di Gaetano De Monte. Giornalista
Secondo quanto scrivono in una sentenza di secondo grado i giudici d’appello della Corte d’Assise del Tribunale di Lecce, il reato di schiavitù previsto dall’ultima normativa sul caporalato del 2016 non è contestabile a fatti accaduti prima; nonostante sia stata ampiamente riconosciuta, nello specifico, dalla pubblica accusa, la gravità degli episodi contestati nell’ambito del processo di primo grado istruito ad alcuni caporali agricoli. Era l’agosto del 2011, una storia ordinaria di sfruttamento ma anche di riscatto migrante che accadeva tra le campagne di Nardò, esattamente al confine tra le province di Brindisi, Lecce, Taranto.
Una sentenza d’appello su cui invece ora sindacati e associazioni minacciano battaglia, promettendo il ricorso in Cassazione, perché l’ambito giudiziario dei poteri rischierebbe di riscrivere, così, la storia di una grande conquista politico-sociale e di umanità resa possibile da uno sciopero, quella di cui sono stati protagonisti i braccianti stranieri di quella che fu definita la rivolta di Nardò; insieme ad altre storie di riscatto sociale e dallo sfruttamento contadino che abbiamo conosciuto in giro per l’Italia, e su cui tuttora vi sono in corso giudizi pendenti, e da diversi anni.
Sono state depositate in cancelleria, infatti, proprio nei giorni del lockdown, il 10 marzo del 2020, a ben undici mesi di distanza dalla sua emissione, le motivazioni della sentenza con cui il 19 aprile del 2019 la Corte d’Assise di Appello Lecce aveva quasi ribaltato gli esiti del processo di primo grado istruito nei confronti di una decina di caporali italiani e stranieri, alcuni di essi imprenditori agricoli, particolarmente attivi nell’area di Nardò, in provincia di Lecce, ma con interessi gravitanti in tutta l’area del Sud Italia. Come si ricorderà, gli imputati erano stati messi alla sbarra nell’agosto del 2011 dopo una vasta operazione anti-caporalato condotta dai carabinieri dei Ros che raccolsero le denunce dei braccianti stranieri, della Federazione dei lavoratori agricoli – Flai – della Cgil e di associazioni particolarmente attive del territorio come Finis Terrae, Libera (denominazione diversa dall’associazione fondata da don Luigi Ciotti), e tutti loro costituitesi parte civile al processo insieme alla Regione Puglia.
Nella sentenza di primo grado i giudici scrissero che «le circostanze oltre che aggravare il delitto di cui all’art. 603 bis-cp, cioè il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro» contestato agli imputati, si configurava «essere la cartina di tornasole di una soggezione continuativa,correlata ad una condizione di vulnerabilità della vittima, che vale ad integrare il più grave reato di riduzione in schiavitù». E, tuttavia, si ponevano i magistrati di primo grado «il problema di delineare il confine tra le due norme, posto che il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro è alternativo (salvo che il fatto costituisce più grave reato) a quello di riduzione in schiavitù previsto dall’articolo 600 c.p».
Ma, nel frattempo, quello che scrivono i giudici della Corte d’Assise d’Appello nella sentenza del 2019 le cui motivazioni sono state rese soltanto note dopo 11 mesi, nel pieno del dibattito politico sulla regolarizzazione dei migranti, è che: «questa Corte ritiene di dover rivedere la decisione relativa alla sentenza di primo grado per i reati di associazione a delinquere e riduzione in schiavitù, perché non adeguatamente supportata dalle prove acquisite, nei limiti di corretta utilizzazione delle stesse ai fini della decisione».
Tradotto dal giuridico: le prove ci sarebbero pure, ma non è possibile utilizzarle correttamente. Perché, scrivono ancora i giudici del collegio giudicante presieduto da Vincenzo Scardia: «la vicenda rimanda al caporalato in quanto tale, ma non a un presunto sistema Nardò in cui caporali e imprenditori erano d’accordo per far sottostare i lavoratori a dette imposizioni». E ancora, la Corte di secondo grado alla fine ha assolto la maggior parte degli imputati dall’accusa di associazione a delinquere finalizzata alla riduzione in schiavitù dei braccianti, alcuni imputati accusati in precedenza di «aver dato vita ad una associazione criminale finalizzata al reclutamento degli extracomunitari da destinare allo sfruttamento lavorativo nella raccolta di angurie e pomodori e al tal fine mantenuti in una condizione di soggezione continuativa, diretta alla commissione più delitti, tra cui quello alla schiavitù, l’estorsione, la violenza privata, l’intermediazione illecita e lo sfruttamento del lavoro».
Per la nuova sentenza, dunque, queste accuse non esistono più. E così per qualcuno come il “re delle angurie” di Nardò che ne era considerato il promotore e l’organizzatore, Pantaleo Latino, e per il punto di “riferimento dei caporali”, Saber Ben Mohamud, non esisterebbe più, di fatto, l’accusa di aver organizzato il lavoro al fine di trarne il massimo sfruttamento. E assolve gli imputati perché «il fatto non sussiste e perché lo stesso reato del 603 c. p bis è già ritenuto assorbito nel reato di riduzione in schiavitù». Concludendo – i giudici – che: «all’epoca dei fatti non era prevista dalla legge come reato».
Per chi, come Finis Terrae – associazione che in quegli anni svolgeva attività di tutela socio-legale dei braccianti stranieri nelle campagne di Nardò – e dai cui esposti è partito il processo Saber, «questa sentenza, osservata da vicino, secondo noi, ha un carattere istituente, in senso negativo. Perché di fatto sancisce in modo inequivocabile l’accesso a un trattamento non equo nei confronti dei lavoratori stranieri. Non condividiamo la scelta della mancata configurazione della riduzione in schiavitù, perché così resta inevasa una richiesta di giustizia di fatti già acclarati durante il dibattimento».
Dicono da Finis Terrae: «Noi non pensiamo che una sentenza possa modificare i processi sociali ma siamo di fronte al fatto che sono stati derubricati a fatti di second’ordine le condizioni di violenza e sopraffazione nei luoghi di lavoro che vivevano sulla propria pelle persone fragili e assoggettate». E ancora: «Siamo garantisti e quindi rispettiamo le sentenze, ma consideriamo anche che nella valutazione abbia pesato che le parti lese fossero lavoratori stranieri che per la prima volta comparivano nell’aula di un tribunale per affrancarsi dallo sfruttamento».
Quella che al momento è soltanto una ipotesi che sembra farsi strada in queste ore è quella del ricorso in Cassazione. Ad annunciare, invece, il ricorso alla suprema Corte contro la sentenza è Ivan Sagnet, oggi scrittore e sindacalista della Flai Cgil, allora bracciante e ingegnere, ormai quasi dieci anni fa portavoce dello sciopero dei braccianti di Nardò. Dice Sagnet: «Dalle motivazioni della sentenza di appello emerge che la condotta di caporalato sussiste, ma il vuoto normativo prima della legge del 2011 e l’irretroattività della norma penale assolvono caporali e padroni nell’ambito del processo Sabr, il primo in Europa contro il caporalato». Come dire che, prima del 2011, nelle campagne pugliesi descritte nel romanzo Uomini e Caporali degli inizi degli anni 2000, ancora qualche decennio prima, nella Puglia delle lotte sindacali di Peppino di Vittorio, laggiù, non esisteva la schiavitù.
Ph. Radio Alfa
Gaetano De Monte
Giornalista