di Igiaba Scego. Scrittrice, ricercatrice e giornalista
Il 2005 è stato un anno importante per i figli e le figlie di migranti, sia da un punto di vista squisitamente culturale, sia sul fronte della lotta per i diritti di cittadinanza. Oggi, a 15 anni di distanza, alcune delle protagoniste di quelle lotte tornano a far sentire la loro voce, mescolandola a quella delle nuove generazioni di “G2”.
Il 2005 è stato un anno importante per noi figli e figlie di migranti. In quell’anno uscì per i tipi di Laterza la nostra antologia (mia e delle mie colleghe Gabriella Kuruvilla, Laila Wadja, Ingy Mubiayi) Pecore Nere che fu una sorta di “bomba” innescata nelle viscere della letteratura italiana.
In Italia a quei tempi erano numerosi i libri di scrittori e scrittrici migranti che descrivevano nei loro testi viaggi, spaesamenti, razzismo, nostalgia, difficoltà. Era la generazione arrivata negli anni ‘80/’90 che finalmente prendeva la penna in mano e metteva la propria biografia a disposizione del grande pubblico.
Erano usciti libri on the road come Io, venditore di elefanti del senegalese Pap Khouma, ironici come gli Imbarazzismi del dottore togolese di Erba Kossi Komla-Ebri e nostalgici come l’Immigrato di un acuto osservatore della realtà come Salah Methnani (oggi inviato di Rainews24). Libri a volte ibridi, scritti a quattro mano che mescolavano favelle, orizzonti, prospettive, sogni. Libri che dicevano all’Italia «Guarda: sei cambiata!». Ma questa dimensione transculturale di cui parlavano i vari scrittori migranti, con il nostro arrivo (noi “G2”) sulla scena letteraria divenne evidente.
Eravamo davvero un ibrido in potenza, figli e figlie dell’Italia e di un altrove che cambiava a seconda delle nostre origini. Eravamo persone profondamente legate alla lingua italiana, ma anche alla lingua delle nostre madri e dei nostri padri. Respiravamo a casa e intorno a noi un doppio sguardo, una doppia lingua, un doppio modo di amare o criticare il mondo. Avevamo personalità “doppie”, come il Dottor Jekyll e Mr Hyde, ma certo non eravamo persone maligne. Eravamo solo la prova che l’Italia era cambiata.
Eravamo un’Italia che aveva la pelle nera, gli occhi a mandorla e poteva pregare Allah come Shiva. Eravamo italiani e italiane + con qualcosa in più e non qualcosa in meno.
Oltre che per il versante letterario, il 2005 è stato importante perché è stato l’anno dei primi movimenti per la lotta per la cittadinanza italiana per i figli e le figlie di migranti nati/e e/o cresciuti nel Paese. L’associazione G2 – Seconde generazioni era molto attiva. Non solo in piazza, ma anche nell’inventarsi contenitori per farsi conoscere e far conoscere la causa dei figli e delle figlie di migranti, noi nuovi invisibili. Fra i tanti progetti, G2 produsse un cd musicale, un fotoromanzo, dei videoclip come Forte e Chiaro con la regia di Rosa Jijon che passò alla storia.
Il Paese cominciò a capire che esistevamo anche noi. Che eravamo parte della nazione. Furono anni di lotta, manifestazioni, idee creative, libri sempre più complessi. Ma ora arrivati al 2020 possiamo dire, con la tristezza nel cuore, che il Paese non ha risposto: ad oggi, infatti, non c’è ancora una legge sulla cittadinanza italiana per figli e figlie di migranti nati/e e/o cresciuti in Italia. Il percorso di quei ventenni e trentenni di allora è ancora difficoltoso e i problemi di allora non sono stati risolti e stanno ricadendo sulle spalle dei giovani e bambini di oggi che vivono da stranieri nella loro nazione.
I e le giovani si danno molto da fare. Basti pensare a come un film come Bangla di Phaim Bhuiyan ha vinto il David di Donatello o come nei consigli comunali delle nostre città, per esempio Marwa Mahmoud a Reggio Emilia, ci sono ormai giovani che prendono le redini della loro città e la guidano verso il futuro.
Le energie messe in campo sono tante. Ma il Paese sembra sempre più immobile, incapace di proiettarsi nel futuro, incapace di vedersi diverso. Di fatto la nostra Italia ci rifiuta. E forse non è un caso che proprio ora sono tornate, o stiano tornando, in libreria molte “ragazze del 2005”. Nel suo ultimo romanzo uscito durante il lockdown dal titolo Maneggiare con cura (Morellini Editore) Gabriella Kuruvilla descrive una Milano felicemente “contaminata”, ma non di virus questa volta, ma di persone e dei loro intrecci di appartenenza, sesso e classe. Un romanzo ironico che intasa il futuro con il passato. E proprio di passato si occuperà Cristina Ali Farah in lavorazione con Le stazioni della luna, dove viene esaminata la storia del postcolonialismo italiano in Somalia, perché la storia del colonialismo storico in fondo si è solo evoluta, e di fatto quei rapporti neocoloniali riguardano anche i nostri corpi, seppur differenti, qui e oggi.
Le “ragazze del 2005” ora hanno più anni sulle spalle, ma anche la forza di unire le loro voci – fatte di lotte e attraversamenti – con quelle delle giovani generazioni nate dalla migrazione. Guardando queste generazioni così energiche risulta chiaro che l’Italia ha ancora una chance di farcela, di uscire dall’immobilismo, ma solo se accetterà di mescolarsi e fare dei passi avanti.
[pubblicato su Confronti 06/2020]
Igiaba Scego
Scrittrice, ricercatrice e giornalista