intervista a Fabrizio Barca (Economista)
di Claudio Paravati
Qual è il futuro economico che abbiamo di fronte? Come proteggere le fasce più deboli? Come garantire una redistribuzione delle ricchezze più equa? Ne abbiamo parlato con Fabrizio Barca, economista, politico e cofondatore del Forum Disuguaglianze e Diversità.
Il distanziamento sociale a cui siamo sottoposti prefigura un mondo che non sappiamo come riprenderà dopo questa crisi. Il Forum Disuguaglianze e Diversità sta facendo una battaglia affinché gli “ultimi non restino indietro”. Cosa vuol dire?
Vuol dire che come altri shock del passato questo arriva in un contesto già molto diseguale, è in più questa crisi è assai più grave rispetto a quella del 2008. Il rischio dunque è che, prima ancora di capire come uscirne, le diseguaglianze vengano accentuate in modo così forte che le persone vulnerabili siano spinte verso il basso, e messe in una condizione di disperazione dalla sera alla mattina. Stiamo pagando gli errori dei precedenti trent’anni: se una crisi del genere arriva in un contesto di lavoro stabile, un governo può permettersi di non licenziare e pagare i salari; ma con il lavoro a tempo determinato, che ha una scadenza, non si può obbligare un’impresa a riassumere. Una struttura economica fragile, rovinata da trent’anni di neoliberismo, è ancora più esposta a questi eventi. Per questo bisogna intervenire immediatamente e per tutti, arrivare a tutti. Ci sono 21 milioni di lavoratori privati e il governo si è mosso bene per 14, ora ne rimangono 7 a cui provvedere urgentemente. Non si tratta solo dei 3,3 milioni di lavoratrici e lavoratori irregolari. Ci sono i 2,3 milioni di dipendenti a tempo determinato o i 200-300 mila di contractors a chiamata e altri ancora che non hanno più la rete di sicurezza familiare comunitaria perché ognuno deve pensare a sé. Questo è il motivo per cui ci siamo dovuti muovere subito.
A quanto sembra avete delle proposte molto concrete per creare misure di sostegno economico. Avete dato delle idee.
Abbiamo lavorato insieme con ASviS, l’organizzazione coordinata da Enrico Giovannini, e con Cristiano Gori che ha messo in campo tutta la sua esperienza, e abbiamo immaginato due cose che camminano una insieme all’altra. La prima è relativa agli autonomi. Abbiamo fatto un passo importante perché per la prima volta nella storia delle crisi italiane il Governo ha riconosciuto che c’era un lavoro importante, indipendente, che non era tutelato. Ma riteniamo si possa fare ancor meglio,tenendo conto per ogni persona del suo reddito familiare e di quanta attività economica ha perso a causa della crisi. E poi è possibile agire più rapidamente. Poi ci sono i 7 milioni di lavoratori a cui ho fatto riferimento prima. Per loro non si deve procedere realizzando il classico “spezzatino italiano” delle micro categorie, dove è tutelato (o è meglio tutelato) chi ha voce. Poiché esiste, e bene che esista, il reddito di cittadinanza, proponiamo di usarne l’infrastruttura e dare vita durante la crisi (con la stessa tempistica delle altre misure) a un Reddito di Emergenza che operi semplificando le procedure, sfruttando il fatto che l’agenzia delle entrate è già in possesso dei dati di molti di quei lavoratori, grazie alla legge del 2012 che consente di calcolare l’ISEE, eliminando il vincolo relativo alla ricchezza immobiliare, aprendo ai migranti, allentando le sanzioni per gli irregolari. Iin questo modo si può far sapere a chi ha diritto che può ricevere un sussidio.
Inoltre così si affronta seriamente la questione degli irregolari. E non si dica che questo è un “via libera” a coloro che hanno rubato. Prima di tutto perché moltissimi di loro sono costretti a questa condizione, non sono legati ma vittima di criminali. Secondo perché sono in tutto il paese, non solo al Sud. Terzo perché moltissimi di loro in questo periodo effettivamente non possono lavorare. Quarto, perché il fatto che lo Stato li raggiunga li sottrae alla generosità pelosa della criminalità e li avvicina a un rapporto fiduciario nuovo. E da questo, con il concorso delle organizzazioni di cittadinanza attiva – che devono essere sostenuto in questa fase – può nascere un percorso di regolarizzazione della loro vita e del loro lavoro. Verso quei “buoni lavori” che potrebbero crescere – se saremo intelligenti – “dopo” la crisi.
Sul sito Forum Disuguaglianze e Diversità è possibile dunque aderire alle proposte da voi redatte “Nessuno resti indietro per colpa del Coronavirus”. Cosa ha che fare questo virus e questa pandemia con la democrazia? Dobbiamo in questo senso rimanere preoccupati per il futuro della nostra democrazia?
Dobbiamo rimanere vegli perché in questo momento siamo costretti a ricorrere a misure illiberali, che tutti viviamo come doverose, ma di cui vogliamo essere sicuri di controllare le modalità di attuazione e la temporaneità. Temporaneo il reddito d’emergenza, temporanea la illiberalità. Il punto è che la democrazia si esprime attraverso il confronto. La democrazia è sovranità popolare e uguaglianza. Se si lede l’uguaglianza stiamo ledendo la democrazia, che poi si manifesta con la gente arrabbiata e furibonda, che non è più disposta a riconoscere lo Stato come interlocutore.
Il secondo punto fondamentale della democrazia è la partecipazione e il confronto pubblico. Per esempio nelle aree interne del Paese dove è tardato l’arrivo della digitalizzazione, in questo momento i bambini non possono assistere alle lezioni dei loro insegnanti, è questa è una lesione della democrazia. Partecipazione però è anche la possibilità di protestare nel modo giusto durante questa stagione, non smettere mai di farlo, e ricordarci che, anche se siamo stati criticati per aver fatto il Titolo V della Costituzione (il titolo sulle autonomie locali, comuni, province, regioni ndr), decentrando i poteri, si tratta di una riforma che ha tutti gli strumenti necessari per funzionare e che ha avuto problemi perché è stata attuata male. C’è stata tensione nelle prime ore perché non si è fatto adeguato ricorso all Conferenza Stato-Regioni, individuata espressamente dalla Corte Costituzionale per la realizzazione di quelle “Intese” essenziali per tutte le competenze condivise. Come la Salute. Ancora, in quel Titolo V è inscritta all’articolo 118 la sussidiarietà, e il fatto che in quanto cittadini abbiamo il diritto e il potere di esprimere la nostra opinione e che il governo ha il dovere rispondere. Quindi usiamo il Titolo V perché in questo modo il rischio autoritario, cioè il rischio che questa breve stagione di liberalità si consolidi, può essere non solo abbattuto ma possiamo uscirne con una democrazia rafforzata.
L’Ungheria è uno spauracchio o è troppo diversa da questa parte del continente europeo?
L’Ungheria ci sta tutta perché c’è chi ha in testa da tempo il modello del progetto autoritario di Orban, che è un progetto neo-liberale/autoritario. Non dimentichiamo che Orban era un neo-liberale, che poi ha capito che per fare le cose che voleva, cioè gli interessi di pochi, doveva diventare populista/autoritario e regalare qualche nemico al popolo. Ma tutto ciò non nasce con la crisi, perché anche qui è già in atto da tempo una deriva autoritaria. Se l’impatto della crisi è così pesante è perché abbiamo costruito con norme assurde via libera al precariato. Se i metodi di sviluppo e ricerca dei vaccini sono a livello degli anni Sessanta, come dice il Rapporto Brundtland, è perché non è convenuto alle corporation investire in questa direzione. Sono due fra le tante politiche assurde della stagione neo-liberista. Dobbiamo uscirne con un progetto emancipatorio, che aumenti l’accesso alla conoscenza, e torni a valorizzare il lavoro stabile, non dobbiamo uscirne con i nemici alle porte, con l’odio e con la restrizione della democrazia ma con un suo aumento. E qui il rischio dell’orbanizzazione dell’Europa occidentale ci sta tutto.
Nel Dopoguerra i soldi del piano Marshall hanno ricostruito l’Europa, e saldato l’asse politico atlantico. Oggi un piano Marshall chi può permetterselo? Da dove prendiamo i soldi per ricostruire?
Come hanno scritto economisti lontani dal pensiero di alcuni di noi, come Adesina e Giavazzi, in queste ore non bisogna pensare ai numeri, ma agli obiettivi. La domanda è corretta ma i passi da fare sono comunque obbligatori. Come si coprono queste spese? Intanto vanno messi in atto perché bisogna salvare la tenuta del paese; poi certo scopriremo di aver accumulato un debito.
Allora lì entra in gioco l’ipotesi che ha avanzato Mario Draghi, ex Governatore della Banca d’Italia e Presidente della banca centrale europea, e cioè che è un pezzo della storia non tutta la storia, che dobbiamo preservare il sistema produttivo, e che non ne usciremo rapidamente. Anche quando cominceremo ad andare per strada non si tornerà pienamente alla produzione. Per non parlare poi di settori come il turismo che ci metteranno ancora di più a ripartire, e poi vedremo sotto quali condizioni e regole.
Quindi per riprendere le attività ci sarà bisogno di liquidità e quindi bisognerà prestare denaro, dice Draghi, e bisognerà farlo con una garanzia statale; ma una parte di queste garanzie non sarà soddisfatta, alcuni debiti non saranno restituiti e quindi lo Stato deve prepararsi non solo a fare debito per i fondi di queste ore ma anche per quello. Terza cosa, bisogna investire. Abbiamo un apparato straordinario di imprese pubbliche. Sono imprese che stanno sul mercato, che hanno profitti, e sono di grande valore, sono imprese che stanno sulla frontiera della tecnologia, e quindi possiamo dare una missione strategica a queste imprese per avere un indirizzo con cui uscire sui terreni dell’energia rinnovabile, dell’agro-alimentare, del digitale. Quindi l’uscita è fatta anche dell’uso migliore di risorse pubbliche che già esistono. Ciò nonostante ci sarà un conto da pagare e quel conto da pagare dovrà essere coperto dall’intera Europa. Quel debito dovrà diventare in un modo o nell’altro, un debito che non è dell’Italia, della Francia, della Germania o dell’Ungheria ma è un debito complessivo dell’Europa e dei fondi che idealmente ci ha prestato la generazione più giovane, prossima a noi che abbiamo retto questa crisi, per poter dare a loro la chance di avere un mondo migliore. Si può sostenere un debito, se tutti sono convinti che sia servito a qualcosa e se serve a costruire una nuova capacità produttiva, un nuovo modo di essere e fare sviluppo. Quel debito diventerà sostenibile se cambiamo rotta durante questa crisi.
A noi di Confronti sembra che un’Europa più forte possa essere una soluzione a tutto questo? Si può ricominciare da lì per fare cose importanti, che da soli forse non si è in grado di fare? È un’illusione questa o ha un fondo di verità?
Ha un fondo di verità. L’Europa non si è mossa bene nei primi giorni della crisi. Ci siamo sentiti trattati come appestati, e abbiamo sentito più vicini i cinesi e i cubani di quanto non abbiamo sentito gli europei e questo ci dice due cose. Primo, che l’Italia deve ragionare un po’ di più a geometria variabile. L’Europa è fondamentale, ma se dobbiamo costruire dei rapporti con altri paesi dobbiamo farlo su un terreno di solidarietà. Non importa se i cubani e i cinesi lo hanno fatto come mossa geo-politica, sono arrivati i loro medici, ci hanno dato il senso della solidarietà, quindi l’Italia che è una potenza economica deve giocare un po’ più liberamente in un mondo che non riesce ad essere multilaterale. Prendiamone atto. Poi c’è l’Europa. Certo. Uso un’espressione del Presidente del consiglio che, davanti all’attacco di Trump che sembrava voler compare un’impresa che produce vaccini, ha detto che abbiamo le clausole per farlo invece tutti insieme, e dobbiamo dare un segnale. Questo segnale però fatica ad arrivare come ha faticato ad arrivare il segnale della Banca centrale, ci sono volute 24 ore prima di essere corretto. Fa fatica l’Europa. Non è responsabile della salute, ma avremmo avuto piacere se tutti i presidenti del consiglio uniti, magari davanti a un computer, avessero dato un messaggio unico, unitario, forte, di passione, dicendo che avremmo vissuto e combattuto insieme in questa situazione. Possono ancora farlo, possono farlo sul terreno della salute, dello sviluppo dei vaccini. Noi del Forum abbiamo una proposta concreta, che avevamo scritto già prima. Abbiamo detto che l’Europa aveva la chance di costruire tre grandi imprese pubbliche a valle delle 1000 infrastrutture pubbliche di ricerca. Un’impresa sul digitale, un’impresa farmaceutica e della salute europea e un’impresa pubblica per l’energia in Europa. Queste tre cose in questo momento darebbero il senso dell’unità, sono operative e sarebbero sul mercato. Parliamo di un capitalismo diverso che è costruibile e che l’Europa potrebbe aiutare a costruire.
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