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Senza eredità

by Stefano Allievi

di Stefano Allievi, Sociologo, Professore di Sociologia presso l’Università degli studi di Padova.

Il mondo prima della pandemia ci sembrava “normale”, dando per scontate molte sue componenti in realtà arbitrarie. Ma come sarebbe il mondo se…

Come specie – come tutti gli animali – siamo abituati a vivere nel presente. A ricominciare sempre da capo. Quando ce lo dimentichiamo, ci pensa la natura a ricordarcelo: come in questi mesi di pandemia – in cui anche il ricco Occidente e il mondo sviluppato è costretto a riscoprire la precarietà e la fragilità della vita umana e delle sue costruzioni, dei suoi progetti, delle sue aspettative, delle sue illusioni. E, con esse, il rischio di non avere un domani.

Cosa che il resto del mondo – e una parte del nostro – sa bene per esperienza quotidiana: legata alla natura (terremoti, eruzioni vulcaniche, tempeste, siccità, magari invasioni di cavallette, ma anche, banalmente, malattie) o alla violenza dell’uomo (guerre, razzismo, repressione politica o religiosa, ma anche invidia, aggressività, brama di possesso – e quanto spesso riguarda gli uomini nei confronti delle donne, non solo del denaro –, gusto per il potere, pura e semplice cattiveria).

Ma come! Non ci eravamo appena emancipati dalla povertà? Non abbiamo – da poco, dopo tutto – inventato il welfare state e le pensioni? Non avevamo smesso di procurarci il cibo giorno per giorno? Non potevamo programmare, progettare, emanciparci almeno transitoriamente dalla schiavitù del bisogno e del lavoro? Sì, tutto questo è vero.

È un processo recente nella storia dell’umanità – e reversibile, come ci dimostra anche questa crisi da pandemia (o da timore di essa) – ma è ancora in corso: molti di noi non sono più vincolati dalle sole risorse acquisite con le proprie mani, procurate nella dura fatica quotidiana per conquistarsi quanto basta per sopravvivere fino a domani. E questo riguarda sempre più persone nel mondo, anche se molti restano gli esclusi.

Nello stesso tempo comincia a emergere qua e là la coscienza che in un certo senso tutto è troppo. Troppa proprietà, troppi oggetti, persino troppe certezze, intorpidiscono. E così, si vedono emergere delle controtendenze. Tribù metropolitane, subculture e controculture alternative, che focalizzano il loro interesse e gerarchizzano le loro priorità su altro: qualità delle relazioni, valorizzazione del tempo, o anche solo chiusura in se stessi e nel proprio qui e ora senza voglia o capacità di uscirne, come nel caso estremo degli hikikomori.

Ma è una tendenza più ampia e diffusa, e normalmente più vitale: indotta anche dall’evoluzione tecnologica e del costume. Il bagaglio leggero e portatile delle nuove mobilità e connettività (se possiedi pc, smartphone e un paio di memorie esterne hai più o meno tutto quel che ti serve, sia in termini di oggetti e ricordi sia di informazioni e conoscenze necessarie e disponibili), l’inutilità progressiva della proprietà (dell’auto, dell’ufficio, della casa, dei mobili, degli oggetti) in favore dell’utilizzo collettivo, del riutilizzo e dello scambio rapido, senza inutili affezioni.

Conoscenza, cultura, valori, persino ricordi familiari ormai sono sempre meno incorporati negli oggetti e sempre più disponibili da qualche parte su internet. Soprattutto, sono sempre meno ereditati e sempre più acquisiti, secondo i giochi del caso e delle possibilità, e le avventure della ricerca, e i suoi inciampi, spesso casuali. Casa, per esempio, per moltissimi non è più dove si è nati, e nemmeno dove vivono le persone che ci hanno generato: ma dove si decide di stare, dove si viene accolti, dove piace (e spesso non è un luogo, ma magari un lavoro, un hobby, un’idea, un’appartenenza culturale, religiosa, politica…).

È il concetto stesso di eredità (non quello di ereditarietà) ad apparire obsoleto, oltre che sommamente ingiusto. Pensiamo alle eredità materiali: soldi, patrimoni. Persino i più ricchi tra i ricchi globali oggi cominciano a teorizzare e persino in certa misura a praticare che non è giusto e non ha senso lasciare immensi patrimoni (sempre più spesso, oggi, acquisiti in una sola generazione) alla generazione successiva, che non ne ha alcun merito – e magari cominciano a stoccare parte significativa di questi beni in fondazioni a servizio del pubblico.

Anche in Italia è gravissima l’ingiustizia prodotta dalla trasmissione dei patrimoni per via ereditaria – da noi, oltre tutto, molto meno tassata che altrove – per finire non di rado in mani indegne e dissipatrici, per incapacità molto più che per indegnità: l’opposto della meritocrazia, oltre che di un’idea di bene comune. E sarebbe ora di cominciare a dirlo e ad agire di conseguenza. Tassando il giusto i beni ereditati. E cominciando a discutere pubblicamente sulla loro legittimità.

In società ricche ed evolute, in cui il minimo per vivere decentemente potrebbe essere garantito indistintamente a tutti, il resto potrebbe essere lasciato alle capacità di ognuno, e al caso, ma non più a diseguaglianze ereditate alla nascita, senza merito o demerito di nessuno.

[pubblicato su Confronti 06/2020]

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Stefano Allievi

Sociologo, Professore di Sociologia presso l’Università degli studi di Padova.

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