di Gaetano De Monte. Giornalista
È il 27 giugno del 2009. Un gruppo di 89 persone, dei quali 75 di origine eritrea, tra cui 9 donne e 3 bambini, partono dalle coste libiche verso l’Italia per chiedere che gli venga riconosciuto il proprio diritto alla protezione internazionale. Una storia che è una odissea durata 11 anni che per cinque di loro si è chiusa nel modo migliore auspicato soltanto ieri, 30 agosto 2020, quando sono atterrati a Roma all’aeroporto di Fiumicino provenienti da Tel Aviv per chiedere asilo politico. E soltanto grazie alla caparbietà dell’azione legale portata avanti negli anni da Amnesty International e dall’Associazione studi giuridici per l’immigrazione. Che hanno istruito, cioè, una causa davanti al tribunale civile di Roma nei confronti del Ministero della Difesa e del Governo italiano attraverso un contenzioso strategico; che, più in generale, mira al riconoscimento del diritto al risarcimento e anche a permettere l’ingresso degli altri richiedenti asilo che dal 2009 in poi non sono più riusciti a entrare in Europa e che dunque si trovano senza protezione, esposti al rischio continuo di essere rimpatriati verso l’Eritrea. Non soltanto. Per tutti loro Amnesty International e ASGI ha richiesto che ottengano il rilascio di un visto umanitario, come previsto dal Codice delle frontiere Schengen. Ed è così che per i primi cinque eritrei respinti undici anni fa alla frontiera di Lampedusa, ieri, si sono spalancate le porte dell’Italia, dove potranno inoltrare una domanda di protezione internazionale. Ora risarciti, opportunamente, dallo Stato italiano. Il motivo è presto detto.
Un gruppo di 89 persone, dei quali 75 di origine eritrea, tra cui 9 donne e 3 bambini, partono dalle coste libiche verso l’Italia per chiedere che gli venga riconosciuto il proprio diritto alla protezione internazionale. Una storia che è una odissea durata 11 anni che per cinque di loro si è chiusa nel modo migliore auspicato soltanto ieri, 30 agosto 2020, quando sono atterrati a Roma all’aeroporto di Fiumicino provenienti da Tel Aviv per chiedere asilo politico.
Era accaduto, infatti, che dopo quattro giorni di traversata in mare, all’alba del 30 giugno 2009, ormai a poche miglia da Lampedusa si verificava la definitiva avaria del motore che lasciava il gruppo di eritrei a bordo del gommone in balia delle onde, costringendolo a cercare soccorso. Che trovavano il pomeriggio seguente nella nave Orione della Marina Militare italiana. Ed è qui che comincia la loro odissea.
Come hanno raccontato i richiedenti asilo presenti quella notte agli avvocati di Asgi, Cristina Cecchini e Salvatore Fachile: «Dopo che siamo saliti sulla nave siamo stati perquisiti dal personale di bordo che ha proceduto a sequestrare i nostri effetti personali, tra cui foto, soldi, documenti». E ancora: «Pensavamo che saremmo stati condotti sul territorio italiano dove avremmo potuto finalmente chiedere protezione», hanno raccontato gli eritrei: «invece abbiamo subito compreso dall’orientamento del sole che la nave non stesse andando in direzione dell’Italia ma, al contrario, era diretta nuovamente verso la Libia».
Il resto è la cronaca di un respingimento attuato dai marinai italiani. In questo modo: «ci urlavano di stare fermi. Alcuni di noi sono stati colpiti brutalmente e feriti. Poi siamo stati consegnati alle autorità libiche e trasportati con la forza a bordo della loro imbarcazione, dove siamo stati ammanettati con delle fascette di plastica». Nel frattempo, poi, accadeva che alcuni di loro venivano detenuti per lunghi mesi nelle prigioni di Zuwarah, Misurata e Towisha. E dopo essere stati sottoposti dalle autorità libiche a trattamenti inumani e degradanti e sottoposti a numerose violenze e torture, lentamente, uno ad uno, negli anni, venivano rilasciati.
Durante la conferenza stampa che si è tenuta ieri a Fiumicino per salutare l’arrivo dei cinque richiedenti asilo eritrei con in tasca una sentenza storica del tribunale civile di Roma, la legale di Asgi, Cristina Cecchini, ha spiegato: «Queste persone sono state tutte respinte dall’autorità italiana senza alcuna formalità (nessun provvedimento scritto è mai stato loro consegnato) e in maniera collettiva senza avere avuto accesso alla procedura di riconoscimento della protezione internazionale». Per questo, ha continuato Cecchini: «Siamo di fronte a una sentenza del tribunale di Roma, la n.22917/2019, che è senza precedenti. Perché ha affermato il principio secondo cui il cittadino straniero che non ha potuto fare ingresso sul territorio a causa del comportamento illecito della pubblica amministrazione, ha diritto a ottenere il successivo ingresso sul territorio in virtù dell’art 10 della Costituzione». E, in effetti, proprio nella sentenza si legge che risulta necessario: «espandere il campo di applicazione della protezione internazionale volta a tutelare la posizione di chi, in conseguenza di un fatto illecito commesso dall’autorità italiana si trovi nell’impossibilità di presentare la domanda di protezione internazionale in quanto non presente nel territorio».
«Siamo di fronte a una sentenza del tribunale di Roma, la n.22917/2019, che è senza precedenti. Perché ha affermato il principio secondo cui il cittadino straniero che non ha potuto fare ingresso sul territorio a causa del comportamento illecito della pubblica amministrazione, ha diritto a ottenere il successivo ingresso sul territorio in virtù dell’art 10 della Costituzione»
È una sentenza avverso cui l’avvocatura dello Stato aveva presentato ricorso, il quale era stato a sua volta rigettato dalla Corte di Appello che aveva dato ragione ai giudici di primo grado e che ha invece aperto le porte dell’autorità consolare ai cinque richiedenti asilo; i quali, in sostanza, hanno ottenuto un visto di ingresso “per motivi di giustizia” per poter oggi entrare in Italia. Ma c’è di più. Si tratta di «un arrivo dalla portata estremamente simbolica che ripristina la legalità in relazione al diritto di asilo sancito dalla Costituzione costantemente leso dalle autorità italiane che, da anni, implementano azioni volte a bloccare l’accesso di tutti coloro che tentano attraverso il Mediterraneo di arrivare e ottenere protezione», ha commentato Salvatore Fachile, l’avvocato, che, insieme alle colleghe di Asgi, Cristina Cecchini, Giulia Crescini, Lucia Gennari e Loredana Leo, ne ha curato il ricorso insieme ad Amnesty International.
«È una decisione giudiziaria che apre la strada al principio che in caso di respingimento illegittimo si ha il diritto a rientrare per chiedere asilo», ha aggiunto Fachile: «e che apre scenari di giustizia per tutti coloro che sono stati colpiti da provvedimenti di respingimenti attuati da questo governo, come dai precedenti, negli aeroporti, nei porti, lungo i confini terrestri». E poi ha concluso: «nell’arco di soli due anni dal 2009 al 2010 a seguito della conclusione di Accordi con la Libia, numerosissimi sono stati i respingimenti attuati dalle autorità italiane nei confronti di richiedenti asilo, nonostante la sentenza 27765/2009 Caso Hirsi e altri c. Italia, che ha visto l’Italia, per tali pratiche illegittime, condannata dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo».
I respingimenti illegittimi ancora attuali, undici anni dopo, dunque, ed è un copione che sempre si ripete, in queste ore, ancora a Lampedusa, la porta che apre e chiude l’Europa. Dove «chiediamo a gran forza che vengano subito attivate reti anche provvisorie per l’accoglienza immediata dei soggetti più vulnerabili», ha dichiarato Paolo Naso, coordinatore di Mediterranean Hope, il programma migranti e rifugiati della Federazione delle chiese evangeliche in Italia, presenti a Lampedusa dal 2013. «Come chiese protestanti siamo pronte a collaborare con le istituzioni e le altre associazioni per cercare soluzioni legate a questa urgenza», ha aggiunto Naso: « Nel frattempo la nostra massima solidarietà a chi continua a salvare vite nel Mediterraneo. Mentre altri gridano parole d’odio, che rischiano di chiamare violenza, noi scegliamo l’accoglienza». Mentre gli stati hanno scelto i respingimenti.
Gaetano De Monte
Giornalista