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La teoria sugli “stili di vita”

by Luigi Berzano

Intervista a Luigi Berzano a cura di di Umberto Bertolin, mediatore culturale, lavora da anni nel sociale e si occupa dei rapporti interattivi tra potere, ideologia e religioni.

Buongiorno professore. Lei è noto nell’ambiente dei sociologi per aver formulato una nuova teoria sugli “stili di vita”. Un modello sociologico che ha riscosso un certo successo nell’àmbito degli studi specialistici e non, a tal punto che un suo libro è stato anche tradotto in inglese per i tipi della prestigiosa editrice Routledge. Può dirmi in poche parole di che si tratta?

Lo studio degli stili di vita è sempre stato interpretato con modelli deterministici come se essi fossero unicamente dipendenti dalla stratificazione socio-economica. Questa è la tesi che accosta il concetto di stile di vita a quello di classe assumendo che il sistema delle disuguaglianze sia stato, e sia tuttora, dipendente dalla struttura di classe. Anche la definizione degli stili di vita che ne dà la International Enciclopedia of the Social Sciences richiama questa impostazione teorica nella quale le condizioni sociali quali l’appartenenza a una classe o a un gruppo sociale, comportano specifici stili di abbigliamento, di residenza, di istruzione, di consumi. Tale definizione presenta gli stili di vita come indicatori di status sociale per ordinare gerarchicamente una popolazione. Quanto io propongo è che si possa andare oltre a tale interpretazione ipotizzando che gli stili di vita comportino una loro propria dimensione cognitivo-valoriale, cioè una dimensione di atteggiamenti, aspirazioni e progetto di costruzione identitaria per un gruppo, subcultura o anche singolo individuo. Gli stili di vita sarebbero dunque un insieme di pratiche, a cui l’individuo assegna un senso unitario, che si presenta come modello distintivo condiviso all’interno di una collettività, senza avere il suo elemento generativo né in un preesistente quadro cognitivo-valoriale né in una predeterminata condizione socio-strutturale. L’individuo, piuttosto che adottare uno stile di vita attraverso lo standing (posizione sociale, status, reputazione) e il sistema cognitivo-valoriale prevalente, fa del proprio stile di vita un immediato progetto di vita nel quale pone la propria individualità, le proprie peculiarità nell’apparire, nel vestire, nelle attitudini fisiche. 

Quindi potremmo dire che i suoi “stili di vita” sono dei modi di “abitare il mondo”?

    È esattamente così. Gli stili di vita sono modi che l’individuo sceglie “per stare” nel mondo. Ma “abitare” è ancor più significativo che “stare” poiché deriva da habitus. È l’indicazione di Lefebvre, il quale, commentando l’opera di Panofsky sull’architettura, suggeriva di esaminare il concetto di habitus, «un modo di essere» per l’umanità, modo che implica «un potere di uso e di godimento (da qui il legame di habere con habitare). Visto che l’habitus è inscritto nell’abitare, perché non ampliare il paradigma aggiungendo all’equazione anche l’elemento della moda? La lingua italiana lo consente e lo esplicita, poiché l’abito è un elemento della connessione tra habitus e abitare ed è anche un legame semantico tra loro. Gli abiti, come la casa o un oggetto personale, sono vissuti, amati e mostrano l’usura del vivere. Come i mobili di cui facciamo uso, anch’essi “portano” i segni della vita. In quanto abitazioni, recano le nostre impronte. La lingua italiana consente di fare un ulteriore passo: “abito” non è soltanto un vestito, ma anche la prima persona singolare dell’indicativo presente del verbo abitare, usato per indicare il proprio indirizzo. È affascinante pensare alla reversibilità presente anche nei termini inglesi address (indirizzo) e dress (vestito) – come se fossero i due lati di un tessuto double-face – in un’interazione di habitus e habere. Una volta acquistati, continuano a essere consumati, poiché noi ci “installiamo” in essi.


Recentissimamente, direi quasi con sincronicità, lei ha fatto pubblicare nella collana che dirige per i tipi della Mimesis di Milano, un importante libro di un teologo statunitense John Shelby Spong, Incredibile. Perché il credo delle chiese cristiane non convince più, un testo che parla della crisi religiosa presente e di come il verbo cristiano sia stato sommerso dal raziocinio umano. “Incredibilmente” – dico io – il suo libro è giunto proprio all’inizio di una crisi sociale, pandemica, che di fatto ha immolato la religione sull’altare del verbo scientifico – mi riferisco alla serrata delle chiese e alle esequie vietate. Lei cosa pensa a riguardo?

    Oggi, secondo Spong, alcune questioni della teologia cristiana non sono più credibili. Esse riguardano le rappresentazioni del divino, della creazione, di Gesù, della preghiera, della vita dopo la morte. Per Spong sono queste le questioni che oggi devono essere al centro della teologia, della liturgia e del discorso pastorale. Secondo Spong, senza la discussione profonda di queste questioni le Chiese cristiane e i credenti che vivono ancora all’interno delle loro istituzioni non potranno che vivere come “in esilio”, fuori dal mondo secolare contemporaneo e con la sofferenza di appartenere a una rappresentazione del mondo irreale e unbelievable. È l’esperienza di chi si ritrova in un mondo astratto, non verificabile, lontano dalle sensibilità problematiche che la teologia dovrebbe illuminare. Da qui nasce l’invito a un nuovo viaggio nel mistero di Dio e delle sue creature, per riuscire a “dire Dio oggi” e a “dire creatura oggi” non solo come ripetizione del credo niceno-calcedoniano del IV/V secolo. Il teologo statunitense non propone soluzioni assolute, ma indica campi e direzioni di ricerca. Quanto al contesto attuale e alle limitazioni imposti dall’epidemia agli edifici di culto e alle celebrazioni di massa è da riconoscere che è la Chiesa cattolica post-tridentina molto strutturata sui gesti sacramentali, i luoghi di culto, le organizzazioni parrocchiali a subire maggiormente le limitazioni che le politiche di controllo del contagio dei virus impongono. Le forme religiose meno strutturate e con esperienze spirituali più personalizzate – quali quelle del Protestantesimo –  risentiranno minori effetti negativi.

 Di fatto, oltre ad essere un sociologo di fama internazionale lei è anche e soprattutto un sacerdote (se posso rivelare questa informazione), quindi è stato coinvolto in prima persona in questa crisi sociale. Secondo lei, il cristianesimo e le religioni in generale come potranno uscirne?

   Per varie circostanze nella mia vita ho potuto comporre insieme una professione laica full time all’Università e una vita privata in una minima comunità parrocchiale come prete cattolico. Due condizioni che si sono arricchite a vicenda. In entrambe ho visto crescere il dissidio tra l’appartenenza di singoli individui e di intere collettività alle religioni cristiane (cattolica, ortodossa e protestante), e la sempre minore adesione alle credenze che propongono ai loro fedeli. Con riferimento al Cristianesimo, tutto ciò contribuisce a ridurre il Cristianesimo a fenomeno “culturale” nel quale alla dichiarazione di appartenenza per tradizione non si accompagna più un’adesione profonda al credere e al praticare. Alla radice di tutto ciò sta la grande forma di dissonanza cognitiva che vive il credente contemporaneo, combattuto tra due fedeltà conflittuali: quella al suo credo religioso unbelievable (non più credibile) e quella alle evidenze scientifiche e alle trasformazioni della modernità. Il cristiano delle varie Chiese vive oggi la nuova dissonanza cognitiva tra il sistema di credenze della sua Chiesa e la condizione secolare moderna che le contraddice. Se il Cristianesimo avrà un futuro, potrà averlo solo in forme diverse da quelle che conosciamo, poiché è il contesto secolare che lo richiede. 

Sempre rimanendo su questo tema, le autorità ecclesiastiche, hanno autorizzato, nel contesto della presente emergenza sociale, una ostensione straordinaria della Sindone. Non voglio commentare questo fatto perché non so effettivamente quale risultato possa aver prodotto, ma questi eventi, come in passato le apparizioni, molto strumentali, della Madonna a Medjugorie, fanno parte di un immaginario che a quanto ho capito lei critica fortemente, o no?

     La religiosità popolare è sopravvissuta anche nei decenni nei quali maggiore è stato il primato accordato all’espressione intellettuale della fede professata e vissuta nella militanza storica. È sopravvissuta in una sorta di clandestinità, fuori dai sistemi teologici della razionalità e dei meta-racconti annuncianti il trionfo della scienza e della laicità. E oggi, nella fase della pandemia, la religione popolare potrebbe rappresentare ancora un elemento a dare senso all’esistenza umana. Per le religioni, tutto ciò potrebbe però essere la tentazione di utilizzare ogni nostalgia del sacro e del misterioso per il proprio successo. 

Un’ultima domanda: Lei ha raccontato la figura di Gesù in un libro che ha riscosso un notevole successo, pubblicato qualche anno fa per i tipi di Cittadella: in questo libro lei racconta Gesù ricollocandolo nel suo contesto originario. Quanto, oggi, di quell’insegnamento è rimasto nelle Chiese cristiane e quanto può servire la figura di Gesù da esempio per una futura rinascita spirituale dell’Occidente?

Anche per le religioni vale il principio generale secondo cui gli individui amano solo le cose desiderabili. Nel Cristianesimo la prima cosa desiderabile non può che essere il messaggio evangelico e il “maestro” che l’ha annunciato e vissuto. Gesù era un laico e tendeva a desacralizzare ogni forma di separazione tra religione e vita, tra confini del popolo ebraico e quelli del mondo pagano. Annunciava un messaggio che riguardava l’essere più che la morale. Il mondo di cui parlava era un mondo “alla rovescia”, in cui si ribaltavano le gerarchie tra poveri e ricchi, ultimi e primi, donne e uomini, semplici e potenti. Raccontava di un Dio buono che aveva dentro di sé la vita, la molteplicità, le relazioni e che, per questo, non poteva essere senza ciò che era fuori di sé. Un Dio “non senza l’altro”, non senza le creature, non senza i mondi. 

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di Luigi Berzano

Sociologo, prete, già professore ordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso la Facoltà di Scienze politiche dell'Università degli Studi di Torino.

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