di Igiaba Scego. Scrittrice, ricercatrice e giornalista.
La parabola artistica della regista Sarah Maldoror traccia un modo nuovo di raccontare la lotta dei neri, la lotta per un futuro possibile, anche, da una prospettiva di genere.
I canti di Maldoror di Lautréamont (questo lo pseudonimo del poeta Isidore Ducasse) sono da annoverare tra i risultati più densi e interessanti di quello che le antologie scolastiche per molto tempo hanno definito “maledettismo ottocentesco”.
Lautréamont in questi chants vedeva l’artista come “un’anima persa”, una sorta di “angelo decaduto”, un emarginato reso poeta proprio da questa esclusione dal mondo.
È questo suo essere maledetto e al lato della vita che di fatto poi lo rende più consapevole non solo del suo ruolo, ma di una società miope e sorda che lo circonda.
Un poeta Lautréamont che ha fatto dell’apocalisse e dello studio del male che ne è sprigionato una missione. Il suo canto quindi è una ribellione contro Dio, la società, i propri simili e forse anche la propria vita.
E a questi canti che una donna nera di nome Sarah Durados si ispira. Le sono entrati così dentro che un giorno decide semplicemente di cambiare cognome e assumere quello dei canti, Maldoror appunto.
Sarah, ormai Maldoror, sente finalmente così di essere se stessa, un’anima in conversazione con la marginalità e che grazie alla sua posizione di sbieco riesce a cogliere il tumulto tellurico della società contemporanea.
In questa scelta forse è già scritto il destino di Sarah, quello di saper vedere oltre, sempre dove lo sguardo non arriva.
Non è un caso che sarà proprio lei la prima donna nera a girare un film in Africa.
Aveva grinta Sarah Maldoror e chi l’ha conosciuta sapeva quanto era instancabile e creativa. Sarah come molti è caduta nella trincea del Coronavirus, a 91 anni, ma ha lasciato al mondo un esempio di caparbietà creativa unico al mondo.
Il periodo in cui crebbe artisticamente fu il momento delle indipendenze africane, momento di grande tripudio.
Il suo percorso è sempre stato estremamente politico.
È del 1956 il suo progetto Le Griots, una compagnia formata da attori afrodiscendenti che rifiutavano i ruoli stereotipati che gli venivano cuciti addosso. Una forma teatro che cercava un nuovo linguaggio, delle nuove forme.
Nel suo cammino si sono avvicendate tante avventure: un viaggio a Mosca, un compagno come l’angolano Mario Pinto de Andrade legato ai movimenti di liberazione nazionale del suo Paese e una voglia matta di cambiare il mondo. La sua vita era percorsa da un flusso, da una vita che voleva essere vissuta fino in fondo. E questo la porterà al cinema.
La storia di Sarah Maldoror è già leggenda per molti, le tappe forsennate di una esistenza che ne conteneva almeno cento.
Ed eccola Sarah lavorare come assistente di Gillo Pontecorvo ne La battaglia di Algeri e poi di prova in prova dove arriva lei a dirigere, prima un cortometraggio che ha preso spunto da un racconto di José Luandino Viera, Monangambee, e poi un suo lungometraggio, che sviluppa il corto, Sambizanga dove l’attenzione è tutta incentrata sul personaggio femminile, Maria, alla ricerca del compagno, partigiano dell’indipendenza, torturato.
Sarah Maldoror ha tracciato una via.
Ha dimostrato quando quasi nessuna aveva il coraggio di mettersi davanti ad una macchina da presa che un occhio femminile poteva raccontare la lotta dei neri, la lotta per un futuro possibile, anche da una prospettiva di genere.
Dimostrando anche che un occhio femminile non era meno politico di quello di un uomo.
Ora la sua assenza ha un peso, ma le generazioni nuove potranno rispecchiarsi nel suo lavoro, e scoprire che anche quando tutto sembra impossibile da descrivere, c’è sempre l’occhio del regista, e se donna ancora di più, che vede oltre le barriere e oltre le frontiere. Rest in Power Sarah Maldoror.
[pubblicato su Confronti 05/2020]
Igiaba Scego
Scrittrice, ricercatrice e giornalista