di Samuele Pigoni. Direttore della Fondazione Time2. Si occupa di management, progettazione sociale e filosofia.
Lo stato di emergenza dettato da Coronavirus ha destabilizzato le vite di tutti. Chi più e chi meno, ognuno di noi sta perdendo qualcosa ed è difficile, oggi, fare previsioni sul futuro.
Ognuno di noi sta perdendo qualcosa.
Perdiamo abitudini e routine, la ripetizione dell’ordinario che stabilizza il senso delle nostre vite. Perdiamo il contatto fisico con famigliari, amici più cari, colleghi di lavoro, vicini di casa.
I figli non escono a giocare o a bighellonare da una casa all’altra, non vanno a scuola, palestra di convivenza. I nonni non vanno al parco e facciamo la spesa per loro.
Chi di noi è solo non sta al bar, o all’angolo, non si stringe intorno ad una birra via l’altra per portarsi dentro un po’ di famiglia.
In molti perdono i genitori anziani, gli zii, gli amici. Alcuni perdono lo stipendio. Saltano i bilanci.
Altri invece – medici, infermieri, operai, operatori socio-sanitari, amministratori e molte altre categorie di addetti ai servizi – lavorano ancora, perdono il conto delle ore e oggi più che mai la distinzione tra tempo di vita e tempo di lavoro.
Tutti conviviamo con un senso di perdita dell’equilibrio cui eravamo abituati, in una vertigine circolare nella quale il precipitare del singolo è anche il precipitare dell’ordine sociale nel suo insieme. Perdiamo pezzi di noi, mentre ci riconosciamo più che mai interconnessi.
In tutto e per tutto le nostre identità ed esistenze individuali sono parte del destino della specie sulla terra e frutto di scelte politiche, economiche, ecologiche, spirituali, simboliche che facciamo – senza accorgercene – ogni giorno.
La scossa pandemica ci mette a nudo nel senso che svela quanto l’equilibrio in cui viviamo, fatto di regole, ruoli, apprendimenti sia insicuro e impermanente. Forse un po’ ce lo eravamo scordati o forse non possiamo fare altrimenti.
La nostra quotidianità ha bisogno di pensarsi sicura e sufficientemente fuori pericolo. Sarebbe sostenibile vivere osservandoci galleggiare su scelte per nulla sicure e fondate?
Eppure a giudicare dal disorientamento che stiamo vivendo sembrerebbe che le cose stiano proprio così. La realtà cruda, la verità materiale, invisibile e implacabile di un virus, mette a rischio l’enormità dell’economia, lo spazio tra di noi, il rapporto tra noi e lo Stato, degli Stati tra loro e via così.
Dal piccolo al grande tutto trema, come quando stiamo intorno a un tavolo a giocare al gioco dei legnetti in equilibrio uno sull’altro.
Nessuno di noi sa come andrà a finire, nonostante molti giochino a fare gli indovini riempiendo di “rumore digitale” il silenzio – anche impressionante, poetico – delle strade.
Non sappiamo quando e se le nostre vite torneranno alle loro abitudini. Non sappiamo se e come saremo capaci di imparare qualcosa, cambiare qualcosa. Ci sentiamo un po’ tutti impotenti e incerti.
Le prime chiamate tra amici, la sera, avevano un che di euforico, di eccitato. Ora si sospira alla domanda «Come va?» e ci vuole un po’ di impegno per parlare di libri invece che di «Quando finirà?».
È dentro questo senso di perdita l’unico tesoro possibile, l’unica lezione da imparare. In questa perdita fatta di mille esiti possibili e ora così difficili da prevedere.
Fa male da cani, ma quando perdiamo pezzi di noi stessi si dischiudono sempre opportunità per nuove connessioni con l’altro da noi: l’altro come interiorità, l’altro come essere vivente, l’altro come Pianeta.
[pubblicato su Confronti 04/2020]
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