Diego Battistessa. Docente e ricercatore dell’Istituto di studi Internazionali ed europei “Francisco de Vitoria” – Università Carlos III di Madrid
Adela Cortina, spagnola, 73 anni, filosofa e professoressa di etica all’Università di Valencia. Poche parole che non possono riassumere una vita straordinaria. Una donna che ha segnato in modo indelebile il passaggio tra il XX e il XXI secolo. Un’ intellettuale riconosciuta internazionalmente, un’accademica che ha ricevuto ben dodici dottorati Honoris Causa e che ha coniato un termine che acquista sempre più peso nel dibattito socio-politico del mondo ispanofono e non solo: aporofobia.
Il neologismo aporofobia, è formato partendo dal termino greco á-poros, (senza risorse o povero) e fobos, (paura), significa odio, paura, repulsione o ostilità di fronte al povero, a colui che si trova in situazione di indigenza. Adela Cortina fu la prima persona ad utilizzare e diffondere questo termine: lo fece in un articolo scritto per il giornale spagnolo ABC il l’1 dicembre del 1995. In quello scritto la professoressa pretendeva offrire una lettura diversa rispetto all’interpretazione dei conflitti della zona euromediterranea. Esisteva «l’urgenza di dare un nome a questa patologia sociale per poterla diagnosticare con maggior precisione, scoprire la sua eziologia e proporre dei trattamenti (politiche) effettive» come scrive lei stessa nel suo libro Aporofobia, el rechazo al pobre: un desafío para democracia.
La tesi argomentata da Cortina è quella secondo la quale molti dei conflitti sociali che siamo abituati ad etichettare come xenofobia, razzismo o repulsione verso migranti o rifugiati, in realtà sono manifestazioni di un’avversione che si produce non per la loro condizione di stranieri o perché appartengano a diverse etnie, ma semplicemente perché sono poveri.
L’importanza della creazione e diffusione di questo neologismo risiede nella sua capacità di rendere visibile una circostanza che in molti casi risulta sfocata e vittima di superficialità. La nascita della parola aporofobia cambia la realtà, determina una rottura nella nostra attuale percezione e ci costringe a ripensare la simbologia comunicativa oggi adottata, etichettando e nominando una fenomenologia sociale. Come ben sappiamo, quello che non si comunica non esiste e ciò che non ha nome non può essere comunicato. La professoressa Cortina con il suo lavoro ci fornisce uno strumento che definisce e manifesta una realtà sociale di portata globale permeata dagli atteggiamenti quotidiani di paura, rifiuto e avversione verso i poveri. Usando questa parola riveliamo una mistificazione che ci porta a cadere nella trappola della xenofobia, un sentimento diverso che non ha a che vedere con l’aspetto economico.
La xenofobia o senofobia (composta dalle parole greche Xeno e Fobia) è il sentimento di avversione generale e indiscriminata verso gli stranieri o verso ciò che è straniero.
Si manifesta in atteggiamenti e azioni di intolleranza e ostilità nei confronti di costumi, cultura e persone di altri paesi. È spesso accompagnata da un atteggiamento nazionalista, con la funzione di rafforzare il consenso nei confronti dei modelli sociali, politici e culturali del paese stesso, attraverso il disprezzo per quelli dei paesi nemici ed è quindi incoraggiato, soprattutto, dai regimi totalitari. Nella maggior parte dei casi la xenofobia si basa sul sentimento di protezione di una nazione, sebbene a volte possa anche essere collegata al razzismo o alla discriminazione basata sul mito della razza.
Proprio a causa della connotazione violenta e negativa dell’atteggiamento xenofobo, la Convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale ratificata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nella sua risoluzione 2106 A (XX), del 21 dicembre 1965, fa speciale riferimento al superamento e alla cessazione di:
Qualsiasi distinzione, esclusione, limitazione o preferenza basata su motivi di razza, colore, lignaggio o origine nazionale o etnica il cui scopo o risultato è annullare o compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di uguaglianza, dei diritti umani e libertà fondamentali nella sfera politica, economica, sociale, culturale o di qualsiasi altra sfera della vita pubblica.
Articolo 1 del CERD
Nel 2017, la Fondazione del Español Urgente (Spagnolo Urgente), promossa dall’agenzia Efe e BBVA, ha scelto il neologismo aporofobia come parola dell’anno per evidenziare questo atteggiamento di paura, rifiuto o avversione nei confronti dei poveri. Il termine aporofobia fa già parte del dizionario della lingua spagnola e nel settembre 2018 il Senato spagnolo ha approvato una mozione che chiede l’inclusione dell’aporofobia come circostanza aggravante nel codice penale. Lo stesso direttore generale della Fondazione BBVA ha dichiarato in un’intervista del 2017 che: «non è una parola creata quest’anno, non è nemmeno conosciuta dal grande pubblico, ma è un termine che raccomandiamo da tempo dalla Fondazione BBVA e ora la Reale Accademia Spagnola ha deciso di incorporarla nel suo dizionario. L’apofobia nomina una realtà, un sentimento che, a differenza di altri, come la xenofobia o l’omofobia, e pur essendo molto presente nella nostra società, nessuno aveva battezzato».
Per riflettere su come l’aporofobia sia stata assimilata strutturalmente nelle nostre società possiamo fare l’esempio dei cosiddetti programmi di Cittadinanza per Investimento. Questi programmi sono rivolti a coloro che vogliono trasferirsi in un altro paese o acquisire un’altra cittadinanza. Il meccanismo è semplice, sebbene la procedura e la documentazione richiesta siano diverse per ciascun paese. Tutto quello che si deve fare è investire o impegnarsi ad utilizzare una determinata somma di denaro (che varia a seconda del Paese) nello Stato nel quale si intende ottenere un permesso di soggiorno o cittadinanza. Sul sito web www.residencies.io ci viene offerta una panoramica completa e aggiornata della quantità di denaro necessaria per smettere di essere straniero e diventare, per esempio nel caso della Ue, cittadino comunitario. Scopriamo quindi che per ottenere un permesso di soggiorno temporaneo in Spagna (indipendentemente dalla nazionalità di origine) è necessario un investimento di 500mila euro e dimostrare di avere un reddito annuo minimo di 25.560 euro. Dopo 5 anni questa residenza temporanea può essere convertita in residenza permanente e a 10 anni è possibile accedere alla cittadinanza. Il processo si è concluso e abbiamo già un nuovo ricco cittadino del Regno di Spagna e per estensione dell’Unione Europea. Anche in Portogallo il capitale richiesto è di 500mila euro, ma non è necessario dimostrare un reddito minimo; A 5 anni si ha diritto alla residenza permanente e a 6 anni si ha diritto alla cittadinanza. A Malta è forse ancora più semplice. Bisogna investire un capitale di “solo” 250mila euro e dimostrare di avere un reddito annuo di 100mila euro. Non appena si avvia il processo, si ottiene la residenza permanente e dopo 5 anni è possibile accedere alla cittadinanza. Solo nell’Unione europea con questi tre esempi (e potrebbero essere di più se includessimo l’Irlanda) possiamo osservare come sia stato istituzionalizzato il fenomeno battezzato nel 1995 Adela Cortina: non si tratta di xenofobia ma di aporofobia. L’Ue non vuole costruire muri contro gli stranieri, vuole farlo contro i poveri.
Grazie al lavoro di Adela Cortina, alla sua mente brillante e ai suoi scritti, abbiamo oggi un nuovo strumento che ci permette di interpretare le dinamiche sociali, di dare un nome proprio ad un fenomeno diffuso (e in crescita) e che mina alla base la convivenza sociale e l’azione civica della solidarietà. L’aporofobia potrebbe essere la grande pandemia del nostro tempo: Adela Cortina ci ha aperto la strada identificandola ed etichettandola, ora spetta a tutti noi affrontarla.
Diego Battistessa
Docente e ricercatore dell’Istituto di studi Internazionali ed europei “Francisco de Vitoria” – Università Carlos III di Madrid.