’Olocausto e le decine e decine di milioni di morti della Seconda Guerra mondiale, causata dal nazismo tedesco, dal fascismo italiano e dal militarismo nipponico.
Una democrazia basata sulla libertà, sulle libertà, sui diritti, e non solo politici e civili, ma anche sociali. In questo la Costituzione italiana ha fatto scuola. I diritti civili sono presenti in quasi tutte le costituzioni del dopoguerra, ma la prima a mettere al centro anche i diritti sociali è stata la Costituzione della Repubblica italiana. In meno di due anni i costituenti, diversi per cultura ed esperienza, cattolici, cristiani non cattolici, socialisti, comunisti, liberali riuscirono a concordare un progetto di Repubblica, di res-publica, come garanzia di tutti che prefigurava una democrazia non solo formale ma anche sostanziale. L’articolo 3 della Costituzione riconosce pari dignità sociale ad ogni persona, senza distinzione di sesso, di razza, di religione, di condizioni personali e sociali, ed aggiunge che: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
Era questo il progetto di democrazia, che vedeva al centro la pari dignità di ogni persona umana. Ora tutto questo comincia a sgretolarsi. Lasciando da parte i regimi autoritari di Erdoğan, di Putin o il regime cinese, ma guardando all’Europa: oggi è stato possibile a un governante come Orban di avere i pieni poteri. Ha saputo cogliere il momento dell’emergenza della pandemia per realizzare il sogno di tutti i nazionalisti e i sovranisti. E in questo – ahimè! – non è solo, perché in Polonia si sta andando nella stessa direzione ed esistono forze politiche in molti Paesi, dalla Germania alla Francia, dall’Italia alla Spagna che strizzano l’occhio a questo modo di fare politica. Ma se ogni Paese cercherà di far prevalere le proprie istanze al grido di “prima gli italiani”, “prima i francesi” non andremo da nessuna parte.
Ecco perché i discorsi sulla necessità di recuperare la socialità vanno di pari passo con quelli sul recupero dei valori della democrazia. Da questa crisi usciremo, ma fa bene Marco Revelli quando rifiuta lo slogan “nulla più sarà come prima”, correggendolo in “nulla deve essere più come prima”. Se non agiamo con determinazione, senza politiche alternative a quelle dell’ultimo trentennio, tutto rimarrà esattamente come prima, le intollerabili disuguaglianze esistenti nella nostra società rimarranno invariate, se non rafforzate, anche dopo l’uscita dall’emergenza.
Tanto per fare un esempio fortemente simbolico: nell’emergenza si discute e si litiga su quali attività chiudere. Si sospendano nel mondo tutti i combattimenti e le guerre, chiudiamo e riconvertiamo in Italia e in Europa l’industria delle armi. Ecco una modalità per prefigurare un futuro alternativo. Utopia? Senza progetti forti non si cambia!
È necessaria una revisione critica profonda del modello capitalistico e consumistico che stanno consumando le risorse del mondo e che ha radicato e amplificato i livelli di disuguaglianza.
È necessario reimpostare le nostre modalità di vita collettiva su basi realmente democratiche, rispettose delle dignità di tutti. E quando dico “di tutti” penso anche ai disoccupati, agli emarginati, ai clochards, a quanti arrivano in Europa su un gommone, alle 30.000 persone ammassate a Lesbo in un campo pensato per tenerne 3.000. I diritti, per essere davvero universali, devono includere anche tutte queste persone. Solo se riuscirà a parlare a tutti, l’Europa potrà inaugurare un modo diverso di guardare e realizzare il futuro.
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