di Rando Devole. Sociologo
Abbattere il Teatri Kombëtar a Tirana è stato come se a Napoli abbattessero il San Carlo per costruirne uno più moderno ed imponente, oppure a Milano La Scala per far posto ad un avveniristico super mega Teatro, o L’Opéra a Parigi, il Metropolitan a New York, il teatro Bolshoi a Mosca, la Royal House a Londra, la Fenice a Venezia. Si dirà sorridendo che il Teatri Kombëtar di Tirana non era il San Carlo… sì, ma anche il San Carlo non è La Scala e La Scala non è L’Opéra che non è il Metropolitan che non è il Bolshoi che a sua volta non è la Royal House che non è la Fenice. E questo perché? Perché ogni paese ha il suo di Teatro.
(Patrizio Ranieri Ciu e tutti gli artisti di Fabbrica Wojtyla & Compagnia della Città)
La notizia della demolizione del Teatro Nazionale a Tirana ha sconvolto l’opinione pubblica albanese ed è stata pubblicata da molti media internazionali. Una notizia sconcertante che continua a fare il giro del mondo, spesso tra l’incredulità e l’incomprensione di un pubblico che stenta a decifrare fino in fondo quanto è accaduto. Il fatto è che l’immagine del crollo dell’edificio del Teatro contiene significati plurimi e la sua stessa fine tragica è in realtà una chiave di lettura per comprendere l’Albania di oggi e di ieri.
Bisogna riconoscere che se la realtà dell’Albania non è semplice da comprendere, tanto meno lo è contestualizzare la demolizione di un edificio in una città-cantiere come quella di Tirana. Bisogna aggiungere poi che l’Albania rimane sostanzialmente sconosciuta all’opinione pubblica al di fuori dei suoi confini, anche se negli ultimi decenni se ne parla di più, e tanti occhi turistici hanno potuto ammirare le sue bellezze naturali e storiche. Con poche eccezioni, l’Albania viene letta frequentemente con i soliti cliché e stereotipi, di vecchia e nuova fattura, che devono fare i conti, tra l’altro, con efficaci narrazioni e operazioni di immagine che riescono talvolta a varcare i confini nazionali.
Un atto eloquente
Un atto del genere, eseguito di notte, di sorpresa e durante la pandemia, quindi in un momento ideale per evitare manifestazioni e contestazioni, per mettere tutti davanti al fatto compiuto, non sarebbe tollerabile in nessun paese democratico, dove scoppiano polemiche feroci sull’uso dell’emergenza e sulle tendenze autoritarie per molto meno.
Il 17 maggio 2020, verso le 4.30 del mattino, l’edificio del Teatro Nazionale e l’area circostante sono stati circondati dalle forze dell’ordine. Centinaia di poliziotti in tenuta antisommossa hanno fatto irruzione per sgomberare la sede dagli artisti che protestavano da tempo contro la sua demolizione. In poco tempo, tra le grida dei manifestanti e gli occhi increduli dei testimoni, la ruspa ha potuto colpire ed abbattere la prima facciata del Teatro Nazionale per continuare dopo con la parte del Teatro Sperimentale e il resto. Il giorno seguente i bulldozer e i camion erano già al lavoro per togliere le macerie delle strutture abbattute.
I media albanesi hanno riportato accuse degli attivisti dell’Alleanza per la Tutela del Teatro, secondo cui la ruspa ha iniziato la sua opera distruttrice incurante del fatto che diversi protestanti si trovassero ancora dentro nell’edificio.
L’incursione per la demolizione del Teatro Nazionale, evidentemente non improvvisata, è stata a dir poco non usuale nelle sue modalità. A cominciare dall’ora in cui si è consumata. Normalmente gli edifici si abbattono alla luce del sole, anzi sotto gli occhi delle telecamere, non di notte e in fretta e furia; senza menzionare l’elemento sorpresa che ha colto alla sprovvista non solo i contestatori ma tutta la popolazione.
Ma l’aspetto più rilevante è il periodo in cui si è consumato l’atto di distruzione: l’Albania era in piena emergenza sanitaria a causa della pandemia del Covid-19, quindi sotto rigide misure restrittive alla mobilità delle persone.
Appare evidente che la demolizione sia stata pianificata per sfruttare le condizioni del lockdown, prima che cominciasse il suo allentamento. Un atto del genere, eseguito di notte, di sorpresa e durante la pandemia, quindi in un momento ideale per evitare manifestazioni e contestazioni, per mettere tutti davanti al fatto compiuto, non sarebbe tollerabile in nessun paese democratico, dove scoppiano polemiche feroci sull’uso dell’emergenza e sulle tendenze autoritarie per molto meno.
Reazioni dopo l’abbattimento
Sebbene in un periodo straordinario, la demolizione del Teatro Nazionale di Tirana ha provocato durissime reazioni. Appena diffusa la notizia del suo abbattimento alle prime ore del mattino centinaia di cittadini si sono riversati spontaneamente verso il centro per protestare contro l’atto di demolizione. Decine di manifestanti, tra cui attivisti e attori, sono stati accompagnati negli uffici della polizia. Un noto giornalista albanese ha accusato il Governo di Edi Rama di aver usato la forza e ultimamente ha pubblicato la perizia medico-legale che certificava le violenze subite. Il certificato medico del giornalista è stato condiviso sui social anche dal Presidente della Repubblica Ilir Meta, con il commento: «La violenza e quelle immagini vergognose non avevano bisogno di una perizia!».
Oltre alle manifestazioni, ci sono state dichiarazioni pesantissime dall’opposizione. Il capo del Partito Democratico all’opposizione, Lulzim Basha, ha dichiarato che ciò che è successo al Teatro si può spiegare con tre parole: violenza, ingordigia e ladroneria, indicando in Edi Rama l’unico responsabile. Mentre il regista Edmond Budina (vedi video per “WE”), attivista dell’Alleanza per la Tutela del Teatro, ha considerato la demolizione come uno degli atti più vergognosi nel Paese. Mariya Gabriel, la Commissaria europea per l’innovazione, la ricerca, la cultura, l’istruzione e la gioventù, aveva sostenuto il programma dell’organizzazione Europa Nostra per la protezione dei siti di particolare importanza del patrimonio culturale europeo, tra cui il Teatro Nazionale di Tirana. Dopo la demolizione la Commissione europea ha espresso rammarico per la decisione di demolire il teatro e profonda preoccupazione sugli sviluppi della vicenda in Albania, chiedendo alle parti moderazione.
La notizia della caduta del Teatro ha indignato molte, moltissime persone di tutte le categorie, famose e non: impossibile elencarle e citarle tutte. Anche l’ex Primo Ministro del Kosovo, Albin Kurti, all’epoca in carica, si è espresso contrario alla demolizione. Innumerevoli migranti della diaspora albanese sono rimasti sconvolti dall’atto distruttivo. Persino il Consiglio Coordinativo della Diaspora, un organismo approvato dallo stesso Governo albanese, e composto da emigrati che vivono all’estero, in una dichiarazione durissima ha condannato «senza riserve le azioni del Governo per la demolizione del Teatro, la mancanza di trasparenza, le violazioni legislative e la fretta nel prendere le decisioni».
Bisogna ricordare anche la reazione, seppur silenziosa, di molti cittadini, tra cui amanti della cultura e del teatro, che sono rimasti profondamente sconcertati, scioccati e amareggiati – letteralmente senza parole! – mentre assistevano alle immagini della ruspa che colpiva la facciata del Teatro. Da notare, infine, una reazione graduale, lenta ma in crescendo, che si sta verificando in queste ore in Albania e nel mondo: aumentano gli articoli, le iniziative e le riflessioni su ciò che è avvenuto.
In qualsiasi altro Paese occidentale le numerose reazioni, interne ed esterne, che hanno seguito la vicenda del Teatro, prima e dopo il suo abbattimento, avrebbero smosso le istituzioni e avrebbero provocato scossoni politici, a livello locale e nazionale. Se nulla di tutto ciò è successo, un motivo ci sarà.
Una storia sconosciuta
La storia del complesso del Teatro era purtroppo sconosciuta a molti e proprio nelle crepe di questa ignoranza si è inserita non solo l’indifferenza, ma anche una subdola fakenews, ricostruita ad arte, secondo cui l’edificio era stato o destinato all’epoca del fascismo come “dopo lavoro” o peggio ancora come bordello per gli italiani. Nulla di più falso, tra l’altro insignificante ai fini della demolizione, ma una pseudonotizia del genere ha continuato per parecchio tempo a scorrere nei bassifondi dei social.
Invece la storia vera, conosciuta interamente solo dopo la sua tragica fine, è davvero affascinante. Lo hanno confermato molti studiosi, tra cui lo storico Aurel Plasari, il quale in una trasmissione televisiva molto seguita “Opinion TvKlan”, ha spiegato efficacemente la storia dell’edificio, venendo incontro alla curiosità dei cittadini albanesi e smontando nello stesso tempo le bufale e le inesattezze che circolavano da tempo.
Intanto, va chiarito subito che il Teatro in realtà era stato progettato come un complesso di diverse strutture ed era destinato inizialmente al “Circolo italo-albanese Skanderbeg”. Il progetto era nato sicuramente prima, ma i lavori di costruzione sono iniziati nel 1938 ai tempi di Re Zog. Secondo la delibera dell’epoca il “Circolo italo-albanese Skanderbeg” aveva come obiettivo la promozione della collaborazione culturale, artistica, scientifica ecc. tra l’Albania e l’Italia.
Il complesso era composto da due edifici paralleli, valorizzati in mezzo da ambienti di ritrovo e sportivi, quali ristorante, palestra e piscina. Il primo edificio era un cineteatro, chiamato Savoia, che nel 1941 fu denominato Kosova. Il secondo edificio divenne la sede della Fondazione Skanderbeg, in cui operavano grandi intellettuali albanesi dell’epoca. Nello stesso edificio aveva la sede l’Istituto degli studi albanesi, in cui hanno lavorato grandi studiosi che in seguito hanno trovato meritatamente posto nelle enciclopedie. Non mancavano uffici, sale e biblioteche. Proprio in quel luogo, nel 1940, si è svolto il primo convengo di studi albanesi.
La sala del cineteatro Kosova si ricorderà sia per famosi discorsi politici, sia per un famigerato processo speciale del regime. Ma quella sala verrà ricordata anche dall’atto eroico di un adolescente antifascista che ha lanciato dalla galleria volantini contro gli occupatori, ma che fu ucciso dalla pattuglia nazista durante l’inseguimento.
Dal 1945 nel cineteatro furono proiettati film sovietici, ma anche film inglesi e americani. In quegli anni si svolsero i primi spettacoli teatrali e fu chiamato “Teatro di Tirana” e poi nel maggio del 1945 “Gruppo teatrale professionista statale”. Nel frattempo l’altro edificio da Circolo italo-albanese Skanderbeg, venne denominato “Casa della cultura”, per poi trasformarsi nel 1946 in “Istituto delle Scienze”, che sarebbe stato il fondamento dei vari istituti che compongono l’Accademia. L’altra parte è diventata club per gli scrittori e gli artisti.
Negli anni a venire, siccome Tirana aveva ormai altri cinema, è diventato “Teatro Popolare” e infine denominato “Teatro Nazionale”.
In poche parole, quell’edificio, se non altro, aveva vissuto una lunga e intensa storia, e quindi meritava di sopravvivere come testimone unico, ed essere impreziosito da targhe commemorative, evocando ai cittadini eventi e date importanti per la collettività. Così avviene in altre parti del mondo. Oppure poteva diventare esso stesso un museo (del cinema, del teatro, ecc.) per raccontare almeno la propria storia vissuta.
Il valore architettonico e urbanistico
La progettazione del complesso del Teatro Nazionale è stato attribuito a Giulio Bertè, ingegnere-architetto italiano che lavorava in Albania dagli inizi degli anni Trenta, il quale utilizzava un linguaggio moderno ed essenziale, che rifletteva uno stile razionalista influenzato dalle strutture metafisiche di Giorgio De Chirico.
L’edificio fu costruito con un sistema sperimentale, basato su un materiale chiamato commercialmente populit, un impasto di cemento e legno e da materiali prefabbricati in Italia dalla ditta Pater-Costruzioni di Milano.
Il complesso non era esente da problemi di carattere edile, ma non erano insuperabili; al contrario secondo la prof.ssa Anna Bruna Menghini, la sua provvisorietà e la condizione effimera, che si percepivano anche dall’esterno, costituivano un punto fisso nella sua astrazione, e quindi potevano diventare la forza dell’edificio. Secondo la stessa studiosa, oltre al valore storico-documentario e memoriale, il manufatto aveva un grande valore nel suo ruolo urbano, che proveniva dalla sua capacità relazionale con gli spazi circostanti, pur sembrando esile dinanzi agli altri edifici.
Ovviamente per giudicare un edificio ci vuole prospettiva storica. Secondo il prof. Paolo Vitti di “Europa Nostra”, gli edifici si liberano del peso del passato e ritornano al loro vero significato: il valore del Teatro per lui erano evidenti.
Non c’è dubbio che il complesso architettonico del Teatro si era inserito benissimo nel contesto circostante di Tirana, anzi si intrecciava armonicamente con le altre opere di architetti italiani di grande valore come Gherardo Bosio e Armando Brasini. Poi c’era la dimensione dello spazio pubblico, le relazioni multiple con il centro della capitale albanese e il magnetismo verso i flussi delle persone. Valerio Perna, architetto, ritiene che “I due volumi gemelli del Teatro Nazionale, raccordati nella parte posteriore da un porticato di ‘timida’ memoria metafisica, generavano uno spazio pubblico senza uguali nel centro della città.
Il suo cortile esterno rappresentava un forte momento di tensione spaziale e di aggregazione, in grado di catalizzare i flussi di persone che vi giungevano da un lato da piazza Skanderbeg e dall’altro dalla via pedonale che connetteva l’impianto all’antico castello della città”.
La logica della ruspa
La ruspa ha il grilletto facile e sotto i suoi colpi cadono edifici, ma anche identità urbane e memorie collettive. Con la logica della ruspa, che per sua natura vede solo edifici da abbattere, le città antiche di mezzo mondo non esisterebbero oggi.
Il fronte a favore della demolizione, guidato dal Premier Edi Rama e dal sindaco di Tirana Erion Veliaj, non ha mai utilizzato tanti argomenti. Il principale aveva a che fare con la qualità dell’edificio e con il presunto rischio di crollo. Poi si aggiungeva la questione dei costi per gli interventi di riqualifica. Altri argomenti minori ruotavano sempre intorno al principale (il mancato svolgimento di spettacoli, l’assenza di servizi all’interno, come bagni, guardaroba, la mancanza di una struttura tecnologicamente attrezzata, la riduzione a locale adibito a bingo, ecc.). L’altro argomento concerneva la necessità di un nuovo Teatro più grande e con tecnologie moderne. Del nuovo progetto dello studio di architettura Bjarke Ingels Group si è parlato molto, è girata anche qualche immagine, ma i suoi dettagli non sono noti.
Il premier albanese Edi Rama, dopo aver notato una forte reazione internazionale dopo la demolizione, ha scritto una lettera al giornale francese “Le Monde” in cui cercava di convincere il pubblico francese della sua scelta. Anche in quell’articolo appaiono gli stessi argomenti: il materiale provvisorio con cui era costruito il Teatro, la struttura fatiscente, la sua costruzione come luogo di intrattenimento delle forze di occupazione, l’assenza nell’elenco dei monumenti culturali protetti, la bontà del nuovo progetto. L’articolo di Edi Rama su Le Monde è stato puntualmente analizzato e criticato dai vari osservatori.
L’ultimo argomento, citato spesso dai governanti, è stato quello secondo cui la maggioranza decide e la maggioranza ha deciso per la demolizione.
Per chi era contrario alla demolizione del teatro non è stato mai difficile controbattere con validi argomenti di vario carattere. In primis, tutti in Albania erano d’accordo con la necessità di costruire un nuovo Teatro, perché Tirana è diventata grande e ha bisogno di altri teatri. Ma il nuovo Teatro si poteva costruire benissimo in altri luoghi della capitale (le proposte non sono mancate), senza distruggere il Teatro storico.
Per quanto riguarda la qualità dell’edificio bisogna ricordare che oltre a grandi esperti internazionali anche l’Associazione degli Architetti d’Albania si è dichiarata contraria alla demolizione. Sul materiale e le condizioni fatiscenti si sono espressi molti ingegneri ed esperti, secondo cui l’edificio aveva bisogno di vari interventi, ma non era irrecuperabile. In modo indiretto l’ha confermato anche il terremoto del novembre 2019, che ha distrutto edifici molto più recenti, ma non ha disturbato quello del Teatro. Poi in tanti hanno ricordato il processo di conservazione, così come il restauro e la ricostruzione. Nei paesi europei un procedimento del genere rientra nella normalità, altrimenti oggi non ci sarebbero gli edifici secolari.
La ruspa ha il grilletto facile e sotto i suoi colpi cadono edifici, ma anche identità urbane e memorie collettive. Con la logica della ruspa, che per sua natura vede solo edifici da abbattere, le città antiche di mezzo mondo non esisterebbero oggi. Forse bisogna ricordare un pezzo satirico, scritto in albanese, che per gioco ha raccolto le argomentazioni utilizzate comunemente a favore della demolizione ed ad absurdum le ha applicate al Colosseo, dall’assenza di spettacoli fino al pavimento fatiscente e la mancanza dei bagni; un ragionamento paradossale che ha portato alla fatidica quanto fantomatica sentenza di demolizione. Ma la dichiarazione del Presidente della Confindustria Albania, che rappresenta le imprese italiane nel Paese di fronte, non è stato uno scherzo: «È come se per costruire un teatro più capiente, coperto e confortevole, si decidesse di abbattere l’Arena di Verona o il Colosseo. Un nuovo Teatro nazionale sarebbe potuto essere edificato in un’altra zona senza distruggere un simbolo di arte, storia e cultura».
Un qualsiasi lettore europeo dovrebbe leggere le parole di un gruppo di artisti di teatro: «Abbattere il Teatri Kombëtar a Tirana è stato come se a Napoli abbattessero il San Carlo per costruirne uno più moderno ed imponente, oppure a Milano La Scala per far posto ad un avveniristico super mega Teatro, o L’Opéra a Parigi, il Metropolitan a New York, il teatro Bolshoi a Mosca, la Royal House a Londra, la Fenice a Venezia. Si dirà sorridendo che il Teatri Kombëtar di Tirana non era il San Carlo… sì, ma anche il San Carlo non è La Scala e La Scala non è L’Opéra che non è il Metropolitan che non è il Bolshoi che a sua volta non è la Royal House che non è la Fenice. E questo perché? Perché ogni paese ha il SUO di Teatro».
Urbs e civitas sotto attacco
La storia dell’architettura e dell’urbanistica di Tirana si potrebbe scrivere anche in negativo, ossia ripercorrendo le tappe degli interventi che hanno cambiato e sfigurato il suo aspetto tradizionale. Com’è noto, tutti i regimi tendono a ridisegnare gli spazi urbani e l’architettura cercando di proiettare la loro visione totalitaria, soprattutto rivolgendosi al centro, che trasmette più efficacemente il messaggio ideologico. Tirana ha subito pesantemente le utopie architettoniche del regime di Enver Hoxha, lasciando sul campo spazi pubblici e gioielli della sua storia come il vecchio bazar, edifici storici, le strade e le case tipiche tiranesi.
Gli interventi totalitari nei centri città sono avvenuti anche in Europa, quindi nulla di strano in questo senso. Il problema è che il centro di Tirana è stato oggetto di varie trasformazioni specialmente negli ultimi trent’anni, quindi dopo l’instaurazione del sistema pluralistico e da tutti i governi succedutisi.
Anche gli occhi di un profano o di un semplice turista possono scorgere senza difficoltà contraddizioni, disarmonie e disorganicità in un paesaggio urbano profondamente deturpato. Rimane da studiare fino in fondo se le trasformazioni rispondono ad una visione specifica, oppure siano semplicemente frutto di una speculazione caotica edilizia. Non la pensa così il prof. Giorgio Rocco, secondo cui ciò che è accaduto non è occasionale, ma «parte di un processo coerente di cui non mancano i precedenti e non mancheranno purtroppo altri episodi futuri», poiché siamo di fronte ad una globalizzazione «espressione di un neoliberismo dilagante, volta alla metodica distruzione delle culture identitarie nel nome di un superamento dei particolarismi locali». Un’architettura globalizzata che non risponde alle sue radici ma alle esigenze un mercato globale indifferenziato, «Privata dei suoi monumenti identitari Tirana non è più Tirana».
Non mancano altre riflessioni di alto livello sul legame tra il Teatro e l’identità e la memoria collettiva svolte da professionisti e studiosi. Il fatto è che i bulldozer non hanno rasato al suolo solo un edificio, ma hanno fatto tabula rasa di un capitolo importante della storia di Tirana e dell’Albania, visto anche il peso abnorme della capitale sugli sviluppi socioculturali del Paese. Il tema è molto vasto e richiede altro spazio, ma bisogna ammettere che l’Albania non ha fatto definitivamente i conti con la propria storia recente e stenta ad avere un rapporto normale con la propria memoria. Forse il Teatro costituiva l’occasione giusta per aprire una riflessione collettiva su questi temi, magari ospitando i vari dibattiti, come farebbe qualsiasi Paese che vuole proiettarsi nel futuro senza dimenticare la propria storia.
Spesso la nostalgia viene vista come un segno di debolezza, di fragilità, di mancato adattamento, di legame con il passato, e di conseguenza si tende a nascondere istintivamente sentimenti del genere. Eppure la nostalgia è un sentimento umano, che proviene dalle esperienze di vita, che talvolta potrebbe dare forza ed equilibrio, o almeno consapevolezza per il proprio passato, specialmente se si tratta di veri valori identitari. Le generazioni che hanno visto per la prima volta uno spettacolo teatrale in quel Teatro, che hanno passeggiato intorno a quel teatro, che si sono emozionate dentro quelle sale, non possono essere derise e nemmeno ignorate. Il Teatro è stato difeso da un gruppo cospicuo di artisti, registi ed attori che sicuramente condividono, insieme al pubblico, esperienze ed emozioni indimenticabili. Purtroppo il discorso pubblico si è artificialmente e strumentalmente diviso su attori a favore e attori contro la demolizione, con tanto di surreali elenchi contrapposti. Il fatto è che il Teatro Nazionale era per gli attori e i registi un luogo di lavoro, ma in realtà il Teatro era innanzitutto dei cittadini e della città, perché l’arte, la cultura, le emozioni, i valori, coltivati in quello spazio nei decenni, prendevano vita nelle menti delle persone, il cui vissuto andava rispettato. Con tutti i difetti di una metafora e senza voler offendere l’impegno di nessuno, è come se l’edificio di qualsiasi Parlamento nel mondo fosse difeso dagli impiegati che vi lavorano, a cui ovviamente sta a cuore l’edificio dell’istituzione e ciò che rappresenta, ma il Parlamento in realtà appartiene a tutti i cittadini ed ha a che fare con il destino collettivo.
La città possiede tanti luoghi sociali, con una forte identità che (ri)produce identità, quindi il contrario dei moderni e sfavillanti non-luoghi studiati dall’antropologo Marc Augé. Lo sanno benissimo anche le forze che vogliono la distruzione di questi luoghi. Infatti, una delle tecniche collaudate è di lasciarli deteriorare gradualmente come edifici e istituzioni, fino a quando la forza estetica affievolisce e la funzione artistica e sociale va in agonia e si spegne. Le persone che vi poggiano gli occhi prima o poi si chiederanno dubbiosi a cosa serva un edificio obsoleto, brutto, vuoto e inutile, dimenticando che il destino “fatalmente segnato” in realtà dipende dalla volontà di preservarlo e di utilizzarlo. Da qui al rumore del piccone o della ruspa ci sta in mezzo solo una campagna mediatica magistralmente orchestrata. Una cosa simile è successo dieci anni fa alla “Piramide” di Tirana, che il governo passato voleva demolire, ma si contrappose energicamente la società civile e l’opposizione socialista, ironia della sorte, la stessa che oggi in maggioranza ha decretato per decisione di Edi Rama e di Erion Veliaj la distruzione del Teatro Nazionale.
Uno dei meriti dell’Alleanza per la Tutela del Teatro è stato proprio quello di dargli vita riprendendo le sue funzioni originarie, organizzando diversi spettacoli teatrali e musicali, nazionali e internazionali, quindi arricchendo la vita artistica della capitale. Una specie di massaggio cardiaco per un Teatro orfano e abbandonato dalle istituzioni. Anzi, come informava Gentiola Madhi, «trasformando il teatro in un luogo sociale, dove le persone possono incontrarsi e discutere questioni di interesse pubblico come lo stato attuale della democrazia, l’integrazione europea, i progressi delle riforme e così via. Questi incontri pomeridiani sono serviti a scuotere l’apatia generale della società, esprimere la frustrazione dei cittadini nei confronti dell’establishment politico e mettere in discussione l’attuale forma della democrazia». Insomma un luogo di aggregazione sociale, di comunità, vitale nell’epoca della società fluida e degli individualismi sfrenati, soprattutto per l’Albania post-totalitaria e postmoderna.
Sintomo di una democrazia incompiuta
Separare la questione del teatro da quella politica è illusoria, se non altro per l’etimologia della parola che deriva da polis (città). Entrare nei dettagli di un dibattito infinito, fatto di polemiche politiche e cavilli giuridici è inutile per comprendere la realtà albanese. Tuttavia ci sono alcuni elementi significativi che indicano tante cose.
Il Teatro Nazionale e il suo terreno diventano proprietà del Comune di Tirana, con un decreto del Consiglio dei Ministri dell’8 maggio 2020, su proposta del Ministero della Cultura, dopo che lo stesso Governo aveva approvato al Parlamento (luglio 2018) una legge speciale per la demolizione del Teatro. I due atti del Governo sono stati considerati illeciti dal Presidente della Repubblica, che ha sollevato una questione di costituzionalità rivolgendosi alla Corte Costituzionale, invitando il governo e il Comune di Tirana di non fare ulteriore passi fino alla pronuncia della Corte.
Quest’ultima però, insieme alla Corte Suprema, è paralizzata a seguito del processo di valutazione e della riforma della giustizia. Insomma, il colpo fatale al Teatro è stato dato in un momento di grande fragilità istituzionale, ovviamente dall’opposto punto di vista è stato sferrato “nel momento perfetto”.
Le forze che hanno distrutto il Teatro non hanno aspettato nessuna pronuncia e hanno proseguito in modo accelerato con la demolizione, seppellendo sotto le macerie anche tutto il guardaroba, le attrezzature e l’archivio storico del Teatro. È superfluo aggiungere che in qualsiasi Paese democratico si sarebbe aspettata la pronuncia della Corte Costituzionale, prima di avanzare con le ruspe, o quanto meno raccogliere e fare l’inventario degli oggetti all’interno del Teatro che fossero sedie, vestiti o manoscritti vecchi. Il materiale sepolto probabilmente non aveva solo valore storico e nostalgico, perché potevano essere vestiti e attrezzature di scena utilizzati dai grandi attori del passato, venerati dal pubblico albanese.
Una logica puramente economica potrebbe vedere nei cimeli del Teatro Nazionale un certo valore, poiché potevano essere catalogati, sistemati, immagazzinati per essere riutilizzati nel nuovo Teatro, o addirittura venduti all’asta, i cui proventi potevano essere usati per la sua ricostruzione, oppure cinicamente per la sua stessa demolizione. È difficile immaginare cosa sarebbe successo da altre parti del mondo in una situazione simile.
Nella vicenda del Teatro albanese c’è chi ha visto interessi privati e un destino segnato per motivi di mercato. Secondo Il Giornale dell’Architettura «l’annunciato smantellamento del teatro è probabilmente frutto dell’intreccio tra interessi privati e gangli di un potere scarsamente democratico, riconducibili all’istrionico primo ministro Edi Rama. […] La battaglia per la conservazione si presentava sicuramente come un’opzione minoritaria, stanti i valori immobiliari esorbitanti delle aree centrali e le pressioni politiche e di mercato per una radicale rifunzionalizzazione dell’area». Lo stesso giornale avanzava una proposta interessante per il Teatro come quella di «una forma museale attualizzata, sulla scia delle molte esperienze allestitive attuate principalmente all’estero, su scenari di eventi dolorosi o divisivi (ex carceri, ospedali psichiatrici, luoghi simbolo dell’emigrazione)».
Inoltre, sembra che non ci sia un progetto dettagliato per un nuovo Teatro e nemmeno le risorse per costruirlo. La formula iniziale del Partenariato pubblico-privato, quindi risorse private per grandi opere pubbliche, in cambio di terreno o altre risorse, sembra accantonata. Adesso pare che il Comune di Tirana costruirà un teatro nuovo con le risorse proprie e sta cercando i circa 30 milioni di euro preventivati.
Il muro di gomma della politica albanese, la mancanza di dialogo tra opposizione e maggioranza, i conflitti permanenti tra il Governo e la Presidenza della Repubblica non si possono spiegare solo con il fatto che i partiti di opposizione circa un anno prima abbiano dato in massa le dimissioni “bruciando” i mandati parlamentari. La decisione estrema e senza precedenti fu motivata dall’opposizione come risposta ad un sistema corrotto legato alla criminalità organizzata e frutto di brogli elettorali.
Sono susseguite altre accuse durissime, come quella dello scrittore Fatos Lubonja, secondo cui «un’organizzazione criminale si è impossessato dello Stato, una banda criminale che ricicla e rigenera potere grazie al riciclaggio del denaro mafioso». In questo contesto «la democrazia è una semplice facciata, mentre chi ama la libertà e la dignità deve utilizzare la questione del Teatro come un simbolo per ripristinare la libertà e la dignità calpestata». Le ombre di speculazione edilizia non sono nuove, ma dopo la demolizione del teatro le accuse di corruzione sono diventate sempre più dure.
La stessa classe politica sembra avere un enorme deficit di autorevolezza, tant’è vero che per delegittimare i sostenitori della causa del Teatro li si accusa di avere legami e progetti politici. È da tempo che la politica albanese ha superato i confini normali della spettacolarizzazione e i politici con il loro linguaggio ad effetto sono finiti per essere rappresentati sui media come personaggi e protagonisti di un palcoscenico. Metaforicamente si potrebbe dire che il Teatro come attività artistica è stato soppiantato dalla concorrenza spietata del teatrino della politica. Quanto all’edificio, lo spazio materiale, era solo questione di tempo.
In realtà, le rovine del Teatro costituiscono solo la parte visibile di un malessere generale, uno degli effetti di una crisi multidimensionale, che passa dalla crisi politica (intesa solo come gestione del potere) e della rappresentanza a quella del sistema pluralistico e delle istituzioni, dalla crisi della giustizia a quella dei poteri bilanciati, dalla crisi della cultura del riconoscimento dell’avversario e della società civile a quella economica con diseguaglianze insostenibili e corruzione dilagante. In definitiva, si tratta di una profonda crisi etica, dove la persona non viene messa al centro dell’azione politica e il bene pubblico, così come lo spazio, è concepito come privato.
Semi di speranza
L’Albania non è più quella di trent’anni fa, e bisogna riconoscere i passi in avanti, così come il percorso di integrazione nell’Unione Europea. Ciononostante, la gente continua ad abbandonare il Paese, come dimostrano drammaticamente i dati demografici, tra calo e invecchiamento della popolazione, così come i sondaggi sulla volontà di trasferirsi all’estero. E se l’emigrazione è anche un preciso termometro della salute di un paese è lecito supporre che serpeggia una delusione di fondo dei cittadini sui risultati raggiunti in rapporto con le loro aspettative e una sfiducia diffusa sul proprio futuro.
Tuttavia bisogna registrare chiari segnali di speranza. A cominciare dall’impegno e la passione civile che ha destato la demolizione del Teatro. Tanta simpatia per gli attivisti che si sono intestati una battaglia meramente culturale e civile, che sta continuando con nuove denunce, quindi nel campo giuridico, ma anche promovendo una petizione in tutte le città albanesi per ricostruire il Teatro dov’era e com’era. Fino a qualche tempo fa una mobilitazione del genere era impensabile.
Inoltre, i giovani sono tornati all’inizio di giugno sulle piazze per manifestare contro la violenza sulle donne e sui bambini, una protesta innescata da casi concreti di abuso sessuale, anche nei confronti di un’adolescente. Migliaia di cittadini, e soprattutto giovani albanesi, hanno condannato tutte le forme di discriminazione e di violenza nei confronti delle donne e dei minori ed hanno chiesto di voler vivere in una società rispettosa, solidale, centrata sul rispetto e sulla dignità della persona. In manifestazioni del genere si potrebbe intravedere una volontà di cambiamento, così come il risveglio di una coscienza civica.
Ma per l’impegno civile e pacifico vale sempre il proverbio sudamericano: Pensavano di averci seppellito e non sapevano che noi eravamo semi.
di Rando Devole
Sociologo
1 commento
Nje menyre tjeter veshtrimi. Shume e qarte.
I commenti sono chiusi.