di Eduardo Barberis. Università di Urbino Carlo Bo
Il 15 agosto sono scaduti i termini per la presentazione della domanda di regolarizzazione prevista dal Decreto-Legge “Rilancio” dello scorso maggio. Vale la pena ricordare che il DL prevedeva due possibilità di ottenere un permesso di soggiorno:
- il rinnovo di un contratto di lavoro scaduto o l’emersione di un rapporto di lavoro in nero; la misura era rivolta a chi era presente in Italia prima dell’8 marzo 2020, l’istanza doveva essere presentata dal datore di lavoro e valeva solo per alcuni settori economici – in particolare agricoltura, allevamento, pesca e attività connesse; assistenza alla persona e lavoro domestico.
- La richiesta, da parte dell’interessato stesso, di un permesso semestrale per quanti avessero già un permesso di soggiorno scaduto dal 31 ottobre 2019.
Vale anche la pena osservare che molte organizzazioni e associazioni avevano criticato i potenziali effetti distorsivi della norma. Le restrizioni procedurali e per settore, infatti, hanno plausibilmente escluso una grossa platea di irregolarmente presenti (in particolare quelli espulsi negli ultimi anni dal sistema di accoglienza per richiedenti protezione) e – paradossale per una norma che secondo la ministra Bellanova doveva colpire caporalato e grave sfruttamento lavorativo – non hanno contrastato a sufficienza forme di intermediazione illecita: di fatto, si è dato potere sul futuro di persone sfruttate a veri o finti datori di lavoro che hanno avuto nel passato e avranno nel futuro un ruolo nelle condizioni di marginalità dei migranti.
Il 17 agosto il Ministero dell’Interno ha pubblicato il rapporto finale sugli esiti del provvedimento, per cui è possibile fare qualche riflessione basata sui dati. Innanzitutto, i numeri: per la prima tipologia – relativa ai rapporti di lavoro in agricoltura, assistenza alla persona e lavoro domestico – le richieste presentate sono state poco più di 207.500 (l’85% per assistenza e lavoro domestico; 15% per l’agricoltura); per la seconda tipologia – permesso semestrale per chi aveva un titolo di soggiorno scaduto – ca. 13.000. Ovviamente non si sa ancora quante di queste verranno accolte. Tuttavia, si può fare qualche analisi sul potenziale successo o meno.
Quanta irregolarità verrà sanata?
E per farlo bisogna partire dalle stime sull’irregolarità, che per loro natura non sono ovviamente oro colato, pur avendo gli enti di ricerca italiani una ottima capacità ed esperienza sul tema.
Il XXV Rapporto sulle migrazioni dell’ISMU calcola che gli irregolari in Italia nel 2019 fossero ca. 562.000, mentre Assindatcolf e Idos (nel Rapporto statistico sull’immigrazione del 2019 realizzato in collaborazione con Confronti) calcolano in 150-200.000 i/le colf, badanti e baby sitter stranieri in nero.
Il recente rapporto del CREA dal titolo “Il contributo dei lavoratori stranieri all’agricoltura italiana” stima, con dati INPS, che nel 2017 c’erano ca. 365.000 operai agricoli stranieri. A questi, va aggiunta una quota – variabile da regione a regione – del 10-25% di irregolari, tanto che il IV Rapporto Agromafie e Caporalato dell’Osservatorio Placido Rizzotto della FLAI-CGIL ipotizza la presenza di 67.000 stranieri privi di contratto attivi nella nostra agricoltura.
In base a queste stime, dunque, la regolarizzazione avrebbe avuto un ottima copertura per il lavoro domestico e di cura, mentre avrebbe svuotato meno della metà del bacino dell’irregolarità complessiva e in agricoltura. In questo senso, si tratta forse di un’occasione persa per mettere un punto più duraturo a condizioni problematiche che si trascinano da tempo e – specie in considerazione del numero di richiedenti asilo cui viene diniegata ogni protezione – che si alimenteranno ancora nei prossimi anni. Un provvedimento di più ampio respiro, che in Italia si è già attuato in momenti e condizioni specifiche con esiti non disprezzabili (si pensi ai permessi temporanei generalizzati dati dopo la crisi del Kosovo e quella delle primavere arabe), avrebbe ridotto le sacche di vulnerabilità e precarietà in un momento tanto delicato.
Qui di seguito ci concentriamo sull’analisi dell’emersione dei rapporti di lavoro in agricoltura e nel lavoro domestico e di cura.
Il report del Ministero dell’Interno fornisce alcune indicazioni generali – talora piuttosto curiose, come l’altissimo numero di domande per lavoro domestico riferite a lavoratori georgiani (15.000): se il dato si conferma e non è frutto di un errore di elaborazione, in caso di accoglimento di tutte le domande si arriverebbe al raddoppio dei cittadini di Tbilisi regolarmente presenti in Italia.
Qui vogliamo dare uno sguardo ai territori, oltre la solita graduatoria dei numeri assoluti di domande presentate, che dicono relativamente poco se non raffrontati con altri dati. Mettiamo dunque in rapporto le domande presentate con i principali aggregati demografici (stranieri residenti e titolari di permesso di soggiorno) e del mercato del lavoro (occupati).
Come si accennava, abbastanza intuitivamente, le grandi aree metropolitane in termini assoluti hanno il numero di richieste più elevato: le sole città metropolitane di Napoli, Roma e Milano fanno il 28% delle domande presentate (il 31% di quelle per lavoro domestico ma solo il 10% di quelle per lavoro subordinato – stante la diversa geografia delle imprese destinatarie del provvedimento di emersione).
Quanta popolazione straniera in più ci sarà sui territori?
Se confrontiamo le domande presentate con gli stranieri regolari e residenti, abbiamo una prima dimensione del peso dell’irregolarità che potenzialmente verrà sanata. A livello nazionale, le domande di emersione sono pari al 3,9% degli stranieri residenti, ma al 5,1% dei residenti in età 15-64 anni e al 5,6% dei residenti provenienti da Paesi extra UE a forte pressione migratoria (dal “sud del mondo”, insomma).
Questo dato medio si compone però di dati provinciali molto diversificati. La quota è infatti molto superiore nelle province meridionali – specie di Campania e Puglia. Qualunque dei tre indicatori qui proposti si guardi, Napoli, Caserta, Bari, Salerno, Avellino e Taranto guidano la graduatoria (domande pari al 9-14% dei residenti). La prima provincia del Centro-Nord è Reggio Emilia (5,5%), più o meno in quindicesima posizione. In coda alla graduatoria, invece, troviamo Val d’Aosta e Friuli Venezia-Giulia, insieme ad alcune province sarde. In alcuni casi le differenze intraregionali sono corpose: nel caso della Sicilia, Trapani ed Enna hanno avuto poche domande in rapporto alla popolazione straniera già residente (intorno al 2%), mentre Ragusa e Messina sono nella situazione opposta (6-7%).
Quanto lavoro in più per le Prefetture?
Possiamo anche guardare a un altro dato che ci può stimare la “pressione” cui saranno sottoposti gli Uffici territoriali del governo nel gestire le pratiche: quello del rapporto fra domande presentate e permessi di soggiorno in essere. Nel caso di accettazione totale delle richieste di emersione, una Prefettura come quella di Napoli dovrebbe gestire il 50% in più di permessi di soggiorno a scadenza (la media nazionale è del 15%) e il 20% in più di permessi di soggiorno complessivi.
È interessante osservare che nelle prime posizioni troviamo tutte province che negli anni sono state al centro dell’attenzione sia per l’inserimento lavorativo degli stranieri in agricoltura, sia per condizioni di grave sfruttamento lavorativo – al Sud (Caserta, Latina, Foggia, Ragusa…) come al Nord (Mantova, Verona), con l’unica eccezione forse della provincia di Cuneo (che ha numeri relativamente alti per l’emersione in agricoltura ma molto bassi per il lavoro domestico).
Benché la regolarizzazione abbia riguardato per l’85% lavoratori domestici, in molte di queste province il peso della regolarizzazione in agricoltura è stato ampiamente preponderante: a Ragusa, Foggia, Caltanissetta, Siracusa, Trapani… più di due terzi delle domande hanno riguardato l’emersione di lavoro agricolo.
Si tratta di un dato su cui serviranno analisi più approfondite: c’è un effetto strutturazione e annuncio? Cioè, la regolarizzazione era stata annunciata come risolutiva del grave sfruttamento in agricoltura e questo può aver comportato una maggior attenzione di istituzioni intermediarie, organizzazioni e gruppi formali e informali in certi territori? Quanto è stato importante il ruolo di reti criminali intermediarie – con il rischio di alimentare il caporalato? In altri contesti, può esserci stato un effetto travaso? Cioè, data la difficoltà di regolarizzazione posizioni diverse, quanto si è passati per il canale più accessibile, quello del lavoro domestico?
Quale effetto sui mercati del lavoro locali?
Cosa comporta questa emersione nel mercato del lavoro? A livello nazionale, l’approvazione di tutte le domande porterebbe all’emersione dello 0,9% degli occupati regolari totali (usando come termine di paragone i dati 2019: quelli del 2020 non sono ancora disponibili e presentano complessità legate al post-Covid). Per tre province questo dato supererebbe il 2%: Caserta, Napoli, Ragusa. L’effetto invece sarebbe sostanzialmente trascurabile soprattutto in Sardegna (quasi tutte le province intorno allo 0,2%).
Quale l’effetto, invece, sulla quota di lavoro dipendente in agricoltura, silvicoltura e pesca? Qui la graduatoria sarebbe molto diversa. Se tutte le domande venissero accolte, il lavoro dipendente nel settore aumenterebbe del 6,4% (e gli occupati totali nel settore del 3,4%) Le province in cui l’aumento relativo sarebbe maggiore, però, non sono sempre quelle che abbiamo visto finora. Nell’ordine: Como (su numeri assoluti piuttosto limitati), Avellino, Modena, Padova, Napoli, Prato, Pistoia, Venezia e Vicenza. L’effetto di emersione, dunque, sembrebbe maggiore nel Nord-Est (Veneto e Lombardia in testa) e parzialmente in Italia Centrale (con alcune province toscane e marchigiane sopra la media nazionale).
Nonostante gli alti numeri di domande nelle province meridionali, la capacità di svuotamento del bacino di irregolarità potrebbe essere stata superiore al Centro-Nord. O più semplicemente, come intuibile anche dal già menzionato rapporto del CREA, in alcune filiere agricole settentrionali il peso del lavoro immigrato (regolare e irregolare) è particolarmente rilevante, anche se magari meno sotto osservazione rispetto ad alcune filiere meridionali.
Resta il fatto che, molto più che per l’emersione del lavoro domestico e di cura, l’effetto selettivo del lavoro agricolo è abbastanza evidente. Infatti, in generale il numero di richieste di regolarizzazione è fortemente correlato con il numero di stranieri residenti e di occupati totali (in sostanza: più grande è una provincia e/o il suo mercato del lavoro, più alto il numero di domande presentate). In una scala fra -1 (correlazione inversa) e 1 (correlazione diretta), la correlazione oscilla fra 0,86 e 0,89 a seconda degli indicatori.
Ebbene, essa è meno forte quando si guardano gli occupati (dipendenti e totali) in agricoltura: la correlazione qui è intorno a 0,63. Cosa significa? Che, certo, più un mercato del lavoro in agricoltura è grande, più sono le domande, ma non è sempre, chiaramente e linearmente così.
Anche guardando i dati in termini assoluti, vediamo una rilevanza di alcuni territori in cui il lavoro agricolo migrante è stato centrale: quasi metà delle domande in agricoltura viene da sole 9 province – nell’ordine Caserta, Ragusa, Latina, Napoli, Salerno, Foggia, Verona, Roma, Cosenza. Sei di queste sono anche nell’elenco delle quindici province che assorbono la metà della manodopera straniera in agricoltura, secondo Coldiretti.
Interrogativi aperti
Rendere conto delle differenze territoriali ci permette di dare un quadro più articolato e significativo dell’andamento della regolarizzazione. Restano aperti diversi interrogativi sull’effettiva capacità di svuotamento del bacino dell’irregolarità: le province ad alta presenza di lavoratori stranieri in agricoltura, ma con poche regolarizzazioni sono casi virtuosi (non c’era molto da regolarizzare) o no (non si è data possibilità di regolarizzare a chi avrebbe potuto)? Qual è la geografia di chi è rimasto sommerso? Di fronte a un mercato del lavoro immigrato diffuso (si pensi all’assistenza familiare) e alla diffusione recente dei diniegati (presenti in tanti in territori come in tanti i territori è presente il sistema di accoglienza) e di soggetti in posizioni non sanabili nei limiti del DL, come affrontare la vulnerabilità persistente? Come si mette in piedi procedure che evitino ricadute nell’irregolarità, di fronte a un mercato del lavoro e a filiere produttive – in agricoltura ma non solo – che non sembrano spesso avere condizioni di sostenibilità di lunga durata?
A parere di chi scrive, a tamponare la situazione resta la necessità di un provvedimento correttivo con soglie molto inferiori, che tuttavia – appena chiusa una sanatoria, di fronte a un clima di scontro continuo sul tema migratorio – diventa politicamente molto arduo da portare avanti.
In prospettiva più sistemica, è ineludibile una politica di più ampio respiro, sia per definire canali di ingresso legale (ad oggi sostanzialmente limitati ai ricongiungimenti familiari), sia per definire condizioni di lavoro dignitoso e sostenibile.

Eduardo Barberis
Università di Urbino Carlo Bo