di Andrea Mulas. Ricercatore Fondazione Lelio e Lisli Basso
Sarebbe auspicabile che il frutto di queste settimane regolamentate dallo stato emergenziale fossero tante domande. Sì, sul grado di alfabetizzazione digitale del corpo insegnante, sulla sua funzione chiave nella società, sulle strutturali disuguaglianze scolastiche, sulle dotazioni delle Ict [Information and Communications Technology] a disposizione sia degli istituti scolastici che degli studenti, sui limiti dell’infrastruttura digitale nazionale e sull’accesso veloce alla Rete in ogni borgo. Ma non basta. Sul ruolo sociale e culturale degli insegnanti, sull’importanza della comunità scolastica, sull’apprendimento tramite l’«azione educativa» (per dirla con il maestro Franco Lorenzoni).
Non si tratta di giudicare il “Sistema scuola” alle prove con le difficoltà emergenziali. Anzi, i genitori in questi giorni di sospensione delle attività scolastiche hanno probabilmente compreso quanto sia difficoltoso, determinante e spesso incisivo il ruolo del corpo docente. Si tratta di capire, ancora prima, con quali contenuti rinnovare e rilanciare l’officina educativo-culturale italiana.
Al di là dei limiti oggettivi emersi in queste settimane dalla disomogenea e improvvisata messa in campo della didattica a distanza (Dad) affiancata da alcuni strumenti di supporto del Miur in collaborazione con la Rai, come La Scuola in Tv, Scuola@Casa e La Banda dei FuoriClasse, o altre piattaforme più strutturate come la Treccani scuola, il baricentro del dibattito dovrebbe spostarsi dal come al cosa.
Il deficit del divario digitale ha delle preoccupanti ricadute sociali ed economiche, ma è necessario focalizzare maggiormente l’attenzione sull’analisi degli effetti che lo stato emergenziale produce sulla comunità scolastica e sulla rete di relazioni umane ad essa connesse. Si pensi agli incontri di Gianni Rodari, oppure alle indimenticabili lezioni di Non è mai troppo tardi di Alberto Manzi, alla classe di don Milani, per arrivare agli insegnamenti di Franco Lorenzoni, che nella descrizione di una delle sue numerose attività racconta: «verso la fine della prima elementare ho domandato ai bambini: dove si nasconde la matematica? Ho poi attaccato tra le due finestre un grande cartellone giallo avorio su cui chi voleva, quando voleva, poteva scrivere ciò che pensava di quella domanda». Un piccolo esperimento che ci fa cogliere il senso della comunità educante, orizzonte e fulcro dell’impianto relazionale scolastico, e che richiama le elaborazioni di Paulo Freire riguardo l’interazione docente/studente: «nessuno educa nessuno […]: gli uomini si educano in comunione, attraverso la mediazione col mondo». Fa riflettere l’analisi della sociologa Chiara Saraceno sull’impatto dell’emergenza sanitaria, la cui ricaduta «è più grave per i bambini e i ragazzi, perché incide sulle opportunità di sviluppo delle loro capacità, con effetti di lungo periodo, nonostante le iniziative e gli sforzi di molti bravi insegnanti che vedono disperdersi il lavoro di costruzione di rapporti di fiducia e di impegno». Come non accogliere allora l’appello del Movimento di cooperazione educativa (Mce) Abbiamo bisogno di scuola non di voti, che propone una «pedagogia differenziata per tutti che non si configuri come una pedagogia del recupero destinata solo ad alcuni, bensì come atto ordinamentale che segua l’evoluzione del singolo allievo, in modo tale da descriverne i traguardi formativi, in rapporto agli obiettivi curricolari personalizzati».
Le risposte di cui sopra potrebbero aiutarci ad approfondire il dibattito sulla democratizzazione del sapere nel nostro Paese, garantendo di conseguenza maggiore attuazione possibile dall’art. 3, comma 2 della Costituzione e «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana». Per una società dinamica il principio di uguaglianza sostanziale in questa crisi è un’opportunità ed è una sfida, dalla quale si può immaginare la costruzione di una collettività più inclusiva, più solidale, più tollerante, più ricca.
Questo è il punto: il binomio istruzione/democrazia è inscindibilmente connesso. Perché non ripartire dall’esortazione di Gianni Rodari che rende bene il senso della prospettiva cui mirare: «tutti gli usi della parola a tutti, mi sembra un buon motto, dal bel suono democratico»? La scuola deve dare impulso alle istanze culturali, sociali e formative. Non è un caso se il pedagogista Raffaele Laporta nel suo La comunità scolastica (1963) chiedeva una «scuola capace di formare delle personalità democratiche» e chiariva che per farlo, scuola e insegnanti dovevano «funzionare come comunità». Anche Manzi, il “maestro d’Italia”, sia negli appuntamenti di Non è mai troppo tardi che nelle pagine della sua trilogia sudamericana, ha evidenziato la funzione sociale dell’alfabetizzazione, parlando di «tensione cognitiva» che spinge l’alunno a voler sapere, ad aver voglia di scoprire qualcosa di nuovo. È quel sapere freiriano che esiste solo «nell’invenzione, nella re-invenzione, nella ricerca […] permanente che gli uomini fanno nel mondo e con gli altri». Sembra fargli eco Linda Bimbi quando negli anni Settanta era impegnata a liberare l’uomo, a «dargli la parola, ascoltarlo, farlo soggetto», in quanto concepiva l’educazione come «un momento del processo globale di trasformazione rivoluzionaria della società». Cardine e puntello del progresso di una società e della cittadinanza del futuro il sistema scolastico incide sulla scala di uguaglianze/disuguaglianze del Paese, delinea i diversi gradi di inclusione/esclusione, influisce sull’emarginazione/inclusione di una persona.
Il nocciolo della questione è il rapporto fra educazione, libertà e uguaglianza in funzione del progresso socio- economico e culturale del Paese. La scuola rappresenta per numerose ragazze e ragazzi l’unica leva di riscatto sociale ed economico, e in quanto tale è urgente recuperare la sua centralità, ma dall’ultimo Rapporto Ocse Education at a glance 2019 è emerso che l’Italia spende circa il 3,6% del suo Pil per l’istruzione dalla scuola primaria all’università, una quota inferiore alla media Ocse del 5% e uno dei livelli più bassi di spesa tra i Paesi dell’Ocse. Per non parlare degli allarmanti dati sulla dispersione scolastica. Come ha puntualizzato Luigi Ferrajoli nel suo Manifesto per l’uguaglianza (2018), esiste «un rapporto di interazione tra disuguaglianze e discriminazioni che fa delle une un fattore e un moltiplicatore delle altre». Tanto che le indagini empiriche hanno mostrato che «le disuguaglianze si ereditano, dipendendo dalle differenze di condizioni personali e sociali, dalle opportunità offerte dalle relazioni familiari, in breve dalla nascita ben più che dal merito, ed operano a loro volta come ulteriori fattori di discriminazione e, di nuovo, di disuguaglianze». Si tratta allora di scardinare questo circolo rovinoso, di unire tutte le forze dinamiche impegnate sul fronte e immettere nell’agenda politica del Paese, come suggerito dal Forum disuguaglianze e diversità (Fdd), «l’uguaglianza effettiva in campo educativo e, dunque, il tema del fallimento formativo di massa in Italia e, insieme, della povertà minorile ed educativa». La sfida, come l’aveva teorizzata Tullio De Mauro, è una società «in cui tutte e tutti possano essere, a turno, governati e governanti, e quindi tutte e tutti abbiano una sufficiente dote di competenze per muoversi liberamente nello spazio delle società e delle culture»
Andrea Mulas
Ricercatore Fondazione Lelio e Lisli Basso