Intervista a cura di Marzia Coronati a Ugo Pagano, professore di Politica economica dell'Università di Siena.
Gli ultimi mesi hanno costretto una buona maggioranza delle persone a rivedere il modo in cui lavorano. Ma che cosa abbiamo imparato veramente? E, soprattutto, come cambierà il mondo del lavoro nei prossimi mesi? Ne abbiamo parlato con Ugo Pagano, professore di Politica economica dell’Università di Siena.
Ugo Pagano, economista e professore di politica economica all’Università di Siena, è partner del progetto Forum Disuguaglianze e Diversità, nato da un’idea della Fondazione Lelio e Lisli Basso, che vede la partecipazione di otto organizzazioni di cittadinanza attiva, che attraverso l’incontro e la collaborazione tra il mondo della ricerca e quello della cittadinanza attiva intende disegnare proposte generali per l’azione collettiva e pubblica, tese a ridurre le disuguaglianze.
Si potrebbe definire una costruzione dal basso. Di solito erano i partiti ad aprire dall’alto le sezioni, per le donne, per l’ecologia, e così via. Questa invece è un’alleanza che parte dal basso, da una serie di associazioni preesistenti. Collaboriamo ognuno con dei temi più settoriali, ma poi troviamo dei punti di incontro.
Il Forum è nato prima della pandemia, prima dell’emergenza, e oggi il suo lavoro risulta forse più attuale e utile che mai. Lei si occupa di economia e politica economica e ha scritto un bellissimo documento che ci aiuta a capire come il mondo del lavoro potrà cambiare in futuro. Ognuno di noi in questi mesi ha visto il proprio lavoro cambiare per venire incontro a tutte le regole che ci ha imposto il governo per la sanità di tutti. Adesso però è il momento di tirare le somme e capire cosa cambiare e cosa lasciare, cosa prendere di buono e cosa implementare. In questo documento ribadisce che sono state le istituzioni del capitalismo che hanno introdotto una netta separazione, anche fisica, tra il mondo della produzione e il mondo del consumo. Perché oggi è importante ricordare tutto questo?
È importante perché questo tipo di divisione in parte sta saltando. Il mondo del lavoro è entrato di prepotenza nelle nostre case e siamo in una situazione di grandissima trasformazione, che il virus ha accelerato in modo drammatico. In realtà durante questo periodo abbiamo imparato ad usare una serie di tecnologie che già esistevano, ma aver imparato ad usarle ha fatto fare un salto a tutta la società e a tutta l’organizzazione del lavoro, che non sarà più la stessa. Poi dobbiamo pensare a come abbiamo organizzato l’intero processo economico. Ci siamo posti il fine dei beni di consumo senza pensare che quello che conta veramente sono le nostre attività. Il nostro tempo libero è molto produttivo e dobbiamo pensare prima alle attività che desideriamo fare, che sono sia produttive che di consumo, e poi a cosa è necessario per svolgere queste attività. Questo punto è emerso in modo chiaro durante questa crisi, perché alcune cose sono state fatte per ragioni di sicurezza e di salute, ma tante altre andavano fatte per farci vivere in una situazione di sicurezza, penso al sistema agro-alimentare o a quello sanitario, che hanno svolto un ruolo importante. Questa crisi ci porta a un ripensamento di queste categorie e anche a quella che era la separazione netta tra consumo e produzione, e tra le istituzioni della produzione e quelle del consumo. Poi la divisione del lavoro all’interno delle imprese dovrebbe tenere molto più conto di quella che è l’esigenza di avere una vita partecipata da parte di chi lavora e in questo senso anche le tecnologie andrebbero cambiate.
Come dovrebbe avvenire tutto questo nella pratica? Come le nuove tecnologie possono aiutare a superare questa dicotomia, che ci ha portato anche a vivere il lavoro come un sacrificio e non come una cosa integrata con una vita interessante?
Intanto le nuove tecnologie ci permettono di far fare a macchine o a processi informatizzati un insieme di cose più ripetitive, quindi ci lasciano spazio per cose più creative e innovative. Poi visto che scegliamo noi come usare le nuove tecnologie, dovremmo indirizzarle in questa direzione. Un’altra cosa da evidenziare è che tutte queste tecnologie ci portano a impiegare meno lavoro e questo porta al problema della disoccupazione. Quindi una delle cose su cui bisognerebbe riflettere, riguardo l’uscita da questa crisi, è che non si può tornare al regime di orario di lavoro preesistente, sia perché le nuove tecnologie permettono di risparmiare lavoro, sia perché ci saranno pochi impiegati e tanti disoccupati. Quindi questo lavoro evidentemente andrà ridistribuito, e anche molto celermente, per due motivi. Uno riguarda le persone che hanno difficoltà a conciliare famiglia e lavoro, e che ritornando all’orario di lavoro di prima si ritroverebbero con i bambini a casa e il lavoro da gestire, situazione che pesa in particolar modo sulle donne. Poi c’è un’altra sezione della società che è in crisi perché ha visto scomparire il suo lavoro. Per questo bisogna ridistribuire il lavoro, riducendo l’orario di lavoro per il primo settore, che lavora in eccesso con l’aggiunta dei compiti familiari, e dare più opportunità all’altro settore.
Secondo lei questa ridistribuzione si può fare nel futuro prossimo, per esempio già a settembre?
Secondo me si può e si deve fare a stretto giro, anche perché l’orario di lavoro andrebbe ridotto per motivi di sicurezza. Quindi la questione dovrebbe essere affrontata subito, poi per realizzare tutto questo ci vorrebbe una mobilitazione delle forze sindacali e una comprensione da parte degli imprenditori del fatto che questo è il sentiero di sviluppo che dobbiamo necessariamente intraprendere dopo questa crisi. Naturalmente c’era una pressione anche prima perché la robotizzazione e le nuove tecnologie già portavano a questi squilibri, ma tutto questo si è accelerato enormemente e la questione adesso non è più rimandabile.
Una cosa che spaventa è la perdita di posti di lavoro, perché con la robotizzazione di alcuni processi molti lavori verranno a mancare e c’è da capire se ci sarà un giusto equilibrio con i lavori che si verranno a creare. C’è la possibilità di riequilibrare senza che nessuno rimanga schiacciato?
La possibilità c’è ma ridurre il tempo di lavoro è una delle condizioni per cui questo sia realizzabile. Il limite massimo della settimana lavorativa deve essere 32 ore, quindi di quattro giorni. E questo potrebbe essere uno scambio interessante tra datori di lavoro e lavoratori, perché per motivi di sicurezza si dice che bisognerebbe lavorare su sette giorni, ma lavorando il sabato e la domenica è necessario lavorare un giorno di meno. Questa necessità porta anche a un aumento di produttività perché significa usare i macchinari per più giorni. Quindi i datori di lavoro potrebbero convenire ad avere una riduzione del tempo di lavoro a parità di salario, perché gli aumenti di produttività ci sono comunque e sono un trend di lungo periodo, ma se distribuiamo il lavoro su una settimana intera la produttività è maggiore. Ci sono moltissimi studi che dimostrano che quando si accorcia la settimana lavorativa il lavoro diventa più produttivo, quindi penso che sia una cosa possibile. Oltretutto la riduzione del tempo di lavoro creerebbe opportunità per altri che sono in una situazione di grande difficoltà. Alcuni di questi settori si potrebbero riprendere, ma non ha senso aspettare che si riprendano tenendo le persone inoccupate. È bene che facciano altro, poi in ogni caso, avranno acquisito più capacità, una maggiore flessibilità e avranno più opportunità, oltre che la scelta se tornare o meno nel vecchio settore qualora si riprendesse.
Rispetto alla possibilità dello smart-working, che molti di noi stiamo già facendo, sono tante le domande, per esempio rispetto ai costi di produzione, che in molti casi vengono scaricati sul lavoratore stesso. Come ovviare a tutto questo?
Il lavoro a casa ha un insieme di vantaggi nella conciliazione con la vita privata, anche se dipende dallo spazio che si ha a casa e dalla situazione in cui si sta, ma ha lo svantaggio di separare ogni lavoratore dagli altri. Non c’è più un luogo fisico dove ci si vede, quindi anche un luogo fisico in cui esprimere delle esigenze collettive, e questo porta a una frammentazione del lavoro e a una difficoltà di organizzare azioni collettive, oltre che a un maggiore sfruttamento in alcun casi. Tuttavia c’è un motivo di ottimismo nel fatto che siamo tutti capaci di mobilitarci e parlarci anche da casa. Quindi è vero che siamo isolati nelle nostre case per via di queste tecnologie, ma queste stesse tecnologie ci uniscono. Zoom per esempio non è solo utilizzato per le conferenze di lavoro, ma è anche un sistema attraverso il quale possiamo parlarci, sviluppare azioni collettive ed esprimere le nostre esigenze. C’è un’ambiguità in tutto questo che si può risolvere in vario modo, a seconda delle capacità di organizzarsi e mobilitarsi nella società.
Per quanto riguarda il ruolo delle donne, una preoccupazione è curare i figli e la casa quando il lavoro è all’interno della mura domestiche. Mi sembra che i ruoli siano ancora sbilanciati, anche nelle famiglie con un’ottica più progressista, e che gran parte della cura domestica e dei figli sia affidata alle donne. Quindi il rischio è che le donne possano uscire provate da questa crisi.
È una grossa preoccupazione, e uno dei motivi per cui ci vorrebbe una riduzione generalizzata dell’orario di lavoro in termini di part-time. Perché i part-time finiscono sempre con essere a carico delle donne e naturalmente implicano una situazione di lavoro più instabile e minori possibilità di progredire come carriera, invece una riduzione dell’orario di lavoro generalizzata non discriminerebbe.

di Ugo Pagano
Professore di Politica economica dell'Università di Siena