di Giulio De Petra. Esperto di innovazione tecnologica nelle pubbliche amministrazioni, direttore del Centro per la Riforma dello Stato (Crs), fa parte del Forum sulle Disuguaglianze e le Diversità
(intervista a cura di Michele Lipori)
La pandemia da Covid-19 ha visto un proliferare dell’utilizzo di strumenti digitali. Ma, stante la loro effettiva utilità nel mondo di oggi, quali sono i rischi di un utilizzo acritico di questi strumenti? Ne abbiamo parlato con Giulio De Petra, esperto di innovazione tecnologica nelle pubbliche amministrazioni, dove ha maturato una pluriennale esperienza sull’argomento. È direttore del Centro per la riforma dello Stato (Crs) e fa parte del Forum sulle Disuguaglianze e le Diversità.
La pandemia ha evidenziato i limiti, di accesso e di competenza, dell’utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento di attività cardine della nostra società (scuola e amministrazione pubblica). Questa situazione può, in qualche modo, rappresentare anche un’opportunità di rinnovamento?
A mio avviso è importante ragionare su come è stata comunicata la questione delle “opportunità”. Su molti giornali è rimbalzata la notizia secondo la quale l’effetto collaterale positivo della pandemia sarebbe l’apprendimento e l’uso del digitale. Ma questa affermazione retorica va analizzata più attentamente. Di fatto, parlando in generale, il corpo docente non ha avuto particolari problemi in termini di accesso e di competenze per fruire dei mezzi digitali per le lezioni online. Questo è stato vero sia per i più giovani, sia per i più anziani. Del resto Facebook è, oggi, più utilizzato da utenti “anziani”, dato che i giovani si stanno gradualmente spostando su altri social network. Certamente in alcune aree è stata rilevata un’insufficienza della rete internet, ma più a causa di un incremento anomalo dell’utilizzo della rete per la fruizione di contenuti video in streaming che per motivi strutturali. Quello che più è saltato agli occhi in questa situazione è la “povertà” dello strumento digitale se viene inteso come sostitutivo delle modalità di apprendimento “in presenza”. Del resto, questo dato emerge anche in altri ambiti, come quello delle riunioni (di lavoro e non), in cui si è visto che il cosiddetto “distanziamento sociale” ha modificato – in peggio – le modalità di discussione e ha contribuito al depauperamento, in termini di spontaneità e autenticità, delle relazioni sociali. Tutto questo non ha a che fare con la “natura” del mezzo utilizzato, quanto per il fatto che esso sostituisca l’attività in presenza. Certo, durante il lockdown, questa situazione è stata dovuta a una causa di forza maggiore, ma è bene osservare i limiti di queste modalità di incontro per trovare delle strategie affinché esse possano, invece, fungere da supporto, da potenziamento, di una certa attività. Vale lo stesso anche per quanto riguarda l’amministrazione pubblica. Il fatto di poter accedere a dei servizi online può rappresentare un’opportunità di semplificazione, ma solo se i servizi di persona permangono e vengono implementati affinché siano più efficienti. Altrimenti, l’utente – di fatto – viene caricato di una quota lavoro che in presenza viene assorbita nella relazione che si crea allo sportello tra fruitore ed erogatore del servizio. L’“opportunità”, dunque, non è quella dell’ammodernamento tecnologico tout court, ma di comprensione della complessità delle relazioni umane e di progettare gli strumenti digitali in modo che siano di supporto alle attività umane.
Si parla molto di rischi legati alla privacy, ma forse ce ne sono anche altri.
Il rischio è che dopo quella del Covid-19 ci sia anche una “pandemia del digitale” e che la situazione che stiamo vivendo possa abbassare le “difese immunitarie” che si stavano costituendo intorno agli strumenti digitali. Prima di questo periodo, infatti, stava crescendo la consapevolezza delle criticità dell’uso diffuso del digitale, e non solo tra gli addetti ai lavori. Bisogna essere consapevoli, infatti, che usando questi strumenti si cedono frammenti della propria vita ai grandi monopolisti delle piattaforme social, finendo – a conti fatti – a lavorare per loro oltre che a mettere in discussione la propria privacy. Il rischio è che queste criticità passino in secondo piano e che questo processo di acquisizione di consapevolezza in qualche modo si arresti, dato che durante la pandemia questi strumenti sono stati particolarmente utili a tutti noi e ci hanno permesso di far fronte a una situazione eccezionale.
Dovremmo osservare la vera natura di certi strumenti, il cui modello di business, anche al di fuori della pandemia, è basato precisamente su quello che viene definito “distanziamento sociale”. Questo accade con i social network, che vengono usati per interagire con altre persona nella solitudine della propria stanza, avendo di fronte solo lo schermo del proprio computer, ma accade lo stesso con il modello dettato da Amazon, secondo il quale è possibile avere qualsiasi cosa attraverso un click, senza più bisogno di andare fisicamente in un negozio e relazionarsi con un negoziante qui inteso – si pensi al caso dei librai! – come un esperto della cosa o dell’attività alle quali anche noi siamo interessati. Nell’atto di acquistare qualcosa entriamo in relazione con esperti e gruppi di pari, ma con il “modello Amazon” l’individuo è una monade. Lo stesso vale per lo smart working, che offre dei vantaggi soprattutto all’azienda, molto meno ai lavoratori e alle lavoratrici. Quindi il rischio è che l’eccezionalità del distanziamento umano al quale ci ha costretto la pandemia diventi un elemento costitutivo del modo in cui si utilizzano le tecnologie digitali nella società.
Quali sono gli “effetti collaterali” dello smart working?
Uno dei rischi dello smart working è l’intersezione invasiva tra tempo-di-vita e tempo-di-lavoro, tant’è che oggi si parla molto di “diritto di essere disconnessi”. Anche per lo smart working, dunque, andrebbe avviata una negoziazione o una contrattazione che tenga conto di questa realtà, tant’è che anche il sindacato inizia a interessarsi di questi aspetti. L’altro fatto da tenere presente è quello dell’individualizzazione del lavoro. Il paradigma del neoliberismo è quello di un lavoratore che vende il suo lavoro, ma nel farlo non si confronta con altri con competenze simili. Il risultato è che tutti, pur lavorando per la stessa azienda, sono soli e l’azienda somiglia sempre di più a una piattaforma di reclutamento sullo stile dei “lavori a richiesta”. Per ovviare a questa degenerazione del lavoro e della vita lavorativa, si sta pensando a nuove forme di co-working, spazi pubblici all’interno dei quali (naturalmente rispettando gli standard sanitari) persone possono incontrarsi e lavorare da remoto senza essere relegati (e, paradossalmente, “disconnessi”) nella propria abitazione. Sono luoghi in cui si incontrano persone che fanno un lavoro simile al proprio, e che possono essere utili per ricostruire – anche nel caso in cui non si lavori per la stessa azienda – la socialità dei lavoratori e delle lavoratrici per via orizzontale, al tempo stesso rivitalizzando i quartieri cittadini o i piccoli centri.
Anche nelle scuole la lezione a distanza rende evidente l’impoverimento nel rapporto educativo che si instaura in presenza. Ben diverso sarebbe se il mezzo tecnologico venisse usato in supporto di tale relazione. Insegnanti e alunni hanno bisogno di uscire di casa, anche perché restare a casa iper-connessi per troppo tempo è un elemento di indebolimento delle capacità di apprendimento dei ragazzi. La didattica online è interessante se va a integrare la didattica in presenza. Oltretutto utilizzando le grandi piattaforme tecnologiche si vanno ad arricchire ulteriormente i monopolisti dei contenuti didattici trasmessi. Qualunque lezione online viene incamerata e contribuisce ad arricchire l’enorme mole di dati che queste aziende usano per i propri fini.
In che modo gli utenti finiscono per lavorare inconsapevolmente per i “grandi monopolisti”?
Google, Facebook e altre piattaforme offrono dei contenuti che solo apparentemente sono gratuiti. Del resto, se fosse vero, come farebbero queste aziende a fare tanti di quei profitti da essere diventate le più grandi e con più capitalizzazione di borsa del mondo? I loro ricavi provengono dalla raccolta dei dati personali che milioni di utenti forniscono gratuitamente attraverso l’utilizzo di tali piattaforme. I dati vengono poi venduti alla agenzie pubblicitarie, ad aziende che sulla base di questi dati elaborano previsioni per progettare e vendere i propri prodotti. Poi ci sono i casi anche di aziende che utilizzano i dati per manipolare l’opinione pubblica. L’obiettivo di quello che viene definita come “profilazione” è fare marketing personalizzato, per offrire a ciascun utente quello che è probabile o prevedibile che pensi, desideri o a cui possa essere sensibile. Ogni mail, ogni post, ogni like contribuiscono a creare un profilo personale e un’enorme quantità di dati che individuano la persona con precisione per prevedere quello che potrà fare, comprare, votare. Questo è il modo attraverso il quale le piattaforme social fanno enormi profitti. Quando qualcosa è gratis, la merce siamo noi. Anche la didattica online non si sottrae a questa dinamica, dato che va ad arricchire il patrimonio informativo di queste aziende con i contenuti didattici che vengono trasmessi, ma anche con le reazioni degli studenti e delle studentesse.
Non sarebbe utile allora che i governi sviluppassero per la didattica a distanza delle piattaforme pubbliche? Sarebbe un investimento importante per integrare la didattica a distanza.
Ci sono alcuni istituti e università come il Politecnico di Torino, in cui sono state elaborate alternative del genere e ci sono associazioni che stanno provando a fornire questi strumenti alle scuole. Per quanto riguarda la scuola, normalmente si dice che bisognerebbe “colmare il digital divide”, e solitamente si pensa di farlo fornendo dei computer, una rete, o – in generale – uno strumento. In realtà il vero digital divide sta nel fatto che questi strumenti vengono usati senza consapevolezza.
Quindi contrastare il digital divide, soprattutto nel momento in cui si è costretti a fare scuola a distanza, dovrebbe significare fare formazione critica su questi strumenti, ovvero insegnare a chi li usa cosa c’è dietro il loro uso. Stante l’inevitabilità dell’utilizzo di questi strumenti, è necessario essere coscienti delle conseguenze per imparare a evitarle o quantomeno mitigarle. Un esempio su tutti: è necessario riabituarsi a leggere le condizioni di utilizzo dei contenuti digitali e comprendere cosa implica l’accettazione delle voci indicate, prima di fruire di un contenuto.
Lo scorso 6 aprile l’Istat ha rilasciato un rapporto dal titolo Spazi in casa e disponibilità di computer per bambini e ragazzi in cui, parlando di tele-scuola, emergeva la necessità da parte del Governo di fornire risorse per poter fare accedere più persone alla banda e all’acquisto dei supporti.
È necessario però che una quota di queste risorse venga indirizzata a una formazione critica e consapevole. Dopo aver comprato il computer bisogna spiegare come difendersi da esso.
Nella scuola spesso si incontrano insegnanti che non hanno molta consapevolezza dell’uso del digitale, non solo critica, ma anche basilare.
Bisogna formare gli insegnanti su come si usano questi strumenti perché altrimenti trasmetteranno informazioni solo di tipo strumentale. Il digitale non deve essere insegnato come una tecnologia “neutra”, ma come una tecnologia utile e al tempo stesso rischiosa e non solo per gli aspetti che concernono i fenomeni come il cyber-bullismo, ma per i meccanismi che sono insiti nello strumento. Ci sono organizzazioni, come il Collettivo Ippolita, che da molti anni lavornoa nelle scuole per far crescere questo tipo di consapevolezze, chiaramente non predicando l’“astinenza”, ma mostrando gli effetti dell’utilizzo di strumenti tecnologici. Dando degli strumenti di orientamento, si può consentire agli studenti e alle studentesse di farne un uso alternativo. «La tecnologia non è né buona né cattiva, ma nemmeno neutrale» diceva Melvin Kranzberg. Esprimere apprezzamento per qualcosa con un like è una modalità povera per interagire con il digitale. Allo stesso modo bisognerebbe progettare nuovi strumenti digitali che consentano lo scambio orizzontale tra i ragazzi perché il modello educativo non può essere quello secondo il quale si interagisce solo con il o la docente e mai con il gruppo di pari. È auspicabile dunque una maggiore collaborazione tra chi usa gli strumenti e chi li progetta.
In che modo la sua riflessione si è interlacciata con quella del Forum sulle Disuguaglianze e le Diversità?
Ho trovato nel Forum una convergenza di pensiero nella riflessione sul fatto che le tecnologie digitali possono essere, e sono già, causa di crescente disguaglianza sociale, e che un modo per evitarlo è occuparsi non solo della possibilità di accedere agli strumenti, ma anche di far crescere la consapevolezza delle conseguenze del loro utilizzo. Lo scopo non è né demonizzare né incensare l’utilizzo della tecnologia, ma essere consapevoli del mezzo che si sta usando.
[pubblicato su Confronti 09/2020]
Giulio De Petra
Esperto di innovazione tecnologica nelle pubbliche amministrazioni, direttore del Centro per la Riforma dello Stato (Crs), fa parte del Forum sulle Disuguaglianze e le Diversità