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Con i piedi per terra

by Samuele Pigoni

di Samuele Pigoni. Direttore della Fondazione Time2. Si occupa di management, progettazione sociale e filosofia.

Ormai in piena “Fase 2”, con la conseguente maggior libertà di spostamento, è più facile imbattersi in altre persone che – intente nelle proprie faccende – cercano, come tutti, di mettere ordine nel caos derivato dalla pandemia.

15 Maggio 2020, Corso Cincinnato, Torino, periferia nord del quartiere operaio le Vallette dove non sono tra loro distanti Juventus Stadium, Casa Circondariale e Parco della Pellerina. Sul marciapiede di fronte all’ingresso della banca cinque persone con la mascherina aspettano che l’agente della security le autorizzi ad entrare, assegnandole una ad una al primo desk libero.

Parlano della Cina e dell’America, i colpevoli di tutto questo, quelli che si sono messi d’accordo per sterminare metà della popolazione mondiale – «È da vent’anni che dicono di volerlo fare e ora lo fanno, stia a vedere signora…» – quelli che, comunque vadano le cose, avranno il vaccino che a noi non daranno mai, perché se lo tengono per loro e se anche ce lo dessero non sarebbe da prendere, perché non lo sai cosa c’è dentro, e se non è anche quello un modo di farti fuori.

Ogni parola, ogni tono aspro della voce, ogni sguardo di complicità tra sconosciuti sul marciapiede in una delle prime mattine della “fase 2” ha un unico scopo: mettere ordine nel caos, imbroccare la sequenza che con una linea, ed una sola, unisca i puntini e renda visibile il confine del riconoscibile e decodificabile.

Paura, frustrazione, smarrimento, stanchezza: come dare ragione di quello che è successo e che ti è piombato addosso da tutti i lati lasciandoti a fare i conti sui centesimi della spesa? Parlano di cassa integrazione, di pochi giga per tutta la famiglia, della figlia parrucchiera che aveva appena aperto il negozio con il prestito della banca e del nipote cameriere lasciato a casa dall’oggi al domani, mica leggono Edgar Morin o Spillover e nessuno ci pensa a venire qui a ragionare con loro di complessità, Edgar Morin o Spillover. Con buona probabilità votano Salvini e la Meloni, magari Cinque Stelle, ma prima, ora non più.

È gente in ansia con cui prima funzionavano i migranti e i vaccini e adesso la Cina, l’America, e sempre i vaccini. I loro genitori – primi immigrati a Torino – votavano Partito comunista o Dc, in ogni caso ordinatori simbolici della realtà che fornivano schemi di riferimento lineari e utili a mettere in ordine paure e fatiche.

Mi domando se questo atteggiamento non sia speculare, nella sua ricerca di linearità, a quello di chi in questi mesi ha pontificato sulla pandemia come opportunità per scoprirci migliori e occasione per innovare qualunque ambito della realtà: il linguaggio, la scuola, lo smart-working. Come se un virus, di per sé, parlasse la nostra lingua, avesse una qualche funzione utile a renderci automaticamente diversi e migliori. O come se un nuovo virus cambiasse davvero ed in maniera decisiva il nostro destino di specie fragile e mortale.

Qualcuno lo dice: dipenderà tutto da cosa decideremo di fare, da come cercheremo di contribuire al ristabilimento di un nuovo equilibrio. Di per sé possiamo svegliarci da questi mesi uguali, migliori o perché no ben più orrendi di prima. Siamo piombati come non mai al cuore della complessità, dove le cose perdono la consistenza dell’ordinario, si alleggeriscono e galleggiano riflettendosi l’una nell’altra in una proliferazione di significati pressoché infinita (ansia).

Siamo in mezzo alle ambivalenze e alle contraddizioni dove quello che ci salva (la cautela sanitaria) rischia di essere ciò che ci uccide (la crisi economica) e viceversa, dove i puntini non si lasciano attraversare da alcuna linea retta: perché i punti si muovono. Ognuno cerca il suo ordine e fa le sue scelte con lo stesso obiettivo di darsi pace. Possiamo solo cavarcela a tentoni, o come si direbbe, attraverso processi stocastici, per approssimazioni e errori.

Ma la cosa certa è che abbiamo bisogno di parlarci, di farci domande, di raccontarci come stiamo e come la viviamo questa complessità.

Abbiamo bisogno di dibattito, di confronto tra discipline diverse che si offrono come punti di vista preziosi proprio perché parziali. E abbiamo bisogno di mescolare le carte, di aprire i centri alle periferie e viceversa, di stare con i piedi per terra ed evitare di proiettarci on-line ricreando sul web un nuovo “centro”, una nuova élite di tecnointellettuali aggiornatissimi ma ancora più distanti dal Paese reale.

Piuttosto abbiamo bisogno di stare su questo marciapiede a parlare di Morin e Spillover, di Cina e di America. E fosse anche, di vaccini.

 

[pubblicato su Confronti 06/2020]

Photo: ©Flickr/Daniele Marzocchi

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Samuele Pigoni

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