di Enzo Nucci. Corrispondente della Rai per l’Africa subsahariana.
L’Occidente sta attraversando una delle crisi più profonde della storia recente, ma è in Africa che il Coronavirus ha un potenziale distruttivo anche maggiore.
Il lockdown è un privilegio, la distanza sociale è un lusso. È quanto ho imparato in questi mesi di convivenza forzata con il Coronavirus in Africa. Se in Europa bisogna rincorrere i “disubbidienti” che non accettano l’immobilità domiciliare, nel continente nero vale invece il popolare brocardo “chi si ferma è perduto”.
Una introvabile mascherina chirurgica (da cambiare ogni giorno) venduta dai numerosi e famelici sciacalli (che anche qui abbondano) costa quanto il cibo di 4 giorni per una persona. Una confezione di gel igienizzante da 500 ml per le mani costa più di 8 euro, ovvero quasi 10 giorni di sostentamento. Inoltre l’acqua corrente è appannaggio di pochi fortunati. Nelle enormi bidonvilles (dove risiede la maggioranza della popolazione) bisogna comprarla a caro prezzo dai rivenditori che la consegnano a “domicilio” con carretti.
Almeno 75 centesimi di euro ogni giorno per far fronte alle necessità di una singola persona (per cucinare, lavarsi, bere, pulire ambienti, abiti e stoviglie). Situazione ai limiti dell’impossibile nelle aride aree rurali, dove la siccità è la norma.
Il dottor Daniele Sciuto, piemontese, un passato come medico di emergenza al 118 di Savona, da 4 anni dirige l’ospedale pubblico di Maralal, nella regione Samburu, 400 chilometri a nord di Nairobi. Mi racconta di aver diligentemente messo all’ingresso della struttura una capace tanica d’acqua per far lavare le mani a quanti entravano.
Ha però scoperto che la gente ne beveva avidamente il contenuto perché lì l’acqua è oro. E sprecarla per la mani è un affronto alla miseria…
Insomma se l’alternativa è scegliere tra lavarsi le mani e mangiare, credo che non ci siano dubbi a queste latitudini.
È un sogno pensare di dire alla gente: fate la spesa per una settimana, mettete in cantina cibo e scatolame a lunga conservazione e statevene a casa. L’energia elettrica negli slums non c’è, i più fortunati possiedono al massimo un generatore a benzina da usare per qualche ora. E poi mediamente in un chilometro quadrato vivono centomila persone, ammassate in baracca di misura standard (quattro metri per tre) dove sopravvivono come sardine in scatola non meno di 10 persone.
Qui è tutto informale, per usare una eufemistica espressione socioeconomica. Abitazioni informali ospitano persone che sopravvivono di economia informale: lavori saltuari, pagati a giornata, piccolissimi commerci per tirare avanti nelle 24 ore successive. Insomma impossibile dire “non uscite”, altrimenti non si mangia.
Questa è la prima epidemia che ha avuto un impatto planetario. Ancora da studiare e capire l’impatto che i social hanno avuto sugli strati più deboli (anche culturalmente) delle popolazioni. Qui il cellulare è diffuso quanto l’aria che si respira. Che idea si saranno fatti del Coronavirus coloro che hanno come unica finestra sul mondo i social? Di certo lo stigma dell’infezione è già una realtà.
Il dottor Sciuto mi raccontava di una donna che su consiglio del suo villaggio si è recata in ospedale per accertamenti. La “vergogna” è stata tanto forte da indurla al suicidio. Quanti casi come questo di cui non verremo mai a conoscenza?
Coprifuoco notturno e stato di emergenza sono state le prime misure prese da molte nazioni (Kenya, Sudafrica, Senegal, Sudan, Costa d’Avorio) per fronteggiare l’epidemia. Ma già ci si chiede se queste scelte draconiane vadano nella giusta direzione. Sarà servito a qualcosa chiudere le scuole? Molte famiglie mandano i figli a studiare per garantire loro almeno un pasto al giorno. Ora i bambini sciamano liberi per le strade alla ricerca di quel cibo “negato” dalla chiusura forzata. Significa nei fatti avere degli incubatori di infezione in libera uscita. Forse bisognava garantire loro anche un posto letto e tenerli insieme, suggerisce qualche esperto.
Su Mail & Guardian, prestigioso settimanale sudafricano, Alex Broadbent, professore dell’Università di Johannesburg, scrive: «Quando ci blocchiamo, facciamo una scelta. Stiamo salvando la vita di alcune persone anziane e causando la morte di alcune persone più giovani, in particolare i bambini, che sono maggiormente a rischio di malnutrizione e malattie di
povertà».
Ed il professor Broadbent si chiede: «Esiste un’alternativa al blocco? La quarantena regionale può essere più efficace in Africa. Gli anziani dalle aree urbane tornano spesso nelle aree rurali di origine. Nei villaggi potrebbe essere più facile separare gli anziani dai giovani rispetto alle città affollate e alle baraccopoli dove il blocco è una sciocchezza».
Insomma lo spettro dell’epidemia si aggira sull’Africa con una potenzialità di danni ben maggiore che altrove.
[pubblicato su Confronti 05/2020]
Enzo Nucci
Corrispondente della Rai per l’Africa subsahariana