di Goffredo Fofi. Scrittore, critico letterario e cinematografico, giornalista. Direttore della rivista Gli asini.
I “Fatti di Piazza Statuto” del 1962 durarono con alti e bassi tre giorni e due notti, richiamando l’attenzione del Paese su una realtà nuova, ignorata dai più: non solo quella di una nuova stagione delle lotte operaie ma anche quella di una generazione operaia del tutto nuova, che più tardi doveva essere la protagonista dell’“autunno caldo” del 1969.
Dal 7 al 9 luglio del 1962 Torino fu sconvolta da una violenta rivolta localizzata in piazza Statuto e dintorni, una piazza abbastanza centrale circondata da portici e appesantita al suo centro da un orrendo monumento al traforo del Frejus. Vi si ebbero scontri diurni e notturni, che ogni tanto si placavano ma si riaccendevano presto, tra gruppi di giovani manifestanti e la Celere (le truppe speciali della repressione) e altra polizia.
Tutto era cominciato un mese prima, quando gli operai erano scesi in sciopero nelle molte fabbriche della Fiat, dopo il lungo silenzio degli anni cinquanta, dovuto ai ricatti della “guerra fredda” e a un’efferata repressione padronale di ogni istanza di base (la Fiat si era perfino inventata dei “reparti confino” dove isolare gli operai “facinorosi”, gli agitatori sindacali e chiunque osasse rivendicare e ribellarsi).
Erano gli anni del miracolo economico, dei primi governi di centro-sinistra, dell’ondata di migranti, soprattutto giovani, che abbandonavano le campagne e le periferie meridionali per cercar fortuna nel “triangolo industriale” Torino-Milano-Genova.
Erano anche gli anni di una forte invadenza politica delle destre, che, quando la Dc di Tambroni osò pensare a un governo Dc-Msi (il partito degli ex fascisti), provocarono nel luglio del ‘60 una grande sollevazione giovanile.
Ci fu chi la chiamò la rivolta delle “magliette a strisce”, per via della povera moda che univa, quasi una divisa comune e non programmata, una generazione di giovani proletari e studenti. Gli scioperi nei molti stabilimenti Fiat di Torino, i primi dopo anni e anni di silenzio, erano stati preparati da quelli di molte piccole fabbriche e in particolare da quelli della Lancia, e furono esplosivi, entusiasmanti.
Li ho vissuti “da dentro”, militando allora nel gruppo dei Quaderni Rossi, ancora vicino al sindacato di sinistra dei metalmeccanici, la Fiom diretta da Pugno, un ex-operaio di forte personalità. (Aiutai Paolo e Carla Gobetti nella realizzazione di un documentario militante, Scioperi a Torino, di cui facemmo scrivere il commento, su consiglio di Raniero Panzieri, a Franco Fortini, poeta e “compagno”).
Più tardi, una parte dei sindacati, la Uil (legata al partito socialdemocratico, ai “saragattiani”), tentò accordi isolati con la Fiat e questo le mise contro gli operai in lotta, spingendo i giovani della Federazione Giovanile Comunista (Fgci) ad azioni di protesta di fronte alla sua sede, che stava appunto in Piazza Statuto.
Ai giovani della Fgci si erano subito uniti tanti giovani immigrati, quelli che lavoravano nelle tante fabbrichette legate alla Fiat producendo quei pezzi secondari che all’azienda costava molto meno far fare ad altri, anche perché i controlli sindacali e legali vi erano minori e soprattutto perché la “mano d’opera” vi costava assai meno.
Il 7 luglio la Celere intervenne a stroncare la manifestazione davanti alla Uil e da questo conseguì una battaglia, ricca di scaramucce e di scontri aperti, nota come “i fatti di piazza Statuto”. Lo scontro durò con alti e bassi tre giorni e due notti (l’8 fu un giorno quasi tranquillo) e richiamò l’attenzione del paese su una realtà nuova, ignorata dai più: non solo quella di una nuova stagione delle lotte operaie ma anche quella di una generazione operaia del tutto nuova, che più tardi doveva essere la protagonista dell’“autunno caldo” del 1969, consecutiva al risveglio degli studenti e alle loro lotte del ‘68.
Al processo per quei fatti, che vennero più tardi ricostruiti e narrati mirabilmente da Dario Lanzardo, militante dei Quaderni rossi che li aveva seguiti, come me e altri, da vicino, in un bel libro edito da Feltrinelli (La rivolta di piazza Statuto, 1979), si seppe che 1.215 erano stati i giovani fermati e schedati dalla polizia e 90 gli arrestati (nel frattempo la Fiat aveva provveduto a licenziare 88 dipendenti coinvolti negli scontri).
Le prime reazioni giornalistiche avevano parlato di una rivolta di giovani immigrati, visti perlopiù come “giovani teppisti” estranei alle tradizioni della classe operaia torinese, mentre al processo si verificò che i giovani in rivolta erano soprattutto membri della Fgci, il cui segretario subì una pesante condanna.
I giovani immigrati erano venuti dopo, a sfogare la loro frustrazione, a reagire alla loro solitudine ed emarginazione. Io, che stavo lavorando alla mia inchiesta sugli immigrati meridionali a Torino e che frequentavo molti di quei giovani, peraltro miei coetanei, lo sapevo bene e ne parlai a lungo con Umberto Segre, una delle migliori firme de Il Giorno, il miglior quotidiano del tempo, che giunse a Torino da Milano e che non aveva paraocchi. Ma l’aspetto più imbarazzante di quella vicenda fu per me quello di una sorta di “tradimento” del sindacato che, su pressione del partito comunista da Roma, cercò un capro espiatorio trovandolo proprio nei Quaderni rossi.
All’accusa del Pci e del sindacato di essere stati noi a sobillare i giovani e perfino a organizzarli e dirigerli, si adeguò anche Vittorio Foa, un grande sindacalista socialista che di Panzieri era amico e per il quale io avevo, come tanti, una grande venerazione. E quando Vittorio venne a cercare Panzieri per giustificarsi, sapendo che in quei giorni eravamo in riunione quasi permanente nella sede del Centro Gobetti (per il quale io lavoravo e dei cui locali disponevo con l’accordo di Ada e di suo figlio Paolo per le affannose riunioni di quei giorni, ché il Centro era a due passi da piazza Statuto), fui io ad aprirgli la porta, e ad avvertire Raniero, che rifiutò di riceverlo. Fui io a dirglielo, vidi Foa pallido e avvilito.
Posso capire ora quali fossero state le pressioni che aveva dovuto subire, e capire insieme la preoccupazione del sindacato, di fronte alle pressioni del Pci centrale e locale che voleva attribuire la responsabilità della rivolta a qualcuno che non fosse la Fgci, ma la posizione di Foa, grande sindacalista e grande intellettuale, e per me e per tanti un maestro e un amico, mi fu difficile perdonarla, E più ancora lo fu per Panzieri e per altri dei Quaderni, Rieser, Mottura, i Lanzardo… Militanti ben più di me esemplari.
[pubblicato su Confronti 06/2020]
Photo: © Doriano Strologo
Goffredo Fofi
Scrittore, critico letterario e cinematografico, giornalista. Direttore della rivista Gli asini.