Home Diritti Iran, maschi e femmine. La questione di genere non è una sola

Iran, maschi e femmine. La questione di genere non è una sola

di Luciana Borsatti

di Luciana Borsatti. Giornalista e scrittrice

Ma davvero anche in Iran il maschio è in crisi? Proprio nel Paese dove sembrano dominare il modello militare dei Pasdaran o l’autoritarismo patriarcale o la legge dei mullah sulle coscienze? Dove i murales raccontano ancora i martiri della guerra Iran-Iraq emulati, più di recente, dagli eroi della lotta contro l’Isis in Siria e in Iraq? A discutere questa prospettiva – che si inserisce in un filone accademico che si interroga proprio sulle trasformazioni dell’identità maschile – sono in particolare gli uomini intervistati da una giovane studiosa, Rassa Ghaffari, ospite di una delle più recenti Conversazioni sull’Iran organizzate da Antonello Sacchetti e riascoltabili sul sito www.diruz.it. In quelle video-dirette a più voci, nate quasi per caso durante il lockdown e che stanno ormai dando un quadro sempre più articolato dell’Iran, si è dunque affacciata anche la “questione maschile”. Preceduta, in ordine di apparizione, da un pregevole intervento dell’iranista e islamologa Anna Vanzan, che ha volutamente scelto di parlare non di “femminismo”, ma di “femminismi” islamici.

Dalla docente dell’università veneziana di Ca’ Foscari (autrice di numerosi libri fra cui Donne d’Iran tra storia, cultura e politica (Aseq IPO, 2019), Diario Persiano. Viaggio sentimentale in Iran (Mulino, 2017); Le donne di Allah, viaggio nei femminismi islamici (B. Mondadori, 2013) si è dunque appreso che del pensiero sulla parità di genere esistono in Iran molteplici declinazioni. Le quali affondano le radici non solo nelle correnti laiche e di sinistra del movimento rivoluzionario o nel modello occidentale, ma anche nel dibattito interno ai seminari dell’islam sciita. E si è appreso anche che portare il velo (se non il chador) non è solo un adeguarsi ad un obbligo di legge, ma può anche essere una libera e convinta scelta, da parte di donne  religiose ma magari perfettamente in grado anche di contestare, Corano e fonti sacre alla mano, le interpretazioni più tradizionaliste degli studiosi maschi. Ma se in tal caso di “femminismo” islamico si vuole parlare, tornando a quanto evidenziato da Anna Vanzan, anche questo è appunto plurale, perché diverse possono essere le posizioni tra quelle donne e studiose che – come tante donne cattoliche o cristiane critiche della chiesa ufficiale – scelgono di restare nell’islam, ma contestano dall’interno i pilastri dottrinari dell’establishment.

Fra le donne intervistate nel mio libro L’Iran al tempo di Trump (Castelvecchi, 2018), per esempio, vi è una donna giunta al grado di hojjatoleslam (il più alto nella gerarchia del “clero” sciita che possano raggiungere le donne) la quale, avvolta in un chador chiaro come nella tradizione iraniana prima della rivoluzione, sottolineava come il pensiero giuridico restasse influenzato dagli uomini e come istituire per legge l’obbligo del velo dopo la rivoluzione fosse stato un errore. Convinzione dunque di un’alta esponente del clero iraniano, cioè degli studiosi di diritto islamico, ma che certo trova poco ascolto ai vertici della Repubblica islamica. Al punto che a diverse ragazze che nel 2018 avevano aderito, togliendosi il velo in pubblico, al movimento lanciato dall’attivista iraniana all’estero Masih Alinejad sono state inflitte pesanti condanne in carcere: fino a 23 anni per esempio (10 quelli effettivi da scontare) quelli per Mojgan Keshavarz, per una serie di accuse tra cui quella di favorire l’immoralità e la prostituzione. Senza dimenticare le condanne fino a 38 anni di carcere (12 effettivi) inflitte all’avvocata per i diritti umani Nasrin Sotoudeh, che fra l’altro aveva assunto la difesa anche di alcune di queste ragazze. E che dalla sua cella di Evin da oltre un mese è in sciopero della fame, contro le condizioni carcerarie e per il fatto che a molti prigionieri di coscienza sono stati negati la liberazione o i domiciliari concessi invece a decine di migliaia di prigionieri a causa del Covid-19. 

Ma appunto la realtà iraniana è anche altro, rispetto alla sola contrapposizione tra un sistema repressivo da una parte e un universo femminile variamente acquiescente o ribelle dall’altro. La società è diversificata e complessa, ci sono donne sinceramente religiose e altre che non vedono nel velo il principale ostacolo contro cui combattere, ma agiscono per una maggiore parità di diritti su altri fronti. Magari evitando di definirsi “femministe”, termine che in Iran (proprio per la sua genesi in Occidente) non ti fa certo srotolare davanti i tappeti rossi. Anzi, questa parola – del resto quasi in disuso pure da noi – ormai le attiviste per i diritti delle donne cercano proprio di evitarla,  per non incorrere magari in accuse di fiancheggiamento di movimenti ostili all’estero.

Ma al tempo stesso agiscono nel sociale, come individui o tramite realtà associative, per intervenire là dove maggiori sono le difficoltà o l’emarginazione: agiscono insomma sul terreno, come le tante donne iraniane che sono sempre presenti nello spazio pubblico, dalla scuola all’università e al lavoro. Lavoro dove sono perfettamente in grado anche di occupare posizioni di vertice, visto che sono il 60% della popolazione universitaria, se i soffitti di cristallo o la crisi economica non le respingono in ruoli più marginali o tra le mura domestiche della disoccupazione. Nell’autunno 2019 le donne erano un quinto della forza lavoro nell’autunno 2019, secondo le statistiche ufficiali iraniane riportate da un recente articolo di Al Monitor dal titolo COVID-19 and the marginalization of Iranian women, ma il tasso di disoccupazione femminile era il doppio di quella maschile, cioè il 17% contro il 7,9. Nella primavera 2020, in piena pandemia, circa un milione e mezzo di persone avevano perso il lavoro, ma fra loro le donne erano il 45%. Insomma, le donne sono state le prime a subire gli effetti prima della crisi economica e poi della pandemia, ma è difficile pensare – valuta l’autore dell’articolo, Ali Dadpay – che saranno le prime destinatarie di politiche attive per l’occupazione una volta che l’economia potrà ripartire.

Essere maschi a Teheran, l’identità incerta

Comunque sia, la situazione delle donne in Iran e i movimenti che operano per maggiori diritti sono ben lontani da ogni semplificazione. E ugualmente si presta a sparigliare le carte anche la ricerca della giovane Rassa Ghaffari, nata a Genova da genitori iraniani a approdata in Iran per studiare le trasformazioni nei ruoli e nelle identità di genere di due generazioni della classe media di Teheran: la prima nata negli anni Sessanta, e che ha vissuto la rivoluzione e la guerra Iran-Iraq, e la seconda che ha visto la luce negli anni Novanta. Identità maschili che vanno “oltre” quelle dei martiri e dei mullah,  quelle su cui la ricercatrice ha indagato per tutto l’arco del 2018 – un anno in cui le sanzioni e la politica di massima pressione della Casa Bianca hanno cominciato a mordere forte sull’economia iraniana, aggiungendo altro senso di instabilità e di incertezza in una società abituata da decenni a non contare troppo su un futuro di prosperità e pace. Identità maschili dunque rese ancora più incerte dal restringersi del mercato del lavoro, se è vero che trovare occupazione «per un uomo è la cosa più importante della sua vita, ancor più del matrimonio», dice un “figlio della rivoluzione” di 27 anni, disoccupato.

Le giovani leve della Repubblica islamica non hanno visto la guerra in trincea né i missili di Saddam, ma hanno grande familiarità con i modelli estetici e gli stili di vita dei loro coetanei occidentali: frequentano palestre e talvolta si fanno la rinoplastica per aggiustare un naso troppo “iraniano” proprio come le loro ragazze. Sono sensibili al tema della parità di genere e, come dice un altro giovane intervistato, la maggior parte si dichiara femminista, anche se alla resa dei conti solo un terzo dimostra di esserlo veramente. Al tempo stesso, fa pensare lo studio, pochi si riconoscono nel modello del “martire” caduto per la patria, mentre molti odiano i due anni di servizio militare obbligatorio. Rivelatore l’episodio in cui un giovane in servizio di leva, incontrato dalla ricercatrice in uno dei tanti caffè alla moda della capitale, le indica altri avventori palestrati e ricercati nel vestire e le dice: «vedi, quelli non saranno mai in grado, se necessario,  di difendere la patria». Eppure anche lui appartiene alla classe media e vive nell’agiata Teheran nord: una frase dunque su cui riflettere, la sua, per chi si interroghi su quanto il nazionalismo possa ancora tenere insieme una nazione di fronte all’eventualità di una minaccia esterna, nonostante il malessere per le promesse mancate della Rivoluzione in termini di benessere e riscatto sociale, e per i diritti umani e le libertà individuali conculcati.

Comunque sia, i figli della rivoluzione negli anni Venti del nuovo millennio si arrangiano e provano ad inventarsi altri modelli, esattamente come i loro coetanei occidentali, rispetto ai loro genitori. E  questi ultimi, i figli degli anni Sessanta, come se la passano? Non troppo bene nemmeno loro, pare. Se la Repubblica islamica è nata in una società patriarcale dove il modello maschile era quello del maschio eterosessuale che doveva mantenere la famiglia, gli attuali 50-60enni ne hanno vista, di acqua, passare sotto i ponti. «Le donne lavorano e prendono tutte le decisioni per la famiglia – dice un imprenditore di 55 anni – talvolta mi sento come se fossi diventato solo uno che deve guadagnare soldi». Mentre i figli vivono in casa come fossero in un hotel, lamentano alcuni genitori, l’autorità paterna si affievolisce e i valori della tradizione si sgretolano: integrità, coraggio, senso della responsabilità e sacrificio hanno infatti ceduto il passo a individualismo, competitività, egoismi e propensione alla corruzione.

Poveri uomini alla fine, o almeno poveri molti di loro: almeno tra le mura degli appartamenti delle classi medie di Teheran i padri contano sempre di meno e i figli posticipano il matrimonio, cercando inedite strategie di vita per il loro  incerto futuro. E le donne, che nonostante le difficoltà nel mercato del lavoro si sono assunte sempre di più negli ultimi anni il ruolo di sostenere economicamente la famiglia (il 58% in più nell’ultima decade, sempre secondo l’articolo citato) decidono per sé e i familiari: anche se sono costrette a portare il velo, se trovano mille difficoltà quando vogliono il divorzio, se possono ereditare la metà dei loro fratelli e se la loro testimonianza vale la metà di quella di un uomo.

Succede tra le classi medie della capitale, certo, dove la ricercatrice ha ristretto il suo campo di ricerca, e il quadro è certamente diverso nelle aree rurali e marginali. Ma sono cambiamenti che fanno scuola, e dai quali è difficile tornare indietro.

Ph.  © Mehran Falsafi 

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Luciana Borsatti

Giornalista e scrittrice

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