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Insieme contro la crisi. Per una cooperazione interdipendente

by Emanuela C. Del Re

di Emanuela C. Del Re. Vice Ministra agli Affari Esteri e Cooperazione Internazionale. Sociologa ed esperta di politica internazionale.

(intervista a cura di Claudio Paravati)

La Cooperazione allo sviluppo è uno degli elementi fondamentali per il raggiungimento della pace e della convivenza, ma la crisi globale scatenata dalla pandemia da Covid-19 – che sta colpendo ogni Paese, comunità e settore della società – ha messo a dura prova le collaborazioni internazionali. Quali strade saranno percorribili nel prossimo futuro? Qual è il ruolo dell’Italia in questo contesto? È davvero possibile porre fine alle diseguaglianze? Ne abbiamo parliamo con Emanuela C. Del Re, Vice Ministra agli Affari Esteri e Cooperazione Internazionale, sociologa ed esperta di politica internazionale.

Fare Cooperazione è un elemento fondamentale di pace e convivenza. È cambiato qualcosa dal Covid-19 in poi? 

Ritengo che la Cooperazione internazionale allo sviluppo sia il braccio operativo più importante della politica estera. Lo dimostrano molti aspetti della sua azione nel mondo. Con i nostri interventi sul campo sia nei nostri 22 Paesi prioritari – di cui 11 in Africa – che nei nostri interventi in numerose regioni nel mondo, siamo in grado di incidere profondamente sullo sviluppo socio-economico delle comunità, con l’obiettivo di contribuire a realizzare i 17 obiettivi dell’Agenda 2030 il cui processo vede l’Italia impegnata in prima linea. L’Italia non è solo un Paese che “fa” cooperazione: è uno dei protagonisti assoluti del sistema internazionale di solidarietà a livello globale. Da decenni siamo ideatori, promotori e realizzatori dei principali interventi di Cooperazione nel mondo. Siamo nel cuore della fitta rete internazionale che sta intervenendo concretamente per combattere povertà e ingiustizie in tutti i continenti. Una visione della Cooperazione italiana che non tenga conto della sua complessità svilirebbe il credito che riscuotiamo a livello internazionale. Dalla sanità all’istruzione, dall’agri-business alle energie rinnovabili, dalla lotta ai matrimoni precoci e forzati alla lotta per l’eliminazione delle mutilazioni genitali femminili, l’azione dell’Italia è sicuramente un motore di progresso e sostenibilità. La Cooperazione allo Sviluppo fa politica nel senso che le sue scelte sono statement politici. Sono convinta che la Cooperazione allo Sviluppo oggi debba essere centrata su valori politici fondamentali, come l’idea che i Paesi che una volta venivano percepiti solo come beneficiari, con un accento di presunta passività che li rendeva dipendenti da decisioni esterne, oggi devono essere visti come partner, perché sono artefici del loro destino e noi contribuiamo al loro sviluppo decidendo insieme le strategie. Insisto sempre sul fatto che dovrebbe essere interiorizzato da tutti a livello globale che la stabilità in Paesi fragili è anche la nostra stabilità, perché tutti i processi socio-economici sono interconnessi e interdipendenti. Anche l’Unione europea rispecchia oggi, soprattutto a seguito della pandemia, questo modello. Mai come oggi in Europa si parla di partenariato, di cooperazione, di lavoro di squadra. Alle iniziative promosse dalla Commissaria al partenariato internazionale Urpilainen, con la quale ci sentiamo spesso, hanno aderito tutti, anche i Paesi dell’Ue notoriamente più riluttanti all’approccio di gruppo, perché c’è una consapevolezza nuova. Infatti, l’interdipendenza è una delle concretezze che il Covid-19 ha evidenziato maggiormente: i singoli Paesi non possano affrontare da soli sfide epocali come la pandemia che riguardano e toccano tutti. La Cooperazione internazionale è impegnata nel dare una risposta sanitaria alla pandemia Covid-19 che peraltro rappresenta la prima frontiera nella lotta globale al Coronavirus. Da una parte tale risposta riguarda la messa a punto di interventi tempestivi di prevenzione, contenimento, contrasto e cura della malattia e, dall’altra, si concentra su ricerca, sviluppo ed equa distribuzione di un vaccino contro il Coronavirus e di ulteriori efficaci trattamenti diagnostici e terapeutici. È evidente che non può esserci una risposta solo italiana alla crisi sanitaria mondiale per via delle interconnessioni che emergono sempre più chiaramente in questo scenario. La politica dell’Italia è quella di sostenere l’approccio multilaterale alla crisi, enfatizzando il carattere collettivo della questione, e quindi dal punto di vista operativo l’obiettivo è quello di rafforzare il coordinamento e la partnership tra i Paesi donatori. Mi riferisco a un multilateralismo efficace, che resista anche agli attacchi che negli ultimi tempi vi sono stati in nome di un’autonomia che consentirebbe un miglior uso delle risorse ma che si rivela fallimentare perché senza una rete di scambi e reciproci sostegni nessun Paese riesce a far fronte alle emergenze gravi. Noi aderiamo, promuoviamo, partecipiamo alle iniziative globali, perché è nel nostro interesse, e non possiamo restare fuori da un processo decisionale che andrebbe comunque avanti perché cruciale. In questo quadro, per quanto mi riguarda, credo profondamente nell’approccio multi-stakeholder, per cui ho istituito, con l’appoggio del Ministro Di Maio, un Tavolo inter-istituzionale per la risposta italiana alla strategia internazionale di contrasto al Covid-19. Al tavolo partecipano ministeri, organizzazioni della Società civile, università, enti di ricerca e anche il privato, la protezione civile e tanti altri. Non a caso nella riunione inaugurale abbiamo diviso il lavoro in due panel dal titolo emblematico: L’“impegno” italiano contro la pandemia L’“ingegno” italiano contro la pandemia

Il Covid-19 ha messo a nudo le fragilità dei sistemi chiusi, ripiegati su sé stessi, incapaci di fare fronte comune e affrontare insieme le sfide del mondo globalizzato. L’Italia è riuscita ad uscire dalla fase più critica del Covid-19 anche grazie agli aiuti ricevuti dai nostri Paesi partner con i quali manteniamo rapporti da decenni. Gli aiuti sono stati fondamentali per i nostri ospedali, resi possibili proprio dal credito politico, di prestigio e influenza che l’Italia vanta, ma anche da un credito di solidarietà che fidelizza tanti Paesi in via di sviluppo al nostro, in un virtuoso rapporto di solidarietà e reciprocità.

È importante sostenere i Paesi partner ora, perché non farlo significherebbe rischiare di perdere quel patrimonio di rapporti e relazioni accumulato negli anni e vanificare per i decenni a venire potenziali mercati per le nostre imprese, un aspetto importante nella Cooperazione, perché implica quello sviluppo bidirezionale che beneficia tutti. Investire nei Paesi in via di sviluppo o emergenti è importante anche per il nostro sistema industriale e produttivo. Non considerare questo significherebbe trascurare le nostre esigenze di crescita e ricondurrebbe il nostro Paese in un asfittico mondo chiuso agli altri e al progresso.

I dati ci dicono che le “rimesse” degli immigrati, ovvero i soldi che gli immigrati mandano nei loro Paesi di origine, alle proprie famiglie, sia maggiore del totale dei fondi destinati alla cooperazione: è questo un dato significativo o è mal interpretato? Oppure si dovrebbe fare di più? 

La Banca mondiale (2019) ci conferma che a livello mondiale le rimesse dei migranti superano di tre volte i volumi derivanti dall’aiuto pubblico allo sviluppo e dagli investimenti diretti esteri. È un dato oggettivo, è un fatto corroborato da cifre e numeri di cui non può dirsi il contrario. Allo stesso tempo, però, va detto che il contributo della Cooperazione italiana ai Paesi partner nei quali operiamo da decenni è molto significativo. L’anno scorso abbiamo avuto oltre 1000 progetti attivi e abbiamo erogato finanziamenti complessivamente superiori a 300 milioni di euro per interventi diretti nei Paesi partner. In questa impegnativa attività le organizzazioni della Società civile giocano un ruolo fondamentale: secondo una stima (al ribasso) delle stesse Reti delle organizzazioni della Società civile sarebbero circa 1.500 i cooperanti impegnati oggi nella realizzazione di progetti in varie parti del mondo e soprattutto in Africa. L’Italia investe, e investe tanto. Siamo tra i principali Paesi donatori delle Nazioni Unite. Siamo champions in questo campo, come amo ripetere. Siamo uno dei Paesi che più cooperano in Africa; siamo uno dei maggiori contributori delle iniziative sanitarie globali, ad esempio, erogando uno dei più importanti fondi per debellare le malattie prevenibili, le malattie infantili e la fame. Si tratta di investimenti che hanno un importante ritorno per il nostro Paese, perché come dimostra la pandemia da Covid-19, investire per la salute a livello globale vuol dire investire nella nostra salute, nel nostro futuro. Seppure negli ultimi due anni abbiamo assistito a una flessione della percentuale dell’Aiuto pubblico allo sviluppo rispetto al Reddito nazionale lordo – dovuto al ri-orientamento dei fondi previsti per l’accoglienza deciso dal Ministero degli Interni nel I Governo Conte – il nostro obiettivo rimane il raggiungimento dello 0,7 per cento entro il 2030, che è la percentuale che ci impone l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile. Sono peraltro convinta che occorrerà assicurare una crescita graduale e costante degli stanziamenti destinati al settore della Cooperazione allo sviluppo, perché esso in questa emergenza è fondamentale per il settore sanitario e WASH (water, sanitation and hygiene) in Paesi con sistemi sanitari fragili, per prevenire un pericoloso contagio di ritorno. Continuiamo ad investire. Partecipiamo con convinzione e spirito di squadra alla “risposta comune europea” alla pandemia di Covid-19, la Team Europe Response fortemente voluta dalla Commissione Von der Leyen che mira a mobilitare circa 20 miliardi di euro. L’Italia c’è e farà la sua parte come ha sempre fatto.

Viceministra, costa caro a chi vive nel mondo d’oggi constatare che il lungo dopoguerra ci ha portati a un mondo con ancora tanti, tantissimi, troppi conflitti. Il mondo a noi più prossimo geograficamente (Africa e Vicino Oriente) vive dolosamente conflitti, perdite di vite umane, torture e sofferenze. C’è qualcosa da registrare nella politica internazionale non solo dell’Italia, ma dell’Europa tutta, e forse del “blocco occidentale”? 

Avendo trascorso molti anni sul campo in zone di conflitto, sempre a contatto con le vittime di guerre, conflitti o persecuzioni assurdi, devo dire che a volte provo sconforto. Quello che mi dà nuova forza però, è il fatto che oggi abbiamo strumenti nuovi che ci permettono di intervenire meglio e con più consapevolezza. La comunicazione, attraverso la tecnologia, ci permette oggi di conoscere realtà che un tempo avremmo ignorato sul piano globale. Quando ci giunge anche un solo tweet da una periferia sofferente del mondo, questo smuove l’opinione pubblica globale e stimola reazioni politiche. Santa tecnologia, dico spesso. Allo stesso tempo, però, proprio questa inondazione di informazioni impone che la macchina della diplomazia internazionale e della politica estera reagisca. Non è accettabile l’immobilismo, il girare la testa dall’altra parte. Io trovo che questo sia veramente importante, perché permette alle minoranze di spingere le maggioranze a ri-equilibrare costantemente le loro azioni, e impone ai Paesi che hanno certezze nel campo dei Diritti umani, in cui sono state raggiunte grandi conquiste sociali per la libertà della persona, di farsi portatori di valori etici con strategie che rispecchino proprio quei valori universali che le rappresentano. I conflitti contemporanei sono caratterizzati da aspetti come la corruzione, da grande fluidità per quanto riguarda alleanze e ostilità che rendono difficile individuare strategie a lungo termine, campagne di disinformazione sempre più sofisticate, stato di diritto imposto spesso con le armi… Sappiamo che le conseguenze, ad esempio dal punto di vista dell’emergenza umanitaria, sono terribili. Anni nei campi dei rifugiati siriani in Iraq, ma anche presso gli yazidi, presso i cristiani perseguitati, mi hanno insegnato che si devono trovare risposte strutturali, non solo tamponare l’emergenza. Certamente è fondamentale intervenire per soccorrere con urgenza chi si trova in stato di grave vulnerabilità, ma le strategie oggi dovrebbero essere riviste, con una visione più a lungo termine, perché spesso la soluzione temporanea diventa permanente, condannando le persone soccorse a una eterna condizione di precarietà. Su questo mi batto molto e spero di contribuire a un cambiamento. Per quanto riguarda le soluzioni strutturali, bisogna agire su più fronti, accompagnando i processi politici nei Paesi in conflitto, ma anche fornendo strumenti per uno sviluppo sostenibile e a lungo termine. A volte le scelte possono essere controverse, ma si deve scegliere tra fare e non fare. Secondo me bisogna fare. 

L’Italia e l’Europa in particolare sono chiamate ad una grande assunzione di responsabilità: costruire società resilienti, in grado di reagire con prontezza e determinazione, con innovazione e in forma proattiva. Dobbiamo ragionare secondo modelli di azione sempre più integrati che colleghino le diverse crisi e le tante questioni delle varie aree del mondo e che collochino ogni scelta sul futuro nel quadro di strategie strutturali di sviluppo condiviso e sostenibile. L’Italia è impegnata da tempo in questa direzione, e continua a lavorare per la stabilità dei Paesi partner restando, però, fedele ai suoi principi e valori. Una caratteristica importante dell’Italia, che ci viene sempre riconosciuta, è che il nostro Paese non ha una “doppia agenda” nei Paesi nei quali siamo presenti, se non quella di favorire e contribuire alla stabilizzazione delle aree di crisi lavorando insieme agli alleati e ai Paesi partner all’insegna del dialogo, della Cooperazione e dell’inclusività. Inclusività è la parola chiave delle nostre strategie.

Quanto è strategico ancora oggi fare Cooperazione a partire non solo dai fondi economici, ma anche dal “dialogo culturale”? E in questo ambito, che ruolo svolge il dialogo inter-religioso? 

L’Italia adotta da sempre un approccio integrato, un modello veramente olistico che privilegia la diplomazia e il dialogo come canali essenziali per la stabilità e la pace delle nostre aree di intervento. L’approccio dell’Italia nei nostri Paesi prioritari e in tutti gli scenari nei quali siamo impegnati è decisamente innovativo e inclusivo. Lo è nella nostra attività diplomatica per la risoluzione delle crisi, quando proponiamo e sosteniamo percorsi politici basati sull’inclusione di tutti gli attori in causa, senza prediligere scorciatoie, “uomini forti” e sotterfugi vari. Lo è nella nostra attività di Cooperazione allo sviluppo come mostra il nostro lavoro per rafforzare un rapporto donatore-beneficiario che non sia uni-direzionale ma bi-direzionale. Entrambi gli attori, donatore (l’Italia) e beneficiario (gli altri Paesi) devono essere consapevoli del reciproco vantaggio dell’esercizio della cooperazione, nel quadro di una inter-dipendenza ormai evidente nel nuovo assetto globale. Questo approccio consente al rapporto bi-direzionale di portare risultati che rispondano alle reali esigenze del Paese beneficiario, e permettano al Paese donatore di intrattenere un rapporto importante, basato su valori condivisi, di crescita comune che nel tempo proponga soluzioni strutturali a lungo termine. 

L’Italia, con l’intero settore della Cooperazione internazionale, considera le religioni e i loro rappresentati sempre più come partner nelle politiche e pratiche di sviluppo sostenibile. Chiese, gruppi e comunità religiose, essendo ben radicati nelle realtà locali, vengono sempre più pensati dalle varie agenzie di Cooperazione e delle Nazioni Unite come attivatori di cambiamento e catalizzatori di dinamiche sociali, economiche e politiche. La religione sta emergendo come uno strumento diplomatico e di sviluppo utile. Centrale diventa anche il dialogo interreligioso di cui se ne riconosce sempre più il valore e la necessità. Di fatto esiste oggi un vasto numero di gruppi a carattere religioso che operano in tutto il mondo, tanto a livello locale quanto su scala internazionale e transnazionale, sia nell’ambito della risoluzione dei conflitti, sia nella prevenzione dei conflitti, sia nei processi di sviluppo. Sono numerosi i progetti realizzati da gruppi religiosi e/o di ispirazione religiosa nelle comunità. Molti sono gli attori e le esperienze locali e interazionali. Questa realtà si riflette all’interno del sistema della Cooperazione internazionale nel moltiplicarsi di iniziative, di esperienze, di attività e di attori che oggi si impegnano a promuovere il dialogo inter-religioso, e per i quali la religione costituisce una dimensione integrante all’azione diplomatica, educativa e sociale. A questo proposito desidero plaudere alle attività incessanti della Chiesa valdese, di Sant’Egidio, della Federazione delle Chiese evangeliche in Italia (Fcei) e di altri nell’ambito del dialogo e dell’accoglienza, in stretta collaborazione con le istituzioni italiane, proprio nello spirito dell’approccio multi-attore e multi-livello da me tanto auspicato. Io stessa intrattengo un dialogo costante con tutti loro. 

Seguo il dialogo interreligioso in diverse aree del mondo da tempo. In uno studio che ho condotto sul dialogo interreligioso in Iraq, ho individuato un elemento di novità importante che – a mio avviso – costituisce uno spunto strategico significativo. Il dialogo interreligioso deve uscire dalla sua dimensione consolidata di strategia riparativa o protettiva, deve diventare una strategia proattiva, parte dei processi decisionali politici. Non è facile perché questo implica anche che le stesse comunità ripensino il proprio ruolo e il proprio atteggiamento nelle azioni comuni, in contesti complicati in pieno conflitto o nel post-conflitto, che costituiscono forte pressione anche psicologica. Sulla pro-attività stiamo lavorando anche sul piano internazionale con molte comunità religiose consapevoli e di lunga esperienza.

Le disuguaglianze sono cresciute esponenzialmente nei Paesi più ricchi del mondo, al loro interno; e al contempo anche tra Paesi; se è vero che grosse fette di popolazione nel mondo si sono emancipate dalla povertà, le disuguaglianze così profonde, nel mondo globale, bussano alle porte di chi vorrebbe chiudersi nel proprio fortino dorato. Quale saranno le sfide del futuro per saper vivere, convivere e – si spera – condividere vie di sviluppo e benessere nel mondo globale dei prossimi decenni? 

L’Italia è chiamata oggi a rispondere a quelle che, secondo me, sono due delle più grandi sfide dei prossimi anni: la prima riguarda il sociale, in particolare la necessità di formazione del capitale umano – giovani e donne – impiegabile nelle nuove forme che sta assumendo l’economia della grande area euro-mediterranea; la seconda, strettamente legata alla prima, è quella della sostenibilità climatica e ambientale, alla luce degli obiettivi Onu per il 2030 e del rapporto Med-Ecc incentrato sui cambiamenti climatici in atto nella nostra regione. Questi sono pertanto i due assi di una nuova politica globale, votata all’integrazione Nord-Sud e Sud-Sud. Una nuova politica capace di sostenere con vigore e coerenza un’ottica integrata per la soluzione dei problemi trans-nazionali altrimenti irrisolvibili senza una nuova e ormai urgente governance comune. Vi sono poi altre questioni fondamentali come i Diritti umani, grande conquista. Io credo che dovranno essere difesi e affermati sempre più, perché alla loro universalità si oppone una “discrezionalità della loro applicazione” di cui vi sono segnali in varie parti del mondo e che potrebbe mettere a rischio l’intera architettura che con fatica è stata costruita per la protezione della persona e della sua dignità. Non bisogna abbassare la guardia, e rafforzare sempre di più le strutture valoriali su cui poggia tutto il nostro progresso e benessere sociale ed economico. 

[pubblicato su Confronti 09/2020]

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Emanuela C. Del Re

Vice Ministra agli Affari Esteri e Cooperazione Internazionale. Sociologa ed esperta di politica internazionale.

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