di Michele Lipori. Redazione Confronti
IMMIGRAZIONE IN ISRAELE
La crisi mondiale causata dal Coronavirus pare che avrà delle conseguenze considerevoli sul piano dell’immigrazione in Israele. Se l’Agenzia ebraica ha dichiarato che nei prossimi 12 mesi prevede che Israele sarà interessato 50.000 nuove richieste di aliyah, è di pochi giorni fa l’annuncio in una conferenza stampa dalla ministra per l’immigrazione Pnina Tamano-Shata (del partito Blu e Bianco, prima cittadina israeliana appartenente alla comunità dei Falashmura – gli ebrei etiopi – a ricoprire una carica ministeriale) di una previsione secondo la quale nei prossimi 18 mesi si verificherà un’ondata migratoria che coinvolgerà circa 90.000 ebrei – con un’età compresa fra i 18 e i 35 anni – che chiederanno di entrare in Israele. Si tratta di un aumento considerevole rispetto alle ondate degli anni precedenti (circa 25-35.000 persone ogni anno). La notizia è confermata dalla International Fellowship of Christians and Jews che – durante l’emergenza sanitaria – ha registrato un aumento del 20% delle richieste di aliyah.
GLI ARABO-ISRAELIANI: UNA MINORANZA SIGNIFICATIVA
Circa il 20% dei cittadini dello stato d’Israele è di etnia araba. Gli appartenenti a questa “categoria” usano modi diversi di definire se stessi: “cittadini arabi di Israele”, “arabo-israeliani”, “palestinesi con cittadinanza israeliana” o “palestinesi israeliani”.
La Dichiarazione d’Indipendenza di Israele del 1947 istituisce uno Stato ebraico che garantisce l’uguaglianza di diritti sociali e politici, indipendentemente da religione, razza o sesso. Tali diritti sono garantiti da una serie di “leggi fondamentali”. La questione dell’uguaglianza dei diritti degli arabi-israeliani è molto dibattuta poiché, nonostante le leggi fondamentali, permangono degli elementi di discrimine.
Parlando di disuguaglianze, recentemente un report dell’Ong Human Rights Watch ha rilevato come la politica del Governo israeliano riguardo l’edilizia abitativa sia a favore dei cittadini ebrei-israeliani e a svantaggio degli arabi. In una lettera indirizzata alla Ong, il Governo israeliano ha invece sottolineato che la politica governativa è stata ed è quella di rafforzare la comunità arabo-israeliana anche dal punto di vista del piano regolatore.
Gli arabi-israeliani sono rappresentati in parlamento da partiti politici di minoranza: Balad, Hadash, Ta’al e Lista Araba Unita che sono sempre stati all’opposizione e hanno dato appoggio parlamentare esterno solo al governo Rabin (1992-1995). Alle ultime elezioni hanno corso insieme, raccogliendo 581.507 voti (il 12,67% sul totale), ottenendo alla Knesset (il Parlamento) 15 seggi su 120.
Secondo un recente report rilasciato da Amnesty International, il diritto alla libertà di espressione dei membri palestinesi della Knesset è minacciato da modifiche nella legislazione dello stato d’Israele. Una delle più recenti è la Legge fondamentale presentata alla Knesset col nome Israel as the Nation State of the Jewish People (approvata il 18 luglio 2018), da più parti accusata di non garantire l’uguaglianza alle minoranze e in primis a quella araba.
BIBI-TRUMP: UN’AMICIZIA DI LUNGO CORSO
L’amministrazione Trump è da sempre favorevole alla politica di Netanyahu. Donald Trump ha incontrato Netanyahu, la prima volta in vesta da presidente, il 15 febbraio 2017. Durante una conferenza stampa congiunta, Trump ha abbandonato l’impegno storico degli Stati Uniti per una soluzione a due stati per il conflitto israelo-palestinese. Il 6 dicembre 2017 Trump ha, inoltre, riconosciuto Gerusalemme come la capitale di Israele e ha annunciato che gli Stati Uniti avrebbero iniziato il processo di trasferimento della propria ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme. L’inaugurazione della nuova ambasciata USA a Gerusalemme si è tenuta il 14 maggio 2018, in coincidenza con il 70° anniversario della Dichiarazione di indipendenza di Israele. L’atto non è passato inosservato agli occhi dei palestinesi. Numerose manifestazioni di protesta si sono tenute in Cisgiordania, ma è soprattutto a Gaza che la tensione è cresciuta al punto che l’esercito israeliano ha aperto il fuoco sui manifestanti. Discordi le reazioni nel mondo di fronte a questa manifestazione di forza. In una conferenza stampa dello scorso 18 novembre, il Segretario di Stato Michael Pompeo ha rilasciato delle dichiarazioni che ribaltano completamente la visione degli Usa sugli insediamenti civili israeliani nei territori occupati in Cisgiordania. Le amministrazioni precedenti li giudicavano “in contrasto con la legge internazionale”. Lo scorso martedì sono iniziate le consultazioni alla Casa Bianca sull’opportunità di dare il via libera al Primo ministro israeliano al suo piano di annessione. Tali consultazioni arrivano in un momento delicato per l’amministrazione Trump, dunque l’esito – nonostante le ottime relazioni fra Trump e Netanyahu – non è da dare per scontato.
IL PIANO DI ANNESSIONE
Secondo i dati rilasciati il 15 giugno dal The Washington Institute for Near East Policy, il piano di annessione più volte annunciato da Netanyahu durante la campagna elettorale, potrebbe avere 3 differenti scenari, tutti basati sulla mappa concettuale inclusa nel piano di pace di Trump Peace to Prosperity rilasciato lo scorso gennaio.
I NUMERI DELL’ANNESSIONE
1) Annessione completa
In questo scenario, come previsto dal piano di Trump, Israele annetterebbe tutti i 130 insediamenti in Cisgiordania (abitati da circa 466.208 persone). Particolare importante, 15 di quelli che nel piano vengono chiamati enclaves si troverebbero nel futuro stato palestinese ma sarebbero sotto il pieno controllo israeliano. Tali enclaves constano di circa 7 chilometri quadrati (lo 0,1% della Cisgiordania), e sono abitati da circa 15.061 persone (il 3% del totale dei coloni).
Di questi 130 insediamenti, 52 sono “al di qua” del muro che separa Israele dalla Cisgiordania (abitati da circa 358.405 persone) e 78 insediamenti sono “al di là” del muro al di fuori della barriera, abitate da 107.803 persone. Nel calcolo sono compresi anche 30 insediamenti situati nella Valle del Giordano (abitati da 15.462 persone).
Il territorio annesso comprenderebbe 78 comunità palestinesi abitate da 109.594 persone (4,5% della popolazione totale della Cisgiordania), tra cui 24 comunità “al di qua” della barriera con 18.918 abitanti (circa l’0,8% di tutti i palestinesi in Cisgiordania) e 54 comunità “al di là” della barriera con 90.676 abitanti (circa il 3,7% della popolazione della Cisgiordania). Questi numeri comprendono le 14 comunità palestinesi nella Valle del Giordano abitate da circa 9.090 persone.
La quantità di terreno annesso sarebbe, in questo secenario, pari a 1.613 Km2, pari a circa il 29% della superficie della Cisgiordania. La parte relativa alla Valle del Giordano equivarrebbe a circa 834 Km2, ovvero circa il 15% della superficie della Cisgiordania.
2) Annessione degli insediamenti “al di qua” del muro
In questo scenario è prevista l’annessione di 52 insediamenti situati all’interno della barriera di sicurezza, abitati da circa 358.405 persone, ovvero circa il 77% sul totale dei coloni. L’operazione comporterebbe l’annessione di 345 Km2 di terra, pari a circa il 7% della superficie della Cisgiordania, coinvolgendo 24 villaggi palestinesi abitati da circa 18.918 persone (lo 0,8% degli abitanti della Cisgiordania).
3) Annessione “minima”
Questa ipotesi potrebbe interessare un unico grande insediamento: Gush Etzion, situato a sud di Gerusalemme, che ha una superficie di 56,9 Km2 e 96.378 abitanti – il 21% del totale dei coloni – e che include 12 insediamenti di cui 10 all’interno del muro e 2 all’esterno) e/o Ma’ale Adumim, con una superficie di 4 Km2 e 41.223 abitanti – il 9% sul totale dei coloni –, a est di Gerusalemme. Potrebbero essere inclusi anche altri insediamenti adiacenti alla Linea verde del 1967.
REAZIONI NEL MONDO
Le voci palestinesi sono ovviamente molto critiche rispetto al progetto di annessione. Il presidente dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), Mahmoud Abbas, ha annunciato che se il piano dovesse essere attuato, l’Anp interromperà qualsiasi cooperazione con Israele e gli Stati Uniti. Il premier dell’Anp, Mohammad Shtayyeh, ha dichiarato che l’annessione rappresenta «una minaccia esistenziale, una violazione seria degli accordi, la rottura totale del diritto internazionale, una sfida alla stabilità» nonché «la distruzione della prospettiva di uno stato palestinese».
L’annessione è stata criticata anche dall’Alto rappresentante Ue in quanto «sarebbe una chiara violazione del diritto internazionale» e causerebbe un «grosso danno alla soluzione a due Stati».
Anche Marina Sereni, Ministra agli Affari Esteri e alla Cooperazione Internazionale, lo scorso 22 giugno, ha dichiarato di avere «serie preoccupazioni sulle prospettive di annessioni unilaterali israeliane. Se attuate, tali misure costituirebbero una chiara violazione del diritto internazionale e rischierebbero di minare seriamente qualsiasi possibilità di ripresa del dialogo con i palestinesi e compromettere la fattibilità della prospettiva dei due Stati. Ma sarebbe anche dannoso per la sicurezza di Israele, che rimane una priorità per l’Italia e metterebbe a repentaglio la stabilità regionale».
Da parte sua, l’ambasciatore degli Emirati Arabi negli Stati Uniti, e ministro di Stato, Yousef Al-Otaiba ha recentemente invitato Netanyahu alla cautela – con un editoriale sulle pagine del quotidiano israeliano Yediot Ahronot – nei confronti dei suoi intenti di annessione. Essa determinerebbe, infatti «la distruzione di ogni ulteriore riavvicinamento tra lo Stato ebraico e il mondo arabo». Va altresì ricordato che il ministro è stato uno dei tre rappresentanti dei Paesi del Golfo ad aver partecipato alla presentazione del Deal of the century di Trump alla Casa Bianca e in tale occasione aveva dichiarato il proprio apprezzamento «per il perdurare degli sforzi degli Stati Uniti per il raggiungimento di un accordo di pace tra Palestina e Israele».
Il Segretario generale della Lega Araba, l’egiziano Ahmed Aboul Gheit, durante un incontro di alto livello alle Nazioni Unite ha sottolineato che che l’annessione della Cisgiordania metterebbe in pericolo la pace in Medio Oriente e potrebbe innescare “una guerra di religione dentro e fuori la nostra regione”.
Sulla scia delle manifestazioni che si stanno propagando in tutti gli Stati Uniti in seguito alla morte di George Floyd, molti manifestanti in Palestina si stanno unendo sotto il motto Palestinian Lives Matter. Un richiamo al movimento viene da Mitri Raheb, vescovo luterano e fondatore del Diyar Consortium, un’istituzione luterana di orientamento ecumenico con base a Betlemme, il quale afferma che «senza giustizia per la Palestina, non ci sarà pace per Israele. A meno che non si comincino a vedere le vite dei palestinesi importanti quanto quelle degli israeliani, lo spargimento di sangue continuerà. Palestinian lives matter».
L’OPINIONE DEGLI ISRAELIANI SUL PIANO DI ANNESSIONE
In uno studio rilasciato lo scorso maggio dal The Israel Democracy Institute si evince che il 52% degli ebrei israeliani intervistati (di cui il 71% si dichiara “di destra”, il 31% “di centro” e l’8% “di sinistra”) sostiene la politica del Primo ministro Benjamin Netanyahu di estensione della sovranità israeliana in Cisgiordania. Tuttavia, solo il 32% ritiene che Israele andrà avanti con questo proposito nel breve periodo.
Inoltre, alla domanda «Quali diritti dovrebbero essere dati ai palestinesi nelle aree annesse?» il 37% degli ebrei-israeliani intervistati sostiene che non dovrebbero essere concessi diritti aggiuntivi, nonostante l’applicazione della sovranità israeliana. Diverso il parere degli arabo-israeliani che, al 47%, ritengono che i palestinesi che vivono nei territori da annettere dovrebbero ricevere lo status di cittadini.
Per quanto riguarda gli ebrei-israeliani, infine, si nota una differenza di opinioni in base all’appartenenza politica. A sinistra, la maggioranza degli intervistati (65,5%) sostiene che, in caso di annessione, si debba concedere la piena cittadinanza ai palestinesi nei territori da annettere. Chi ha posizioni centriste è diviso fra le varie opzioni, ma la percentuale maggiore (26%) propende per concedere ai palestinesi diritti aggiuntivi. A destra tale percentuale raggiunge il 47,5%.
Negli ultimi giorni sono stati pubblicati i risultati di due sondaggi che vagliano il grado di apprezzamento fra gli israeliani del piano di annessione proposto dal Governo e che in parte controbilanciano i risultati dei sondaggi precedenti.
Parliamo dei sondaggi condotti da dal canale televisivo israeliano Channel 12 e dall’Ong Geneva Initiative. Two State Coalition (GI). I risultati di entrambi hanno avuto esito simile.
Secondo il sondaggio di Channel 12, il 46% degli intervistati è contrario all’annessione e solo il 34% è a favore. Il sondaggio di Geneva Initiative rileva che il 42% degli israeliani intervistati è contrario all’annessione e solo il 32% si dichiara esplicitamente favorevole. Un ulteriore dato che si evince dai risultati dei sondaggi di GI è che un numero considerevole di israeliani di destra ritiene l’annessione una mossa pericolosa e dunque da evitare, costituendo una parte significativa della maggioranza di coloro che non sono d’accordo all’annessione.
[pubblicato su WE n.7 Israele e Palestina: la pace che non c’è 28-06/2020]
Michele Lipori
Redazione Confronti