Guglielmo Mariani. Ematologo, University of Westminster (Londra)
Il sangue estratto dall’albero circolatorio di individui di differenti etnie appare uguale ed è uguale: non vi sono differenze che non siano spiegabili con l’ambiente nel quale vivono o con le malattie che hanno contratto. Può sembrare strano ma, invece, il sangue, la nostra linfa vitale, è stata usata e purtroppo continua a esser usata per dividere, per discriminare, per isolare, se non per massacrare, altri esseri umani o intere popolazioni. Gli “olocausti” si susseguono uno dopo l’altro, alcuni nascosti altri palesi.
Ma perché proprio il sangue? La prima volta documentata che il sangue fu considerato formalmente espressione di “purezza” di una casta avvenne alla fine del medioevo, prima della scoperta dell’America, quando la famiglia regnante di Castiglia reclamò la superiorità della sua razza in virtù del sangre azul: il “sangue blu” che circolava nelle loro vene perché la loro famiglia non si era mai mescolata con i “mori”, gli arabi che si erano stabiliti nella Spagna meridionale. C’era un fondamento di verità nella loro enunciazione: attraverso la pelle bianca traspaiono le vene di colore azzurro che non sono visibili nei mori che, invece, avevano la pelle scura. Da allora sangue blu è sinonimo di nobiltà o di famiglia regnante e il termine ritornò in auge nell’Inghilterra vittoriana per identificare i più alti ranghi della nobiltà, quella che forniva la linfa alle case regnanti. E così è rimasto fino ai giorni nostri e alla più prosaica serie televisiva della Cbs intitolata Blue Bloods interpretata da Tom Selleck nella quale una famiglia intera ha servito nel Dipartimento di Polizia di New York, quasi fosse una carica ereditaria.
In realtà, dai matrimoni fra individui col “sangue blu” sono sortite delle catastrofi genetiche come l’emofilia [una malattia che causa un difetto nella coagulazione del sangue] nelle case regnanti in Inghilterra, Russia, Spagna e Germania o come la porfiria [una serie di patologie che influenzano negativamente la pelle o il sistema nervoso] nei regnanti inglesi a partire dal ‘500, da Giacomo V di Scozia, fino all’800 con Giorgio III. Ma esistono innumerevoli esempi meno regali di malattie trasmesse con “sangue blu” o sangue normale. Le comunità ebraiche e anche il diritto romano proibivano matrimoni fra consanguinei, norma adottata anche dalla chiesa cattolica.
Ma torniamo al concetto più ampio delle differenze etniche, sulle quali è nato tutto il castello di sabbia della ricerca sulle cosiddette “razze”. Che vi siano differenze anche notevoli nel fenotipo (come noi appariamo, occhi azzurri o neri, pelle gialla o nera) delle varie popolazioni che abitano regioni distanti e qualche volta inaccessibili del nostro pianeta non c’è dubbio. Queste differenze hanno portato a studi “antropologici” che sono iniziati alla fine del ‘600 con François Bernier, seguite poi da quelli di Linneo e di Johann Friedrich Blumenbach. Con l’800 ed il ‘900 gli studi incalzanti di una nuova nuova disciplina, la genetica, hanno fatto sì che marcatori biologici, identificabili e quantificabili in qualche modo fossero utilizzati per creare la cosiddetta “ideologia della razza”. Secondo questa ideologia (e, dunque, non disciplina scientifica) le razze sono naturali, primordiali, persistenti e chiaramente separate e distinguibili.
IL RAZZISMO “SCIENTIFICO”
Quella dei regnanti di Castiglia è forse il primo esempio di una delle molte enunciazioni sulle differenze sociali o razziali riguardanti il sangue, le quali sono prive – è bene ribadirmo! – di qualsiasi base scientifica. Tuttavia vi sono stati numerosi pseudoscienziati che hanno lavorato molto (e inutilmente) per documentare differenze biologiche fra le razze con l’obiettivo di accumulare prove sulla superiorità o inferiorità di una razza; ovviamente, il sangue, essendo il più significativo dei tessuti e il più facile da studiare, è stato l’oggetto primario di indagine. Recentemente, queste ricerche sono state raccolte in una corrente di pensiero denominata “razzismo scientifico”, basata su dati che sono stati ripetutamente confutati. Ciononostante, la credenza che esistano differenze razziali di tipo biologico o genetico tali da influenzare negativamente o positivamente capacità cognitive, intelligenza (fino al Quoziente intellettivo o Qi) e coraggio, tuttora resiste. Questa impostazione pseudoscientifica è basata sull’ipotesi mai dimostrata che le razze siano il risultato di tratti genetici, ereditati e immodificabili, non influenzabili da fattori ambientali né da mescolamenti genetici. In realtà molti antropologi hanno confutato il fatto che le differenze non sono così nette e definitive, ma vi sono delle sovrapposizioni di caratteri, dei rimescolamenti fra popolazioni che vivono nelle stesse aree geografiche o in aree contigue. Questo fatto, peraltro, è sotto gli occhi di tutti, basta andare in Brasile, in Venezuela o nei Caraibi per rendersi conto di quante varietà fenotipiche intermedie si siano create, e in periodo breve, in soli 300 anni, a partire dalla tratta degli schiavi. Blumenbach medico e antropologo che visse a cavallo fra ‘700 e ‘800 arrivò a sostenere che «una varietà passa così impercettibilmente nell’altra che alla fine non si possono descrivere i limiti fra le due». E Blumenbach viveva in un periodo nel quale i mescolamenti di popolazioni erano minimi. Però nello stesso periodo Petrus Camper, anatomico olandese, e Georges-Louis Leclerc, naturalista francese, proposero delle classificazioni delle razze in base alle quali si sosteneva che i “negri” erano inferiori agli europei. Inutile dire come questa corrente di pensiero abbia in qualche modo giustificato la tratta degli schiavi che proprio fra il ‘700 e la fine dell’800 costituì un business gigantesco, purtroppo foriero di indicibili sofferenze, con conseguenze che si protraggono fino ai giorni nostri. Negli appena nati Stati Uniti d’America risultarono influenti le teorie razziali di Thomas Jefferson, il terzo Presidente, il quale sosteneva, agli albori dell’800, che gli africani fossero inferiori ai bianchi per l’intelletto e per l’appetito sessuale.
Un altro padre fondatore, invece, Benjamin Franklin durante la sua vita liberò tutti i suoi schiavi e nel 1785 creò la Società della Pennsylvania per la Promozione della abolizione della schiavitù. Questa radicale differenza di opinioni negli Usa durerà a lungo, oltre la fine della II guerra mondiale.
LA “PUREZZA DEL SANGUE”
E così il razzismo “scientifico” è stato sfruttato per imporre con tutti i mezzi, dai media alla pseudoscienza, il concetto che le razze sono costituite da differenze chiare e nette che travalicano le apparenze spicciole per invadere il campo delle capacità intellettive e persino dell’affettività. Per venire subito al punto, per i nazisti il concetto della “purezza del sangue” e quindi “purezza della razza”, il loro “ideale” dichiarato, è caratterizzato da un miscuglio venefico di antisemitismo e di darwinismo mal interpretato, con lo scopo di ottenere una legittimazione alla conquista del potere da parte della “razza ariana”. Una razza che non esiste. Per fare questo i nazisti investirono grandi somme in istituzioni scientifiche e reclutarono pseudo-scienziati (per lo più “utili idioti”), il tutto per supportare le loro mire di conquista. Uno dei prototipi fu Otto Reche, un antropologo viennese che, studiando i gruppi sanguigni allora considerati importanti strumenti di antropologia, fondò la Società tedesca per lo studio dei Gruppi sanguigni e un giornale “scientifico”, Volk und Rasse (“Popolo e razza”). Reche, membro del partito nazionalsocialista, riprese gli studi di un grande ematologo viennese che aveva scoperto i gruppi sanguigni, Karl Landsteiner (peraltro ebreo, che dovette trasferirsi negli Usa per continuare le sue ricerche perché era rimasto disoccupato dopo la Prima guerra mondiale) e degli ematologi polacchi Ludwig e Hanna Hirszferlds (anch’essi ebrei) che avevano condotto importanti studi di popolazione sui gruppi sanguigni. Per inciso, Landsteiner continuò i suoi studi a New York e nel 1930 gli fu assegnato il Premio Nobel.
E così gruppi di “scienziati” sponsorizzati dal regime nazista cercarono di trovare relazioni fra “nomi polacchi o ebrei”, tratti fisiognomici “non ariani”, comportamenti violenti o non violenti fra i carcerati, capelli neri, “faccia slavica”, intelligenza, industriosità con gruppi sanguigni possibilmente diversi da quelli ariani. Uno fra questi “studiosi” tentò persino di correlare i gruppi sanguigni con la durata della defecazione.
In conclusione, una serie di studi inconcludenti che confermarono, infine, quello che tutti già sapevano, cioè che i portatori di gruppo “A” erano più frequenti fra gli inglesi (42%), mentre il gruppo “B” era più frequente in India (35%). E, cosa più importante, nelle popolazioni intermedie dal punto di vista geografico sono presenti frequenze varie, e intermedie. Un risultato delle ricerche antropologiche non fu pubblicizzato: a Berlino gli ariani avevano più frequentemente il gruppo “B” rispetto agli ebrei.
Ovviamente durante gli anni del nazismo era proibito trasfondere sangue non ariano a un ariano: nel 1935 un medico di paese di religione ebraica che per emergenza donò da braccio a braccio il suo sangue compatibile a un ariano salvandogli la vita, fu internato in un campo di concentramento per sei mesi per avere “inquinato” il sangue ariano; uscito dal campo, il bravo medico emigrò.
Reche continuò i suoi studi e l’insegnamento in Germania in varie “prestigiose” università facendo ricerche di tipo etnico, di popolazioni. Prima della Seconda Guerra Mondiale, si dedicò a studi sui polacchi, che definì “un miscuglio razziale”, al fine di dimostrare quanto la razza ariana meritasse di occupare il loro “spazio”, giustificando così l’invasione della Polonia che poi avvenne nel 1939. Alla fine della guerra l’antropologo nazista fu arrestato dagli americani e scontò una breve detenzione. Parzialmente riabilitato come docente, nel 1959 in qualità di “esperto” antropologo fu coinvolto nel famoso processo per il riconoscimento di Anastasia che reclamava essere la figlia dello zar Nicola II scampata alla morte a Ekaterinburg. Anastasia voleva mettere le mani sul tesoro degli zar ben protetto nelle cassette di sicurezza delle banche svizzere. Studiando i tratti somatici della donna, Reche espresse il parere che si trattava indubbiamente di Anastasia (o, al massimo, di una gemella). Dopo anni la sua perizia fece la fine dei suoi studi. L’indagine del Dna dimostrò inequivocabilmente che la donna non solo non era la figlia dello zar, ma non era neanche una Romanov e dunque un’impostora: nelle fosse dove erano stati seppelliti i corpi smembrati della famiglia Romanov furono trovati, infatti, cinque Dna con marcatori femminili (della zarina e di tutte le quattro figlie) e due Dna con marcatori maschili (lo zar e lo zarevich).
SANGUE “NERO”: LA SEGREGAZIONE RAZZIALE DELLE DONAZIONI DI SANGUE
Ma il sangue ha causato problemi anche ai campioni della democrazia. Charles Drew era il più riconosciuto iniziatore dei programmi di donazione di sangue negli Usa. Drew era un afro-americano di Washington, il maggiore di quattro fratelli. Il padre, operaio, ebbe notevoli difficoltà a mantenere una famiglia così numerosa, ma Charles si fece la sua strada soprattutto per le sue capacità atletiche: vinse medaglie come nuotatore e borse di studio con il football americano e l’atletica leggera. Tuttavia, il suo sogno era fare il medico; allora per un afro-americano era praticamente impossibile entrare in un’università americana e così si iscrisse all’Università McGill a Montreal, una delle più selettive università canadesi (allora non esisteva una classifica ma McGill è stata a lungo ed è, ancora oggi, fra le prime tra le facoltà di medicina in Canada); Drew si laureò in Medicina come secondo del corso e ottenne il Master in Chirurgia. Poiché da studente aveva lavorato come tecnico di laboratorio per mantenersi, si rese conto dell’importanza della trasfusione come supporto alla chirurgia e alla traumatologia e cominciò a studiare la separazione del plasma e la conservazione delle cellule del sangue, scrivendo una voluminosa tesi di dottorato intitolata Banking Blood proponendo un concetto assolutamente innovativo, quello dello stoccaggio del sangue in strutture specializzate (parliamo degli anni ‘30 del secolo scorso!). Allo scoppio della Seconda guerra mondiale, in considerazione dei suoi studi gli fu affidato il programma Plasma for Britain che riscosse un grande successo perché perfettamente organizzato da Drew. Ma scoppiò il caso: cosa fare con il sangue dei neri? Drew disse chiaramente che non c’era differenza di sorta, ma l’establishment volle escludere il plasma ottenuto dalle donazioni di afro-americani e così Drew, l’anima scientifica e organizzativa del progetto, si dimise.
Dopo alcuni anni, scoppiata la guerra, la Croce Rossa Americana gli affidò l’organizzazione delle donazioni per le forze armate. Drew, forte della sua esperienza, organizzò le donazioni sul piano nazionale. Dopo neanche un anno, si ripresentò il problema delle donazioni da afro-americani. Inizialmente la Croce Rossa voleva escludere le donazioni dei “neri” creando una formale segregazione razziale delle donazioni; poi, in seguito a pressioni da parte delle forze armate, accettò le donazioni di “sangue nero”, ma a patto che fosse usato esclusivamente per le trasfusioni ai “neri”. Questo atteggiamento generò una forte reazione fra la popolazione di New York, reazione che il New York Times interpretò in un articolo dicendo, fra l’altro: «il pregiudizio contro il sangue dei neri a scopo trasfusionale è tanto più difficile da capire se si considera che molti cittadini residenti negli stati del sud sono stati allattati da balie di colore […] non possiamo capire il pregiudizio che la Croce Rossa continua a esprimere […] qualche volta ci domandiamo se questo atteggiamento sia davvero compatibile con la nostra era che è caratterizzata da un forte sviluppo scientifico». Ma non era solo la Croce Rossa a perseguire questa “segregazione”, fatto peraltro grave per una organizzazione di grande immagine etica e ramificata su base nazionale: anche i centri trasfusionali di Baltimora e di New Orleans decisero di attivare centri per i soli afro-americani, ma con risultati molto deludenti.
In quegli anni fece scalpore una lettera anonima inviata a un senatore del profondo sud che fu resa pubblica. In quella lettera si esprimeva la preoccupazione che qualsiasi derivato del sangue, non solo il sangue di razze diverse da quella bianca potesse avere effetti deleteri su un ricevente bianco. La lettera concludeva: «Quanti bianchi, potendo scegliere, preferirebbero morire in battaglia piuttosto che ricevere plasma di un non-bianco correndo il rischio di esser il padre, il nonno o il bisnonno di un bambino meticcio, rosso, nero o giallo?» Questa e migliaia di altre lettere
simili con diverse argomentazioni erano state inviate ai membri del Congresso in seguito alla polemica sorta nel 1941 per la decisione della Croce Rossa Americana di non accettare sangue da donatori afro-americani. La polemica divenne virale, tanto che tre mesi dopo il bando del sangue “nero” la Croce Rossa cambiò posizione accettando le donazioni degli afro-americani ma mantenendo la segregazione: il sangue degli afro-americani sarebbe stato trasfuso esclusivamente ad altri agli afro-americani. Ma ben più di 120.000 afro-americani combatterono in Europa o in Asia, il che rese la segregazione del sangue un problema serio dal punto di vista organizzativo.
Nel 1943 un gruppo di studenti universitari di scienze di New York pubblicò un poster che raffigurava un soldato ferito al quale erano porte due bottiglie di sangue, uno dalla mano di un afro-americano l’altra da quella di un bianco. Lo scritto diceva: «Sono la stessa cosa, lo dice anche la scienza. La scienza ha provato con indagini chimiche, fisiche e microscopiche che il sangue dei bianchi è uguale a quello degli afro-americani». Il poster fece scalpore e fu ripubblicato da numerosi giornali. Uno dei commenti più appropriati a questa presa di posizione degli studenti di New York fu quello che gli Stati Uniti, l’Inghilterra e la Francia combattevano una guerra contro stati dichiaratamente razzisti e quindi non era accettabile che la discriminazione contro il “sangue nero” fosse una posizione accettata da istituzioni ufficiali, peraltro senza alcuna base scientifica. Nello stesso anno l’Associazione degli antropologi americani espresse una forte «opposizione alla segregazione del sangue fra donatori bianchi e neri» in un articolo sulla prestigiosa rivista della American Medical Association, che fu ripresa integralmente dalla prestigiosissima rivista Science in un articolo intitolato: The Segregation of Bloods. La rivista divulgativa di scienza, Scientific American, riprese l’argomento con il titolo Non è scienza: l’avversione nei riguardi del sangue non-caucasico è emozionale, non basata su dati scientifici.
Questa polemica procedette fra alti e bassi fino al 1959, quando un paziente bianco ricevette del sangue donato da afro-americano per un intervento chirurgico a cuore aperto e morì per una reazione trasfusionale di tipo emolitico. L’evento scatenò polemiche a non finire: i propugnatori del “razzismo scientifico” avevano trovato la prova provata della necessità della segregazione trasfusionale e non solo. Invece, indagini approfondite dimostrarono che il paziente era stato precedentemente immunizzato da un raro antigene dei globuli rossi (antigene Kidd) ricevuti da un donatore bianco Kidd-positivo: un chiaro errore trasfusionale! Un forte argomento contro la de-segregazione fu proposto da un articolo comparso sul New York Times relativo ad un rapporto inviato da un medico della Croce Rossa del Sud Africa. In esso si evidenziava come per più di venti anni le trasfusioni “interrazziali” erano state effettuate senza effetti collaterali di sorta. I promotori dell’Apartheid almeno erano pragmatici: il sangue dei cittadini bianchi, che rappresentavano solo l’8% della popolazione del Sud Africa, sarebbe stato sufficiente a coprire meno del 5% del fabbisogno del Paese. Sta di fatto che negli Usa, nonostante la de-segregazione fosse diventata anno dopo anno la base delle varie amministrazioni (la prima mossa la fece Truman nel 1949, desegregando le forze armate), in alcuni stati del Sud la segregazione del sangue continuò fino agli anni ’70 del secolo scorso.
Il concetto di razza e di separazione razziale era stato contestato da un editor di Scientific American già nel 1925, basato su tre concetti:
- al mondo non esiste una razza pura; la razza “nordica” è un puro mito (e lo sosteneva otto anni prima della conquista del potere da parte di Hitler!);
- non esiste la più pallida prova che una “razza” sia potenzialmente più abile o più onesta di un’altra
- il miscuglio delle “razze” anche se consideriamo gli estremi, appare essere più utile rispetto a preservare la “purezza” alla civiltà che il contrario.
“RAZZA” E GENETICA
Vi è da considerare che il concetto di “razza” ha causato difficoltà interpretative notevoli anche fra i genetisti. In effetti, gli Homo Sapiens migrati dall’Africa si mescolarono, seppur relativamente, con i Neanderthal (200.000-40.000 a.c.), con i Denisoviani (70.000-40.000 a.c.) e chissà quante altre popolazioni di Sapiens o simili, determinando un ampliamento della varietà genetica. Ad ogni modo, è da considerare che gli umani hanno una diversità genetica molto inferiore a quella della gran parte degli altri animali. Come risultato di questo rimescolamento di Sapiens con altre popolazioni, la pelle scura divenne carattere predominante in Europa e rimase tale fino a circa il 6.000 a.c., quando il carattere pelle bianca prese il sopravvento con la rivoluzione agricola e la stanzialità. Questo è ampiamente dimostrato da Luigi Luca Cavalli-Sforza, il grande genetista italiano i cui risultati furono confermati dagli studi eseguiti sul Dna di scheletri di cacciatori-raccoglitori in Spagna, Lussemburgo e Ungheria che, circa 8.000 anni fa avevano la pelle nera.
E qui entrarono in gioco numerosi e diversi geni che lentamente, ma non troppo, presero il sopravvento dapprima in Svezia e successivamente in tutta l’Europa. In seguito a questi studi e a molti altri, i genetisti ritengono il termine “razza” privo di senso e nella comunicazione scientifica vengono usati i termini “gruppi etnici” o ‘“popolazioni”. Questo concetto è stato rafforzato dopo il completamento del gigantesco sforzo scientifico condotto da migliaia di scienziati in tutto il mondo chiamato Progetto Genoma Umano, iniziato nel 1990 e completato nel 2003. In dettaglio, Craig Venter del National Institute of Health, uno dei leader del progetto Genoma Umano, ha messo in evidenza che le variazioni nella specie umana sono dell’ordine dell’1-3% e che le differenze sono differenze di prevalenza, non divaricazioni nette, tanto che dall’analisi di un genoma è difficile dedurre con certezza la popolazione di appartenenza, ma può essere fatto solo su base probabilistica. E Venter sulla base della enorme messe di dati del Gonoma Umano spiegò che «la razza è un concetto sociale», dunque non un concetto scientifico. Non vi sarebbero linee (genetiche) chiaramente emergenti se comparassimo i genomi di ogni individuo sul pianeta. Quando cerchiamo di applicare la scienza a questi concetti, essa decade a prescindere. E Stephan Palmié, rinomato antropologo dell’Università di Chicago afferma che la razza «non è nient’altro che una relazione sociale».
Gli studi accurati del grande storico Frank Snowden hanno dimostrato come in Egitto, nell’antica Grecia e nella Roma antica le differenze “razziali” non erano considerate una difficoltà, ma anzi un’occasione di sviluppo. Anche la schiavitù non teneva conto del colore della pelle. Nella moderna India i cosiddetti “intoccabili” (i Dalit, circa il 25% della popolazione) non possono venire a contatto con il sangue o i cadaveri delle classi “superiori” perché li contaminerebbero e sono ancora fortemente discriminati per quanto riguarda i loro diritti civili. Inutile dire che gli “intoccabili” non possono donare il loro sangue, fatto grave se si considera che in India c’è una grande carenza di sangue (i Dalits sono fra 100 e 300 milioni). Questa segregazione, che peraltro è contro la legge indiana, è incomprensibile se si tiene conto del fatto che i Dalit sono indistinguibili dalle varie etnie indiane: stesso colore di pelle, stessi tratti fisiognomici, ovviamente stesso sangue e stesso Dna. È poco risaputo, ma classi di intoccabili sono presenti anche in Giappone [i burakumin], Birmania, Corea [i baekjeong] e Tibet [i ragyabpa], con gli stessi problemi di segregazione. Quindi anche in questo caso siamo di fronte a “convenzioni” sociali con forti radici storiche difficili da sradicare.
A ulteriore supporto del fatto che non vi sono differenze divaricanti e chiare fra etnie e popolazioni, in tutti i registri dei donatori di midollo non sono registrate distinzioni etniche. Certamente è più facile trovare un midollo compatibile fra il proprio gruppo etnico, ma ciò non è garantito: è tanto il mescolamento genetico avvenuto negli ultimi 100 anni che frequentemente molti pazienti italiani che necessitano di un trapianto di midollo si debbono rivolgere ai registri internazionali (europeo o americano) per trovarne uno compatibile. Un altro aspetto che rende le base sulle quali si regge il “razzismo scientifico” assolutamente fragile è il fatto che il genoma umano non spiega tutto, tutti i caratteri. Infatti l’Homo Sapiens (nero, bianco o giallo che sia) ha solo 22.287 geni, meno di un topo (25.307) e molto meno della pianta della soia (46.430). Ed ecco che è nata l’epigenetica, la scienza che studia come gli organismi, le cellule, interpretino il codice genetico, ovvero il Dna: si può immaginare il Dna come l’hardware di un computer, l’epigenetica come il software, e sappiamo che sull’hardware si possono far girare tanti software. E qui entrano in gioco l’ambiente e le innumerevoli influenze che l’ambiente può esercitare sui caratteri e sul fenotipo, cioè su come appariamo.
CHE RAZZA DI INTELLIGENZA
Ritengo interessante trattare un argomento che negli ultimi decenni ha causato polemiche virali, quello del rapporto fra “razza” e intelligenza. Studi hanno dimostrato che, negli Stati Uniti, c’è una differenza di Quoziente di intelligenza’ (Qi) fra bianchi e afroamericani. Questa differenza però appare scarsamente “significativa” dal punto di vista statistico perché è evidente una ampia variabilità nei campioni ma, fatto più importante le classi sociali analizzate non appaiono omogenee. Gli estensori di queste ricerche hanno spesso fatto un salto interpretativo arguendo che questa differenza è di tipo genetico senza mai indicare o cercare quali siano questi geni, perché l’intelligenza è una combinazione di capacità, abilità e esperienze cognitive, quindi una facoltà terribilmente complessa che probabilmente dipende da un numero enorme di geni. Il mescolamento genetico e le moltissime sfaccettature che caratterizzano il carattere “intelligenza” fanno ritenere che chiare correlazioni fra l’assetto genetico e specifiche categorie etniche siano molto improbabili, se non impossibili. In più l’aumento enorme in termini di capacità cognitive registrato negli ultimi millenni fa ritenere che l’intelligenza non sia controllata da pochi geni. Altro fattore rilevante concerne il fatto che l’intelligenza, o meglio l’espressione dell’intelligenza, è correlata allo status socioeconomico, correlazione che esclude influenze genetiche. Da ultimo è da considerare il così detto “effetto Flynn” (dal nome di James R. Flynn, economista e ricercatore di filosofia politica neo-zelandese) che consiste nel fatto che il Qi medio di una popolazione aumenta gradatamente nel tempo, indipendentemente dall’etnia, fatto difficile da conciliare con lo status genetico.
E così sono cambiate le popolazioni a seconda delle moltissime influenze che hanno subito da parte del clima, del nutrimento, dell’altitudine, della vicinanza o lontananza dal mare, dalle guerre, dalle carestie, della formazione, dello sviluppo culturale e così via. E siamo rimasti neri oppure siamo diventati bianchi o rossi o gialli o meticci, il tutto in circa 9.000 anni, un battito di ciglia nell’evoluzione.
Un ultimo aspetto: la rivoluzione digitale in poco più di vent’anni ha cambiato la percezione del concetto di “razza”, poiché ha creato – come dice Alessandro Baricco – un “oltremondo” nel quale navighiamo quotidianamente e nel quale incontriamo tanti “oltremondi individuali” fluidi, dei quali non sappiamo niente o sappiamo poco. Con questi altri mondi colloquiamo, e la gran parte delle volte non sappiamo se sono mondi “gialli” o “neri”, sulla base delle nostre e altrui esperienze e conoscenze per ampliarle e confrontarle. Saremmo prevenuti, ci rifiuteremmo di argomentare, di parlare se sapessimo che dall’altra parte alla tastiera o di fronte allo schermo ci sono delle dita o una faccia coperte da pelle nera o gialla?
E qui giungiamo alla conclusione, come se non bastassero le argomentazioni che abbiamo proposto prima: il razzismo è espressione di non conoscenza, di rifiuto aprioristico a comprendere, ad aprire la propria mente. Certo esistono delle differenze fra i gruppi umani, ma si tratta di differenze che sono marcate da diverse opportunità, da differenti esperienze storiche o di vita, ma la base è uguale, le potenzialità sono uguali, quale che sia la nostra apparenza. Il tempo e l’epigenetica spiegano le differenze, tutto qui.
Guglielmo Mariani
Ematologo, University of Westminster (Londra)