di Paola Schellenbaum. Antropologa. Fa parte del gruppo di studio della Community of Protestant Churches in Europe su “Genere e sessualità”.
Quando uscì La vita sullo schermo (ripubblicato in italiano da Apogeo Education, nel 2013), di Sherry Turkle, antropologa culturale all’Istituto di tecnologia del Massachusetts (Mit) di Boston, mai avrei pensato di ritrovarmi all’improvviso catapultata in un device elettronico per nutrire la mia socialità fatta di culti, incontri, conferenze e festival. Era il 1996, si era agli albori della rivoluzione tecnologica ma l’antropologia – come le persone – annotano i tempi lunghi delle trasformazioni e quanto esse cambino nelle generazioni. Il concetto di tempo sul web è stato stravolto e lo choc causato dal diffondersi della pandemia ha fatto il resto.
Le persone però sono lente e i mondi sociali sono complessi, attraversati da divari di cui il gap tecnologico non è l’unico a rimarcarne le disuguaglianze. In più, si pensava che l’utilizzo di diversi canali, tra il virtuale e il reale, consentisse la vita collettiva che – per quanto trasformata dalla pervasività delle nuove tecnologie – non sembrava ancora stravolta, nonostante i social abbiano mostrato quanta falsificazione e violenza verbale ci sia sul web.
Non solo, ma quel libro aveva anche indicato un approccio interdisciplinare centrato sulla relazione uomo-computer, come si diceva un tempo, essendo la tecnologia uno strumento nelle nostre mani, quand’anche si tratti di fenomeni complessi come l’intelligenza artificiale o il famigerato algoritmo che manipola le nostre scelte di commercio online: possiamo governarla se ci diamo delle norme condivise per la convivenza sociale e democratica, che – lo abbiamo capito ai tempi del Coronavirus – rischia di venire compromessa.
E così con la pandemia ci siamo ritrovati, improvvisamente, a usare le videoconferenze per incontrare le persone. Alcune professioni, dove la relazione è fondamentale, si sono trasferite online ma cosa accadrà alle relazioni sociali nel lungo periodo nessuno può saperlo. In psicanalisi, il “terzo spazio” di interlocuzione e immaginazione dell’oggetto transizionale viene da adulti temporaneamente riconvocato attraverso l’arte, la cultura, i rituali e tutto ciò che Donald Winnicott individuava come gioco. Come per i bambini, anche sul web da questa “vita altra” si entra e si esce marcando una soglia per tornare alla vita concreta.
Potremo allora solo metterci in ascolto profondo gli uni degli altri, “attraverso” queste tecnologie, cioè attraversandole, nella speranza di uscirne positivamente trasformati non solo perché apprezzeremo di più quando ci ritroveremo, ma per la gratitudine verso una modalità relazionale che sostiene e incoraggia in momenti dove invece avrebbero potuto prevalere abbandono, rabbia e paura.
Turkle nei libri successivi riflette sulla “conversazione necessaria” in una vita relazionale piena anche in epoca digitale, individuando tra le criticità il narcisismo generato dai like e la consapevolezza della solitudine. Con un forte impatto nelle relazioni di genere, nella sessualità e affettività, nel desiderio e nell’intimità, nella crescita e nella fiducia reciproca, nell’identità plurali, nella vita familiare e sociale. Tali dinamiche cambieranno profondamente, come già avviene da tempo nelle famiglie transnazionali o tra i rifugiati, dove si sperimenta il living apart together con esiti non del tutto negativi.
Questa sorta di solitudine inclusiva – condizione comune nel lockdown – ha infatti anche suscitato momenti di estesa solidarietà e persino di comunione: la tecnologia visuale è una commistione di vita reale che irrompe sullo schermo, rinsaldando il patto che deriva dalla presenza di un volto (nelle dirette Instagram, Facebook, nei culti online), dove l’empatia a distanza consente momenti di profonda condivisione.
Dopotutto, che la vita fosse rappresentazione e che il teatro fosse la sua scena, ci era già stato annunciato dalle scienze sociali. Oggi queste nuove forme di socialità vanno sperimentate con consapevolezza, in modo da non creare dipendenza, mantenendo un certo autocontrollo e distanziamento. Capacità che nella gestione della pandemia sono diventate essenziali.
Monitorare la qualità della vita in un contesto ipermediatizzato significa scegliere tra le priorità e organizzare il tempo, in modo da favorire la concentrazione. Ricordandosi che le cose importanti nella vita non possono essere accelerate né misurate e che forse la frenata a cui ci ha costretto il virus servirà a ripensare quanto davamo per scontato. D’altronde, variabilità nelle culture e adattamento alle circostanze avverse, sono le risorse principali dell’umanità, in un pianeta che reclama attenzioni e nuovi equilibri.