di Gaetano De Monte. Giornalista
L’emergenza Coronavirus ha reso ancor più evidente una questione politica che riguarda tutto il Paese, da Nord a Sud: quella delle disparità sanitarie tra le diverse regioni. Disuguaglianza persino peggiorata da quando sono state introdotte quelle disposizioni che hanno avuto, nei fatti, l’effetto ultimo di avvantaggiare il privato convenzionato.
Che ci sia stata negli ultimi venti anni in Italia una forte riduzione degli investimenti pubblici nel Sistema sanitario nazionale, è ormai un fatto riconosciuto da diversi esperti ed economisti.
In un suo recente articolo [www.eticaeconomia.it] Gianfranco Viesti – docente di Politica economica all’Università di Bari – rileva come tale riduzione finanziaria «della spesa per investimenti in sanità in questi 18 anni è stata poi molto squilibrata territorialmente». Viesti ha calcolato che: «dei 47 miliardi totali, oltre 27,4 sono stati spesi nelle regioni del Nord, 11,5 in quelle del Centro e 10,5 nel Mezzogiorno». Non soltanto. Colpiscono per disparità evidenti i calcoli fatti sulla spesa nazionale in termini pro-capite, i quali mostrano che: «a fronte di una spesa nazionale media annua di 44,4 euro, quella nel Nord-Est è pari a 76,7, cioè, tre quarti più alta della media; mentre quella nelle Isole è pari a 36,3 euro e nel Sud Continentale a 24,7; al Centro e al Nord-Ovest le cifre della spesa si attestano intorno alla media nazionale».
Dei 47 miliardi totali, oltre 27,4 sono stati spesi nelle regioni del Nord, 11,5 in quelle del Centro e 10,5 nel Mezzogiorno.
Quanto poi queste differenze siano dipese dalle scelte politiche delle amministrazioni regionali, dalla difficoltà di realizzazione degli investimenti, oppure dai criteri complessi di finanziamento e ripartizione delle risorse sanitarie, è una analisi, questa, che Viesti lascia volentieri agli «specialisti del settore», limitandosi, infine, a ricordare che «diverse regioni italiane, prevalentemente nel Mezzogiorno, sono state sottoposte negli ultimi anni ai meccanismi finanziari determinati dai Piani di rientro, con conseguenze molto serie sulle capacità complessive di spesa».
UNA STORIA DISEGUALE
Risposte ancor che parziali a queste domande sulle responsabilità li aveva dati già lo scorso 2 dicembre l’UpB, l’Ufficio parlamentare di Bilancio, che pubblicando il rapporto Lo stato della sanità in Italia [www.upbilancio.it], aveva riconosciuto che: «la regolazione sempre più rigida e il controllo centrale progressivamente più stringente sulla gestione dei Servizi sanitari regionali solo con ritardo sono stati diretti a garantire il rispetto uniforme sul territorio dei livelli essenziali di assistenza».
Come dire che alcune regioni del Mezzogiorno, ma anche il Lazio ad esempio, sottoposte a commissariamento, sono state costrette a non investire più nel miglioramento della propria sanità, ma soltanto a ripianare il debito nazionale con gli interessi che andavano aumentando, allo stesso tempo, così, a rinunciare alla qualità delle prestazioni per i propri cittadini. Ad aggravare il quadro, si aggiunge che – come hanno ammesso dallo stesso Ufficio parlamentare di Bilancio: «le Regioni sottoposte a piano di rientro presentano, oltre agli squilibri economici, elevata mobilità passiva e livelli delle prestazioni non soddisfacenti».
In sostanza, significa che a causa della eccessiva mobilità dei cittadini di alcune regioni in particolare (vedi alla voce “viaggi della speranza”) costretti a curarsi in altre regioni “sviluppate”, questo stato di cose implica un ulteriore trasferimento di fondi dalle regioni del Sud, ma anche dalle Marche e dal Lazio, verso la Lombardia, l’Emilia Romagna, il Veneto e la Toscana. Detto in altri termini e citando alla lettera quanto riconosciuto dal Centro studi parlamentare: «Tali regioni oltre ad avere
meno risorse da investire nei propri servizi sanitari regionali, contribuiscono, da un lato, a finanziare i servizi sanitari (e in definitiva il sistema economico) delle altre regioni, e, dall’altro, ad affollarli».
Tali regioni oltre ad avere meno risorse da investire nei propri servizi sanitari regionali, contribuiscono, da un lato, a finanziare i servizi sanitari (e in definitiva il sistema economico) delle altre regioni, e, dall’altro, ad affollarli.
LA CALABRIA E I SUOI “PRIMATI”
E se c’è una unità nazionale, invece, che si rivela nel tempo della grande pandemia, è quella lunga storia di “saccheggio” della sanità pubblica, da Nord a Sud, che si deve tenere a mente quando si scopre che negli ospedali mancano i posti letto per i pazienti, le ambulanze, i dispositivi di sicurezza per gli operatori sanitari che si sono ammalati a migliaia. Una “rapina di risorse” fraudolenta a cui ha concorso una classe politica di ogni colore e quasi in ogni regione; resa evidente, negli anni, dalle numerose truffe scovate dai magistrati al sistema sanitario nazionale, dai commissariamenti di alcune Asl per infiltrazioni mafiose e dalle voragini finanziarie che hanno travolto i loro bilanci.
Senza dubbio, in termini di debiti accumulati e di disservizi nel garantire i livelli essenziali di assistenza, la regione Calabria è quella che se la passa peggio delle altre. Da oltre dieci anni la sua sanità è commissariata e ora sotto il controllo dei commissari si trovano pure le Asl. In virtù di quanto è stato previsto dal cosiddetto Decreto legge Calabria del 30 aprile 2019 fortemente voluto dall’ex ministra della Sanità Giulia Grillo, con cui, di fatto, il Governo ha esautorato la Regione dalla gestione della Sanità per 18 mesi attraverso la formazione di una super struttura commissariale; e con il super commissario, che, appunto, può sostituire con altri sub-commissari sia i direttori generali delle aziende sanitarie che di quelle ospedaliere.
Il risultato è che, dallo scorso anno l’intera struttura è nelle mani di un ex generale dei carabinieri, Saverio Cotticelli, ma la sanità regionale continua a soffrire di una sorta di “maledizione”; come era stata definita qualche anno fa davanti alla Commissione parlamentare igiene e sanità del Senato dal commissario precedente Massimiliano Scura: “la maledizione dell’ultimo posto”. Nel senso che – come si legge nel libro Calabria malata. Sanità, l’altra ’ndrangheta di Massimo Scura (Pellegrini, 2019) – la regione Calabria era, allora l’«ultima a non aver ancora istituito l’autorità garante dei diritti dei detenuti, dove le cinque province occupavano gli ultimi posti nella graduatoria sulla qualità della vita del Sole 24 Ore».
Non solo, la Calabria risultava, infatti, come l’«ultima regione nelle donazioni per trapianto organi. Con il livello di griglia di Lea [Livelli essenziali di assistenza] più basso». Ma al primo posto nel «pagamento ai privati a consuntivo con decreti adottati a ottobre-novembre dell’anno in corso, senza alcuna programmazione e selezione della produzione; nell’assenza di qualsiasi tipo di relazioni sindacali; con il tasso di assenteismo nel settore pubblico più alto d’Italia». Un problema culturale, lo considerava il commissario Scura. Forse più un problema politico, se è vero che, per dire, ancora oggi la Calabria detiene il record dei Comuni sciolti per infiltrazioni mafiose.
UNA QUESTIONE POLITICA
Una questione politica che riguarda tutto il Paese, da Nord a Sud, comunque, è quella delle disparità sanitarie tra le diverse regioni. Ed è una storia che risale al 2001, da quando la regionalizzazione della sanità attuata con la riforma del Titolo V della Costituzione, attribuendo ampie funzioni alle Regioni in materia di organizzazione e di gestione dell’offerta sanitaria, aveva reso evidente da subito che alcune di esse non sarebbero state in grado di erogare livelli minimi garantiti di assistenza nel rispetto dell’equilibrio di bilancio.
Una disuguaglianza tra luoghi d’Italia che è persino peggiorata dal 2007, da quando, cioè, sono stati introdotti i primi piani di rientro regionali con il blocco del turn-over dei dipendenti e la diminuzione dei posti letto, che hanno avuto l’effetto ultimo di avvantaggiare il privato convenzionato. Mentre «sarebbe opportuno prevedere, accanto al controllo della gestione economico-finanziaria, forme di affiancamento e di supporto tecnico al processo di riorganizzazione della rete ospedaliera, di potenziamento della rete territoriale e di miglioramento del servizio reso».
Sarebbe opportuno prevedere, accanto al controllo della gestione economico-finanziaria, forme di affiancamento e di supporto tecnico al processo di riorganizzazione della rete ospedaliera, di potenziamento della rete territoriale e di miglioramento del servizio reso.
Era il 2018 e questo si leggeva in un rapporto – La sanità in italia: il difficile equilibrio tra vincoli di bilancio e qualità dei servizi nelle regioni in piano di rientro – redatto dagli economisti della Banca d’Italia: «nel rispetto dei vincoli di bilancio, sarebbe in questo modo possibile garantire a ciascuno, nel proprio territorio di residenza, il soddisfacimento del principio costituzionale secondo il quale la tutela della salute rappresenta un fondamentale diritto dell’individuo».
[pubblicato su Confronti 05/2020]
Gaetano De Monte
Giornalista