di Angelo Turco. Geografo africanista, Professore emerito all’Università IULM, già Presidente di Fondazione Università IULM.
Un pugno di colonnelli ha preso il potere a Bamako, il 18 agosto scorso, senza spargere una goccia di sangue e facendo in modo che fosse lo stesso Presidente deposto, Ibrahim Boubacar Keïta (detto Ink) ad annunciare alla televisione le sue dimissioni. Si capisce dai primi annunci e dalle prime mosse del Cnsp (Comité National pour le Salut du Peuple) guidato dal colonnello Assimi Goita, che lo schema che i militari intendono seguire è quello ben noto in Africa subsahariana, dall’età delle indipendenze ad oggi, del golpe/elezioni.
Questo schema prevede una riconsegna, anche abbastanza veloce, delle istituzioni ai civili, attraverso una fase di transizione in cui si forma un governo e presumibilmente l’elaborazione di una nuova Costituzione. La parola chiave, per l’uno e per l’altra, è: inclusivo. Tutti, in qualche modo, partecipano allo svolgimento dei due processi, sotto la stretta tutela dei militari, preoccupati di arrivare alle elezioni con il massimo consenso: opposizioni politiche, società civile, ex maggioranza, comunità religiose, osservatori internazionali.
La tempesta perfetta si preparava da tempo in Mali: forse fin dalla prima elezione di IBK, certo dalla seconda, nel 2018, quando è apparsa chiara e definitiva la sua mancanza di spessore politico e l’incapacità di immaginare un futuro per il suo Paese. La trama di fondo di un’estrema povertà, di un’economia asfittica e di moltitudini di giovani senza futuro ha alimentato le malepiante della corruzione e del disfunzionamento dello Stato, fino a renderli intollerabili. Facendo sorgere, come risposta, quel Movimento del 5 Giugno, che ha raccolto tutte le forze insoddisfatte di IBK e gestito in qualche modo tutti i malumori che si addensavano sull’inanità politica del presidente e del suo sistema di potere, sia civile che militare. In questa palestra di contestazione, è andata crescendo la presenza politica delle comunità islamiche maliane, incarnate da personaggi di spicco come l’imam Mahmud Dikco e la “guida” di Nioro, Bouyé Haïdara.
Tutto questo costituisce l’intenibile cornice del cancro securitario che rode i deserti maliani ormai da decenni. Nel Centro e nel Nord del Paese, una controversia storica oppone il popolo Tuareg alle autorità di Bamako, che hanno ignorato la dimensione politica e culturale delle rivendicazioni, riducendole a un nucleo puramente militare e trattando dunque la questione come un problema di ordine pubblico. Su questa situazione gravemente compromessa si è addensata la nuvolaglia dei jihadismi di matrice salafista, quaedista, statislamista, e altre sfumature che hanno provocato un massiccio impegno militare della Francia prima, con le operazioni Serval e Barkhane, poi dell’Europa convinta dalla Francia (missione Takuba), e naturalmente delle Nazioni Unite (Minusma). Con IBK queste trame di violenza, invece di diluirsi, si intensificano. Fanno la loro comparsa mortale i conflitti etnici, con Peul e Dogon in primo piano. Conflitti esasperati dalla circolazione di “milizie di autodifesa”, armate e a base comunitaria, che risvegliano antichi rancori e innescano spirali di esazioni, vendette, ritorsioni.
Vedremo se il modello golpe/elezioni farà il suo corso, nei prossimi nove mesi, a quanto si dice. Vedremo chi guiderà la transizione, se un civile, un militare, una personalità religiosa. La comunità internazionale, intanto, dall’africana Cedeao (Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale), fortemente impegnata nella mediazione politica già prima del golpe, all’Onu, all’Ue, prende posizione contro il colpo di Stato e per il ripristino immediato dell’ordine costituzionale. La Francia, che certo non amava IBK, dovrà rivedere l’impianto complessivo, e non solo militare, della sua presenza in Mali.
Certo quel che succede a Bamako in queste ore non aiuta, considerando le situazioni in movimento contestatario in Guinea e in Costa d’Avorio, dove due ex Presidenti corrono per un terzo mandato, spinti dalla circostanze, come Alassane Ouattara, o per ferma determinazione, come Alpha Condé. Ma alla gente che scende in strada restano le ragioni della strada: l’insoddisfazione per ciò che non cambia e non sembra cambiare mai, con i volti del potere che non danno respiro, inchiodati al loro posto come da volontà oscure, di cui l’Africa ha un disperato bisogno di liberarsi.
Ph. Mission de l’ONU au Mali – UN Mission in Mali
Angelo Turco
Geografo africanista, Professore emerito all’Università IULM, già Presidente di Fondazione Università IULM.