di Goffredo Fofi. Scrittore, critico letterario e cinematografico, giornalista. Direttore della rivista Gli asini.
Quando il movimento del ‘68 era già morto e quello del ‘77 si perdeva in ideologismi precursori delle mode a venire mi legai al movimento di Capodarco. Intorno a quel modello, sostanzialmente “socialista”, si sviluppò una piccola rete di casefamiglia. Una di queste fu fondata a Lecce da una donna di nome Teresa e da suo marito.
Quando il movimento del ‘68 era già morto e quello del ‘77 si perdeva in ideologismi precursori delle mode a venire, tra simpatie estremistiche e intellettualismi “parigini” – parlo dei primi anni Ottanta – mi fu giocoforza costatare che il poco di buono che restava in piedi di quella stagione era quello che, con alcuni amici della rivista Linea d’ombra, ci abituammo a chiamare “il ‘68 dei cattolici” (senza togliere nulla alla solida resistenza di tanti valdesi che si riconoscevano per esempio in Gioventù evangelica: il discorso riguardava evidentemente anche loro).
Cosa voleva dire, questo, se non che soltanto i militanti di salda dirittura morale e di conseguenza di saldi valori civili, grazie alla loro base solidamente cristiana, avevano saputo resistere ai colpi della storia, alle sconfitte brucianti e secche non solo del ‘68 ma di tutti i movimenti di rivolta degli anni post-‘45. E di tutte le rivoluzioni che erano state tuttavia vittoriose come l’indiana e la cinese e, poco tempo dopo, quelle africane, quella cubana, causa la forza immane del nemico ma anche, spesso, le interne contraddizioni.
Il nemico era molto più forte di quanto non sospettassimo, e si annidava anche nei nostri opportunismi, spingendoci a cedere, a desistere. Ci fu anche chi parlò di “elogio della lentezza”, dopo gli anni dell’impazienza, e non mi fu affatto simpatico. Fu così che, cercando cercando, mi accadde di riagganciarmi a gruppi dell’intervento sociale, non solo di matrice religiosa, come spazio della possibile continuazione di una ricerca che continuava a starmi a cuore, che consideravo tuttavia indispensabile, di cambiamento: di giustizia, di solidarietà.
Qualcosa che potessimo ancora chiamare “rivoluzione”.
Mi legai in quel tempo con facilità, dati i miei precedenti di maestro e di assistente sociale, al movimento di Capodarco, che era stato fondato anni prima da alcuni animosi sacerdoti nel corso di un pellegrinaggio a Lourdes, proprio intorno al ‘68, e dai disabili che essi accompagnavano.
È una storia ancora da scrivere, che ha prodotto da Nord a Sud a partire dalla prima nata nel piccolo paese di Capodarco, in provincia di Fermo nelle Marche meridionali, delle comunità molto attive, nelle quali ho avuto la fortuna di operare anch’io, da “compagno di strada” più che da militante o da responsabile.
Intorno a quel modello, sostanzialmente “socialista”, si sviluppò una piccola rete di case-famiglia dove dei volontari si occuparono e continua fortunatamente a occuparsi di disabili, di malati, di infanzia e di adolescenza a rischio, di immigrati, riconoscendosi in un organismo nazionale, il Cnca.
A Lecce una coppia non poi così insolita, lei paraplegica di grande intelligenza e lui un volontario appassionato di campagna, si innamorarono e si sposarono, e fondarono una casa-famiglia. Teresa, sposata Colì, vi mise al mondo due fanciulle deliziosamente sane. In quella casa fui accolto fraternamente ogni volta che scendevo a Lecce, e diventò una delle mie molte famiglie.
Lì divenni amico, per esempio, di Lucio, un ragazzo sui vent’anni o poco più che era stato un piccolo boss mafioso della zona e che era destinato a molta carriera se non si fosse schiantato correndo sulla sua modernissima auto, una notte, contro un albero o un muro. Lucio era rimasto
completamente paralizzato, meno il volto, e da arrogante e pieno di vita si era trasformato in un corpo morto ma dotato di un cervello perfettamente attivo.
Gli era rimasta una sola consolazione, le cassette musicali con le canzoni di Nino D’Angelo. Essendo amico di Nino gli feci un regalo: chiesi a Nino che, nel concerto estivo che avrebbe dovuto tenere in un parco leccese, dove la comunità portò Lucio in lettiga sistemandolo presso al palco, chiesi a Nino di dedicargli, nome e cognome, una canzone. Nino è persona sensibile e generosa e lo fece, dando a Lucio la più bella soddisfazione, disse, della sua seconda vita.
Lucio morì poco dopo, molti anni fa, mentre la Grande Teresa è morta ad aprile, ma i suoi funerali sono stati fatti soltanto a metà luglio, per via del Coronavirus. Che bella famiglia era riuscita a costruire Teresa col suo splendido sposo agricoltore e prezioso artigiano! Che casa accogliente era quella di cui è stata regina, per gli ospiti della casa-famiglia alla pari che per la sua stessa famiglia, e per tanti amici come me.
Ma per fortuna questo di Lecce non è un caso affatto raro, e potrei ricordarne, per mia grande fortuna, molti altri che conosco e che in qualche modo gli somigliano.
[pubblicato su Confronti 09/2020]

Goffredo Fofi
Scrittore, critico letterario e cinematografico, giornalista. Direttore della rivista Gli asini.