di Stefano Allievi. Sociologo, Professore di Sociologia presso l’Università degli studi di Padova.
Abbiamo arsenali militari giganteschi, e un potere di distruzione immenso. Abbiamo capacità di comunicazione incomparabili rispetto alle generazioni precedenti: e capacità di ascolto, osservazione e spionaggio delle medesime altrettanto avanzate. Ma come sarebbe il mondo se…
In questi tempi di nemici subdoli e invisibili, è il momento giusto per parlarne. Abbiamo arsenali militari giganteschi, e un potere di distruzione immenso: capace di annientare i nostri nemici, ma anche noi stessi, e più volte la nostra terra, e renderla senza vita, o almeno senza vita umana come la conosciamo oggi – senza la nostra specie. Abbiamo capacità di comunicazione incomparabili rispetto alle generazioni precedenti: e capacità di ascolto, osservazione e spionaggio delle medesime altrettanto avanzate.
Ma, così come le grandi infrastrutture del passato (dalle autostrade alle ferrovie, dagli elettrodotti agli oleodotti, e prima ancora ponti e canali), anche le infrastrutture comunicative hanno le loro fragilità, le loro possibilità di essere distrutte o (e questo ancor più che nel passato) deviate nel loro utilizzo: nella grande rete si possono non solo sottrarre informazioni, ma immetterne volutamente di sbagliate, o, come sanno bene gli hacker, ci si può inserire nelle reti altrui e prenderne l’identità e il controllo.
Anch’esse hanno i loro virus, potenzialmente molto distruttivi: e non a caso vengono chiamati così, come quegli altri virus, legati alle malattie, che occupano oggi la nostra attenzione.
Siamo senza difese, di fronte a nuovi virus, a nuove mutazioni, a nuovi ceppi. Almeno transitoriamente, fino alla scoperta di un vaccino adeguato: che avverrà sempre, inevitabilmente, ex-post, dopo aver lasciato sul campo la prima ondata di vittime. E abbiamo scoperto che questo ci fa paura.
Non a caso un cospicuo filone di fantascienza, ma anche di complottismi, si occupa proprio di terroristi o poteri maligni impegnati nel diffondere letali contagi. Una paura collettiva, condivisa, e concretissima.
Al punto che di fronte a questa paura – più ancora che di fronte al virus in sé – siamo disponibili a sacrificare quanto abbiamo di più sacro: la nostra libertà e i nostri soldi. Più di quanto non avremmo fatto per qualsiasi altro problema, e per qualsiasi altra malattia, anche solo potenziale. Questo ci mostra quanto siamo indifesi, di fronte a esso. E spiega perché usiamo un vocabolario tipicamente bellicista per parlarne: combatterlo, difenderci, usando tutte le armi disponibili, prendendo misure eccezionali, contro il nemico.
Non solo siamo, o ci sentiamo, senza difese (le difese immunitarie non ne sono che una metafora e al contempo un esempio). Siamo, ci sentiamo, anche organizzativamente incapaci, preda di emozioni primitive: più ancora che davanti a un nemico in carne ed ossa. Forse più che di fronte ad una invasione aliena.
L’infinitamente piccolo, di cui non sappiamo le intenzioni – e anzi proprio perché non ne ha, perché in qualche modo è preda del caso, dunque capace di generare caos – ci affligge e stordisce anche solo nella sua potenzialità, ben prima che essere una realtà. C’è materia di riflessione: sul livello del nostro progresso, sull’equivalenza (lontanissima dal manifestarsi) tra quello tecnologico e quello sociale, incluso quello etico. Per ora, infatti, prevale la solidarietà. Ma di fronte alla prospettiva – vicinissima, appena dietro l’angolo, inesorabilmente in arrivo – di risorse più scarse, la competizione si farà durissima: tutti contro tutti, e come sempre succede, più forti contro più deboli.
In questo, sì, siamo senza difese. Contro i virus reali e contro i virus virtuali. Contro il nostro prossimo. Contro noi stessi. Le paure ancestrali che riemergono, gli egoismi che rispunteranno, ci mostrano dove dobbiamo investire oggi per evitare di (auto-) distruggerci domani, o di lasciarci distruggere – magari da uno stupido virus – per incapacità di reagire all’altezza dei nostri mezzi: perché il nostro investimento in consapevolezza, cultura, relazioni, organizzazione sociale non è stato al livello di quello in scienza e in tecnologia.
In particolare, non abbiamo investito in approfondimento della nostra capacità di provare emozioni, e del nostro modo di reagire a esse. Emozioni positive, come l’empatia, la solidarietà, il desiderio sincero di aiutare gli altri. Ed emozioni negative, come la paura, l’angoscia, il terrore dell’altro. In queste settimane abbiamo dovuto sperimentare la necessità di chiuderci nelle nostre relazioni primarie e nelle nostre case. Ma questo non basta a risolvere i nostri problemi. Abbiamo bisogno degli altri, per sopravvivere. Dobbiamo scoprire o ri-scoprire soluzioni che ne implichino la presenza e li coinvolgano.
[pubblicato su Confronti 04/2020]
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