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Erdoğan, la geopolitica che riscrive la Storia

by Enrico Campofreda

di Enrico Campofreda. Giornalista e scrittore.

Esistono modi più o meno ingombranti per entrare nella Storia, Recep Tayyip Erdoğan da tempo ne ha scelto alcuni subdoli, altri dirompenti. Tutti comunque sotto i riflettori, perché il suo egocentrismo fa della visibilità una “roulette russa” alla quale non si sottrae. Anzi, amante del rischio, cerca il colpo grosso. Quest’anno col riempimento definitivo del bacino della maxi diga di Ilisu, nella regione sudorientale di Batman (area a maggioranza kurda) sono state sommerse le vestigia della cittadina di Hasankeyf e di molti villaggi pre-mesopotamici, testimonianze risalenti a 12.000 anni fa. Una parte dei reperti archeologici sono stati spostati altrove, pur fra le gravi critiche di molti archeologi e migliaia di abitanti sono finiti in un centro urbano costruito ex novo. Della questione si discuteva da decenni − da quando il progetto delle dighe sul fiume Tigri era stato avviato da altri governi turchi in contrasto con gli interessi del vicino Iraq − Erdoğan l’ha condotta a termine senza alcun ripensamento. Infliggendo un doppio schiaffo alla comunità irachena, da un quindicennio orfana del proprio Stato, che potrebbe essere privata delle preziose acque fluviali per i raccolti agricoli, e a quella kurda cui il leader turco riserva da tempo il massimo delle penalizzazioni. Poi con la vicenda di riportare in Hagia Sophia il culto islamico, ritrasformando in moschea un monumento “laicizzato” e reso museo da Mustafa Kemal, l’ex sindaco della metropoli sul Bosforo rilancia una lacerazione con un pezzo di mondo e riutilizza la via della polarizzazione che in politica interna finora l’ha sempre ripagato. Lui tracima e invade il terreno confessionale senza sentirne affanni, anzi compie il passo orgogliosamente. L’azione dell’antico padre della moderna Turchia che nasceva dalle polveri dell’impero Ottomano, accantonava la disputa fra la fede ortodossa defraudata della sua chiesa simbolo e l’islam conquistatore di Mehmet II, che dal 1453 fece di quel luogo la gloria dell’architettura musulmana. Scriveva Procopio di Cesarea nel VI secolo: «La Chiesa si erge fin quasi a toccare il cielo e quasi ondeggiando svetta sugli altri edifici sovrastando l’intera Città; di essa rappresenta il gioiello, poiché le appartiene, ma ne è al tempo stesso abbellita, essendone una parte e, come suo culmine, si eleva così in alto, che dalla Chiesa si può contemplare la Città come da un osservatorio».

Ciò nonostante ben altre maestose cupole e minareti sorsero nel mezzo millennio di dominio della Costantinopoli trasformata in Istanbul. Ma quel nome, come riportato dagli etimologi − Is tim boli da ɛìs ʈŋv πόλιν cioè “verso la città” − serbava quanto di greco l’urbe di Costantino e Giustiniano manteneva vivo. Ora rifare dello straordinario tempio ortodosso un luogo di culto islamico, vuol dire vellicare un conservatorismo religioso della mezzaluna che altrove ha sedi e mondi ben più fanatici.  Anche perché, nata cristiana e diventata islamica, la capitale sul Bosforo è un po’ come Gerusalemme, una città simbolo condivisa con altre religioni. Eppure Erdoğan ha spinto egualmente sull’acceleratore, la popolazione pur giovane intervistata sulla dibattuta questione, s’accalora attorno alla figura del sultano etichettato “Fatih”, cui è dedicata quella fetta cittadina in cui il partito di governo conta un pezzo del suo zoccolo duro. I libri di storia narrano dei cinquantatre giorni di assedio di Costantinopoli, iniziato in aprile terminato a maggio, come di una guerra moderna. Con l’uso del primo colossale cannone (definito dal nome del costruttore ungherese Orbán, che però lo offriva ai turchi), con blocchi navali sul Corno d’Oro degli assediati e superamenti con carrucole da parte flotta ottomana, con distruzioni, sventramenti, impalamenti, anche di donne e bambini, e tutto il peggio che il fanatismo militare propone e realizza. Ecco, al di là degli storici che sanno, studiano, divulgano letture variegate di quel passato, la proposta erdoğaniana che tutto mescola e che fa ricorso a tutto, sembra intervenire sul fattore divisivo, punitivo verso il passato anche recente e non ottomano, più che sullo spirito di quel che per secoli Costantinopoli-Istanbul rimase fino alle soglie del Novecento: «un guazzabuglio di cosmopoliti molto eterogenei». Elemento non disdegnato dagli stessi sultani che dopo la sottomissione, tolleravano le minoranze di fede dietro il pagamento di “tasse di protezione”. Era più il kemalismo, con e dopo Atatürk, a lanciare i pogrom antiellenici, certamente stimolato da azioni militari del nazionalismo greco. E oggi la dolente spina del confronto-scontro con Atene sta riprendendo attorno alla vicenda delle Zone Economiche Esclusive[1] nel Mediterraneo orientale, cosicché la nave di scandaglio Oruç Reis, impavesata di rosso e mezzelune, se ne sta al largo di Antalya, mettendo in fibrillazione marina e aviazione militari greche.

La contromossa di Erdoğan sulla limitazione allo sfruttamento dei fondali prospicienti le proprie coste per la presenza dell’isola di Kastellorizo (Megisti), che dista poco più d’un miglio dal territorio turco e 580 km dalla terraferma greca, è quella di creare la propria Zee dalla linea costiera Kas-Marmaris verso sud, insinuandosi fra le zone greca-egiziana e cipriota. Del resto il bottino dei giacimenti di gas Zohr e Leviathan insistono nella parte meridionale, tagliando fuori (almeno secondo quanto esplorato finora) i fondali prossimi alla Turchia. Il presidente turco, che usa la politica estera per ritorni favorevoli al suo potere e sulle ipotesi di Zee ha stretto un patto con la Libia di Serraj a suon di prestiti (2.7 miliardi di dollari), sul fronte energetico mediterraneo ha un “piano B” più pretenzioso del precedente: far diventare il suo Paese l’hub energetico di questo mare coi progetti Blue Stream, South Caucasus Pipeline, Souther Gas Corridor, Tanap e altro ancora che potrà arrivare. Ad Ankara il nuovo uomo del destino aspetta ossessivamente di festeggiare, forse più da padrone che da sultano, il centenario della nascita dello Stato moderno (2023) e si prende la briga di sollevare un polverone su un tema che scuote il patriarca Bartolomeo e pure papa Francesco. Rispolvera contrapposizioni che gli inimicano il blocco europeo, ortodosso e cristiano, nell’affarismo del gas attacca a testa bassa interessi greco-ciprioti, se ne infischia dei veti egiziani e francesi, non teme le vendette di Parigi che sul versante politico può solidarizzare con la Germania che lo tiene lontano dalla Ue e lo usa (ma chi usa chi?) sull’annoso tema della migrazione. Proprio perché conosce la coscienza nera del vecchio continente, Erdoğan intraprende la via della provocazione sulla chiesa-simbolo e paventa una soluzione che non lo farà conquistatore con la spada come Mehmet II, però gli assicura di compattare il popolo islamico più tradizionalista e certe frange anche giovanili che sui valori, sul ruolo del Paese, sulla ricerca di futuro nello sbandamento operato dalle pandemie di Sars Cov2 e dell’economia, chiedono certezze. Proporre un’identità islamica marchiata di senso patrio in una nazione che è stata Impero e ha forti mire di supremazia in Medio Oriente è, non da oggi, un progetto praticato dall’uomo forte che a inizio millennio ha sancito il rilancio turco. Affievolito lo slancio, Erdoğan ha compattato una buona parte della cittadinanza (non solo i fedelissimi dell’Akp) contro il golpe, ha “normalizzato” le faccende interne trovando nei gülenisti il capro espiatorio, giocando su più tavoli ha rivolto la sua presenza e ingerenza nella guerra sporca siriana contro i territori liberi del Rojava, spazzati via dai suoi carri armati col benestare di Putin, compiacendo Asad contento d’essere restato alla guida d’un Paese spettrale. Ora, navigando nel “mare bianco”, vuole gli spazi affaristici che competono a un sistema-nazione di cui riformula i desideri, rafforzando se stesso.  

Su Costantinopoli: cfr. Marozzi J., Imperi islamici, Einaudi, 2020.

[1] Zona marina di massima estensione, fino a 200 miglia, in cui una nazione esercita i diritti sulla gestione delle risorse naturali ed estrattive. Normative in atto dal 1994, sebbene tuttora ci siano interpretazioni soggettive, discordanti e conflittuali fra vari Paesi.

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Enrico Campofreda

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