di Fulvio Ferrario. Professore di Teologia sistematica e decano della Facoltà valdese di teologia di Roma.
Nel dibattito sul ruolo sociale della scienza e della tecnologia, reso ancor più impellente dalla pandemia, si osservano diverse posizioni. Alcune di esse propongono un contenuto generico che, proprio per questo, si sottrae alla discussione critica.
Inevitabilmente, la pandemia ha sospinto in primo piano il dibattito sul ruolo sociale della scienza e della tecnologia, con la consueta gamma di posizioni, dallo scientismo “duro” (il futuro dell’umanità è una pura funzione del progresso scientifico) ad atteggiamenti più o meno complici con forme di vero e proprio irrazionalismo.
Nell’ambito delle Chiese “classiche” cattolica e protestante, si osserva una certa tendenza ad evitare le posizioni estreme, il che va valutato positivamente.
Si nota, però, nel linguaggio cristiano, una certa enfasi su espressioni di saggezza a buon mercato che andrebbero problematizzate.
Esse suonano più o meno così: «La scienza non può risolvere tutti i problemi»; oppure, visto il ruolo svolto dalla rete telematica nei mesi della quarantena: «Non sarà internet a salvarci», con le relative variazioni sul tema: corpi e non nickname, la vita è nel mondo e non su Zoom, ecc.
Entrambe le affermazioni sono ovviamente sacrosante. Il punto critico è precisamente nell’ovvietà. Esse propongono un contenuto generico che, proprio per questo, si sottrae alla discussione critica: un po’ come quando ci si schiera a favore della “pace”, o della “giustizia”, o della “famiglia”. Impossibile essere “contro”.
Una lettura un poco smaliziata, tuttavia, si accorge che la genericità è apparente.
Se dico: «La scienza non può risolvere tutti i problemi», in realtà di solito intendo dire: per quanto la scienza si dia da fare, le questioni esistenziali sono sottratte alla sua competenza; data però la loro centralità, qualcuno deve occuparsene e in genere chi parla (ad esempio una chiesa) si candida a farlo. In realtà, nemmeno la fede «può risolvere tutti i problemi»: nel caso più felice,
insegna ad affrontarli.
Sarebbe più onesto, per le agenzie religiose, riconoscere che la scienza non pretende di risolvere «tutti i problemi»: se, ad esempio, riuscirà a fornire un vaccino contro il Covid-19, ne risolverà uno solo, ma molto importante. In tal modo, si meriterà non una critica banale, bensì gratitudine.
La “rete”, da parte sua, non pretende di “salvarci”, ma “solo” di metterci in comunicazione, cosa che, in base alla mia esperienza, ha fatto in modo inevitabilmente molto parziale (non per colpa propria, bensì delle disuguaglianze sociali, che inquinano anche tutti gli altri aspetti della vita) ma, entro quei limiti, egregio.
Un atteggiamento sereno e simpatetico, tra l’altro, renderebbe più facile anche la contestazione delle forme più ingenuamente arroganti di idolatria della scienza, caratteristiche di filosofi o pubblicisti che si presentano come cantori di un positivismo semplificato, spacciato come “la scienza”.
Naturalmente, la questione di fondo va al di là di questi esempi e riguarda il rapporto di chiese e teologia con l’impresa scientifica.
La serenità di prammatica («sono linguaggi diversi, ognuno dei quali ha il proprio ambito di legittimità») è più ostentata che effettiva.
Chiese e teologia tradiscono una vistosa insicurezza: nei casi migliori, si rendono conto di non essere più in grado di dettare con autorità regole e confini di competenza, ma di dover ricercare un confronto complesso, con un interlocutore che si sente molto forte a motivo del prestigio culturale meritatamente acquisito.
Il dialogo, poi, è reso difficile anche dal fatto che le persone “bilingui”, che cioè conoscono bene sia il linguaggio delle scienze (che poi significa: di una di esse), sia quello della teologia, sono pochissime, il che costituisce un fattore di confusione non irrilevante.
In ogni caso, è evidente che mentre la scienza potrebbe in teoria permettersi di ignorare il pensiero cristiano (anche se lo farebbe a proprio danno), una teologia incapace di integrare il significato culturale e civile della scienza confluirebbe nella palude ideologica dell’oscurantismo reazionario che imperversa dentro e fuori i territori del cristianesimo e spesso è trasversale anche rispetto agli schieramenti politici (ricordate i “no vax”?).
Senza onestà intellettuale non solo non ci può essere razionalità critica, ma nemmeno autentica fede in Gesù. La migliore tradizione della chiesa lo sa e noi siamo chiamati a impararlo sempre di nuovo.
[pubblicato su Confronti 07-08/2020]
Fulvio Ferrario
Professore di Teologia sistematica e decano della Facoltà valdese di teologia di Roma.