di Enzo Nucci. Corrispondente della Rai per l’Africa subsahariana.
Le ultime votazioni in Burundi segnano la fine di 15 anni di potere autoritario del presidente uscente Pierre Nkurunziza. L’ex premier, comunque, continuerà a pesare sulle scelte politiche in uno dei Paesi africani più poveri, ancora alle prese con gli strascichi di una sanguinosa guerra civile.
«Questi risultati elettorali sono una fantasia. Li respingo assolutamente». È il lapidario commento di Agathon Rwasa, candidato del principale partito di opposizione (Cnl), ai dati parziali della consultazione presidenziale tenutasi il 20 maggio scorso in Burundi [al momento di andare in stampa non è ancora stato proclamato il vincitore, ndr.].
Per la Commissione elettorale, il candidato del partito di governo Evariste Ndayishimiye avrebbe ottenuto l’80% dei consensi da un primo spoglio delle schede. Percentuali “bulgare” preventive per mettere subito il cappello sull’ambita poltrona.
Entrambi i candidati si erano dichiarati certi della vittoria durante la campagna elettorale, facendo dunque presagire che nessuno dei due avrebbe accettato i risultati, pronti ad accusarsi a vicenda di brogli. Copione drammaticamente già visto, sperando che non seguano gli inevitabili spargimenti di sangue tra i sostenitori dei due schieramenti.
Queste votazioni segnano la fine di 15 anni di potere autoritario del presidente uscente Pierre Nkurunziza, che abbandona la scena con una ricca liquidazione di 530mila dollari, una lussuosa residenza e la carica di “Guida suprema eterna” riconosciutagli dal suo partito, il Consiglio Nazionale per la Difesa della Democrazia – Forze per la Difesa della Democrazia (Cndd-Fdd), saldamente al Governo.
Va sottolineato che Nkurunziza nel maggio 2018 fece approvare grazie ad un referendum popolare un progetto di revisione costituzionale che gli garantiva la carica di presidente fino al 2034. Tutto questo significa che continuerà a pesare enormemente nelle scelte politiche di uno dei paesi africani più poveri.
L’esecutivo non si è fatto scrupolo di usare l’epidemia di Coronavirus per negare i visti di ingresso ai giornalisti stranieri ed agli osservatori elettorali internazionali, espellere i rappresentanti dell’Organizzazione mondiale della sanità e non consentire il voto alle centinaia di migliaia di burundesi che vivono all’estero.
Sono state invocate quarantene e draconiane misure restrittive ma non sono stati proibiti affollati raduni politici del partito di governo. La campagna elettorale è stata contrassegnata dall’arresto di centinaia di militanti dell’opposizione, accusata di incitare alla rivolta e di diffamare le autorità. Un clima incendiario che tuttavia non ha dato fuoco a proteste di massa.
Gli 11 milioni di cittadini stanno ancora curando le ferite di una lunga guerra civile, simile a quella che ha infiammato il confinante Rwanda con la feroce contrapposizione tra hutu e tutsi.
In Burundi il conflitto etnico scoppiò sei mesi prima con l’omicidio nell’ottobre del 1993 di Melchior Ndadaye, primo presidente hutu democraticamente eletto dopo decenni di potere tutsi. L’assassinio scatenò crudeli massacri dei tutsi ma anche degli hutu moderati, considerati traditori perché non si vollero piegare alla logica della separazione etnica.
Fu l’inizio della guerra civile che formalmente terminò il 28 agosto del 2000 con la firma dell’Accordo di Arusha per la pace e la riconciliazione sotto la supervisione di Nelson Mandela. Gli scontri armati in realtà durarono fino al 2005 quando il processo di transizione condusse Nkurunziza alla presidenza, designato dall’Assemblea Nazionale e dal Senato per un mandato di 5 anni e rieleggibile una sola volta.
L’ex comandante militare fu rieletto nel 2010 nel corso di una campagna elettorale contrassegnata da mancanza di trasparenza. La roccaforte del suo consenso era consolidata nelle zone rurali arretrate e prive di scolarizzazione dove la politica populista finalizzata a soddisfare i bisogni immediati e quotidiani gli garantiva voti. Negli agglomerati urbani invece il suo partito (Cndd-Fdd) ha sempre faticato ad essere accettato.
Tolleranza zero verso le opposizioni, tendenze autoritarie e sistematico calpestìo delle regole contraddistinguono l’operato di Nkurunziza che nel 2015 annunciò la sua terza candidatura appigliandosi ad artificiose interpretazioni normative sull’attribuzione del primo mandato presidenziale conferitogli non dal voto popolare ma dalle camere. Una percorso segnato anche dal referendum che gli lasciava possibilità di “regnare” fino al 2034.
Ora il cambio al vertice dello stato, almeno formale. Bisognerà capire se l’opposizione rinuncia a portare in piazza la protesta contro Evariste Ndayishimiye, portavoce del partito al potere e strettissimo collaboratore del presidente uscente. Una partita che rischia di inondare di nuovo di sangue le strade del Burundi.
[pubblicato su Confronti 06/2020]
Enzo Nucci
Corrispondente della Rai per l’Africa subsahariana