di Luciana Borsatti. Giornalista e scrittrice
Il 22 settembre 1980 le truppe irachene invasero l’Iran sia da Nord, nel Kurdistan, che da Sud nel Khuzestan, regione ricca di petrolio e con una componente etnica araba. Da quell’invasione Saddam Hussein sperava di conquistare il controllo totale dello Shatt al-Arab, fiume che faceva da confine meridionale tra i due Paesi. Ma il leader iracheno sottovalutò l’avversario, e ne nacque un sanguinoso conflitto che si protrasse per otto anni con inestimabili sofferenze e perdite umane da entrambe le parti. Si stima vi siano stati fino ad un milione di caduti solo tra gli iraniani, fra i quali i 290 passeggeri di un aereo civile abbattuto, il 3 luglio 1988, dall’incrociatore americano Vincennes. Tuttora ufficialmente definito in Iran come la “guerra imposta”, il conflitto è l’unico in cui Teheran fu coinvolta come parte belligerante nel XX secolo.
Nel 1982 il fondatore della Repubblica Islamica, Ruhollah Khomeini, non accettò né la proposta di cessate il fuoco dell’Onu né il piano di pace della Lega Araba. In realtà, Khomeini voleva approfittare del conflitto per consolidare la rivoluzione ed esportarla nei Paesi vicini, contando anche sugli sciiti iracheni. Ma la guerra permise di consolidare anche l’Iraq sotto un’unica bandiera nazionalista, e Saddam poté contare, contro un generale isolamento di Teheran, su diversi alleati internazionali nelle diverse fasi del conflitto: dalle monarchie arabe del Golfo Persico ad alcuni Paesi europei, dall’Urss a Washington – che per un periodo vendette in realtà armi anche all’Iran, come emerso con lo scandalo Irangate.
Durante il conflitto Saddam non esitò ad usare più volte le armi chimiche, a radere al suolo centinaia di villaggi curdi, bombardare con l’aviazione Teheran e altre città. L’Iran reagì puntando sulla fanteria e chiamando a raccolta anche i più giovani, incitati ad arruolarsi da una propaganda centrata sul “martirio” come pilastro dell’identità religiosa sciita, fondata sul mito dell’Imam Hussein ucciso nella piana di Karbala nel 680 d.C.
Durante il conflitto Saddam non esitò ad usare più volte le armi chimiche, a radere al suolo centinaia di villaggi curdi, bombardare con l’aviazione Teheran e altre città. L’Iran reagì puntando sulla fanteria e chiamando a raccolta anche i più giovani, incitati ad arruolarsi da una propaganda centrata sul “martirio” come pilastro dell’identità religiosa sciita, fondata sul mito dell’Imam Hussein ucciso nella piana di Karbala nel 680 d.C. Un ruolo guida fu svolto dai “Guardiani della rivoluzione”, o Sepah-e Pasdaran, che fondarono anche le milizie volontarie Basij. Fra gli scontri più cruenti quello al centro del romanzo Viaggio in direzione 270 gradi di Ahmad Dehqan (Jouvence, 2018). Il conflitto ebbe fine il 20 luglio 1988, quando Khomeini annunciò di aver deciso di bere il “calice di veleno”, cioè la fine dei combattimenti prevista dalla risoluzione 598 del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Gli ultimi sei anni di conflitto non avevano portato alcun risultato sul piano territoriale né nei rapporti di forza tra i due Paesi. Ma la guerra ha segnato profondamente generazioni di iraniani, sia di quelli che vi avevano combattuto o assistito, sia dei più giovani che ne hanno ereditato la percezione politica di una nazione isolata da buona parte del resto del mondo.
Di quel conflitto vi sono qui due testimonianze. La prima è del fotografo Mohammad Sayyad Sabour, più noto come M. Sayad, pioniere del fotogiornalismo che documentò dal fronte la guerra per l’agenzia americana Associated Press. L’abbiamo raccolta come intervista, con la collaborazione di Mehran Falsafi, alla recente inaugurazione di una sua mostra alla Nabshy Gallery di Teheran.
La seconda è di Bahman Kiarostami, figlio del maestro del cinema iraniano Abbas Kiarostami recentemente scomparso, che ha raccolto in un poetico documentario la storia del transatlantico italiano Raffaello: acquistato dallo scià nel 1977 e accolto e amato come un affascinante “cigno bianco” dagli abitanti della città portuale di Bushehr, finì per essere prima depredato durante la rivoluzione, poi affondato dai missili di Saddam. Un racconto quasi inedito, il suo film, che non solo mette in luce uno dei tanti legami storici tra Italia e Iran, ma introduce anche ad alcuni aspetti della “percezione” di sé dell’Iran contemporaneo in rapporto all’Occidente.
Una guerra assurda che ha distrutto la mia generazione. Intervista a M. Sayad
Esiste un ricordo più forte della sua lunga consuetudine con la guerra?
Sì, non facevo che ripetermi questa domanda: «Perché?». Fu una guerra assurda. Lo sono più o meno tutte, ma questa era di una assurdità imbarazzante! Non la si poteva capire, non trovavi una sola giustificazione per la sua ferocia e tutta quella insensata crudeltà, quel perpetuo accanirsi contro la povera gente! Non morivano solo le persone, ma la quotidianità e tutti quegli aspetti della vita di sempre che sembravano eterni. A volte mi consolavo trovando qualche sopravvissuto, o qualcosa rimasto ancora in piedi, ma il giorno dopo non c’erano nemmeno quelli.
Come pensa che il conflitto abbia cambiato la sua generazione e influenzato quelle successive?
Il cambiamento non mi preoccupa, ma la distruzione totale non è cambiamento! La mia generazione fu letteralmente distrutta dalla guerra, e quelle più giovani ne hanno pagato le conseguenze.
Cosa pensava del suo ruolo di fotografo in prima linea, era solo un testimone o svolgeva anche una parte attiva, con chi stava in trincea per la patria?
No, non mi sentivo parte della guerra. Avevo un lavoro e un dovere da svolgere, documentare ciò che altrimenti sarebbe mancato dalla memoria futura. Non amavo suscitare rabbia, odio o dolore con le mie testimonianze, perché questi sentimenti portano altre guerre. Volevo solo che l’Uomo comprendesse quanto è assurda.
Pensa sia cambiato da allora il senso della patria e della appartenenza nazionale?
Se si intende la disillusione della gente, bisogna capire che è fisiologica, perché nulla potrà mai ripagare quei sacrifici. Questo vale dappertutto, non è un fenomeno soltanto iraniano. È ingiusto strumentalizzarlo dimenticando le dimensioni di quella tragedia.
La Raffaello, il “cigno bianco” spogliato dalla rivoluzione e inabissato dai missili
Intervista a Bahman Kiarostami
Nel novembre 1982 affonda nel Golfo Persico, in un attacco aereo iracheno, il transatlantico italiano Raffaello. Comprata dallo scià nel 1977 e fatta ancorare nel porto di Busheur, quella splendida nave bianca aveva affascinato la popolazione locale, che vi poteva entrare e vedere i film nella sala cinema, e che ne venerava i lussuosi arredi. Ma quando scoppiò la rivoluzione la tanto amata “sposa timida e forestiera” venuta da Genova finì per essere odiata come “una meretrice”, ormai simbolo della ricchezza di cui gli iraniani si sentivano depredati, e saccheggiata. E poi, scoppiata la guerra, per evitare che il suo biancore facilitasse i bombardamenti sulla città, fu portata al largo dove fu “bruciata tra le fiamme lontana dalle sue due città”, Genova e Bushehr. A raccontare questa storia in un documentario, che recupera anche alcune scene di un film di Alberto Sordi girato nei saloni della nave, è Bahman Kiarostami.
Il film Raffaello (2015) ha la voce narrante del regista e poeta Dariush Gharibzadeh, originario di Bushehr, che si racconta come un bambino che, all’arrivo del transatlantico nell’agosto 1977, si innamorò della nave. Come il protagonista di The Runner (1985) di Amir Naderi, un caposaldo del cinema iraniano da cui Kiarostami riprende una scena cruciale, il bambino – racconta il regista in un’intervista via email – «è incantato da questo palazzo galleggiante di stile occidentale che veleggia verso Bushehr. Egli adora quella nave, ma quando arriva la rivoluzione anche lui è fra quegli uomini che la devastano come fosse una follia imperialista. Più tardi rimpiangerà le sue azioni e tutto ciò che ha perso».
Nell’intervista, Kiarostami racconta di aver appreso della Raffaello da un amico originario della zona, e di aver scoperto che, se Ebay offriva gran quantità di oggetti degli anni in cui la nave solcava l’Oceano tra l’Italia e l’America, prima che gli aerei sostituissero le traversate di linea, nulla di lei sembrava rimasto a Bushehr. In quella città, come la nave gemella Michelangelo a Bandar Abbas, era stata trasformata in alloggio per gli ufficiali che si occupavano della costruzione dei due porti militari.
«C’erano però – prosegue – i relitti salvati dagli abitanti dal saccheggio della nave. Oggetti quasi sacri, come lampade, maniglie, pezzi di pavimento della sala da ballo, messi al posto d’onore nelle case, come icone di un’altra epoca».
Che significato ha per lei The Runner di Amir Naderi, film dal quale ha ripreso proprio l’esultanza del piccolo protagonista all’arrivo della Raffaello in porto?
Gharibzadeh, la voce narrante, nel suo testo poetico ha la stessa età di quel bambino e «ha condiviso con Naderi lo stesso mondo. Un mondo di ragazzini che stavano crescendo in due povere città portuali, Bushehr e Bandar Abbas, quando il lusso inglese o italiano ha fatto irruzione nelle loro vite. Entrambi sono sopraffatti dalla bellezza dell’Occidente che entra nei loro spazi protetti, ma quando arriva la rivoluzione il sentimento della loro generazione per l’Occidente si inasprisce, e viene sostituito dalla violenza». Reazione nata anche, come dice la voce narrante, da quartieri dove la vita quotidiana era piena di “dolore e sofferenza”. Naderi e il suo piccolo protagonista si sarebbero poi trasferiti in America, ma «poeti come Gharibzadeh, rimasti invece in Iran, stanno ancora cercando di venire a patti con il loro passato rivoluzionario e quello che hanno distrutto».
Le scene riprese dal film che Alberto Sordi aveva girato sulla nave con Monica Vitti, Amore mio, aiutami (1969), insieme all’insegna del ristorante di Bushehr che ancora si chiama Raffaello, cosa ci dicono del rapporto tra l’Iran e l’Italia?
«Il film di Sordi è come un rito funebre» e «documenta la fine di un’era», risponde il regista, citando il libro Michelangelo e Raffaello, la fine di un’epoca di Simone Bandini e Maurizio Eliseo (Hoepli, 2017). All’epoca «l’Italia voleva sbarazzarsi di quelle costose navi di linea», ricorda, e «doveva dei soldi allo scià dell’Iran». «L’Ironia del poema di Gharibzadeh – aggiunge – è che lui è un iraniano nel picco del boom del petrolio, quando l’Iran spazzolava via oggetti d’arte da un Occidente privo di liquidità».
Un’altra citazione viene invece da Corazzata Potëmkin di Sergej M. Eisenstein, e introduce alla violenza della rivoluzione e alla lunga guerra Iran-Iraq, durante la quale la nave indicava ai cacciabombardieri la posizione della città. «Raffaello era diventata un’amante infedele – dice la voce narrante – in combutta col nemico».Lei era un bambino all’epoca, come crede che la guerra abbia condizionato la percezione degli iraniani di se stessi e dell’Occidente?
Sono nato nel 1978 e non penso alla guerra come ad un tempo separato. Sono cresciuto con la guerra che è stata semplicemente la mia infanzia, tutto quello che sapevo. È stata una inutile guerra di otto anni, e noi ne stiamo ancora dipanando l’influenza e le ragioni. Come con la Raffaello, ne stiamo ancora disvelando gli oggetti, per comprendere in cosa appartenga alle nostre vite.
Realizzato nel 2015 per un pubblico locale e poco noto anche a Teheran, il film ha finora avuto una sola proiezione all’estero, alla rassegna romana Operazione Peace Dreaming organizzata nell’ottobre 2019 dall’Associazione Alefba a Palazzo Merulana e curata da Parisa Nazari e Azadeh Bizargiti. Ma tornerà il 30 settembre a Verona, nell’ambito del workshop Passaggio a Est tra Occidente e Oriente organizzato da Tenstar Community e dall’Associazione culturale InAsia.
© Foto di apertura per gentile concessione di Nabshi Center e Mohammad Sayyad (Courtesy of Nabshi Center and Mohammad Sayyad)
Luciana Borsatti
Giornalista e scrittrice