di Enzo Nucci. Corrispondente della Rai per l’Africa subsahariana
Lo scorso 18 agosto i militari sono stati molto abili nel cavalcare il diffuso malcontento popolare portando a termine il putsch – che ha portato alla deposizione del presidente del Mali Ibrahim Boubakar Keita – senza spargere una sola goccia di sangue. Dopo poco più di un mese non ispirano più la stessa fiducia, ma dai segnali che arrivano non sembrano disposti a cedere il potere.
I più preoccupati sono proprio i leader delle nazioni che aderiscono all’Unione Africana (Ua). Dall’organizzazione è trapelata infatti una apodittica presa di posizione diffusa da Radio France Internationale: «È importante non far passare il messaggio secondo cui un colpo di stato possa essere un metodo accettabile. I capi di stato africani temono il contagio». È un ulteriore e più autorevole sostegno a quanto già espresso dall’Organizzazione Economica degli stati dell’Africa occidentale (Ecowas).
Ecco spiegata la “straordinaria mobilitazione” della leadership continentale per le vicende politiche che riguardano il Mali, dove lo scorso 18 agosto un colpo di stato incruento dell’esercito ha portato alla deposizione del presidente Ibrahim Boubakar Keita. Non a caso il giorno successivo al golpe l’Ua ha sospeso l’ex colonia francese dall’organizzazione.
I militari sono stati molto abili nel cavalcare il diffuso malcontento popolare portando a termine il putsch senza spargere una sola goccia di sangue.
I militari sono stati molto abili nel cavalcare il diffuso malcontento popolare portando a termine il putsch senza spargere una sola goccia di sangue. Ma dopo poco più di un mese non ispirano più la stessa fiducia, anzi dai segnali che arrivano non sembrano disposti a cedere il potere.
La giunta militare ha infatti avviato consultazioni con gruppi della società civile e partiti per formare un governo ad interim che con la promessa di garantire la rappresentatività sociale dovrà traghettare il Mali verso nuove elezioni entro 18 mesi. L’ipotesi è stata giudicata positivamente anche dall’Unione Africana ma a fermarne il cammino è stata la condizione posta dai militari di designare il presidente da scegliere tra i propri vertici.
La sollevazione dell’esercito è arrivata al culmine di proteste popolari (analoghe a quelle algerine e sudanesi) che hanno infiammato la nazione africana a partire da giugno. Nel mirino la classe politica al potere corrotta e incompetente, la povertà diffusa e l’insicurezza. A guidare le enormi manifestazioni di piazza due imam radicali che (sebbene con impercettibili distinguo) non nascondono l’obiettivo finale di arrivare ad applicare la shari’a, ovvero la legge islamica.
Il Mali resta un rompicapo complesso e doloroso anche per la comunità internazionale. Dal 2014 la Francia (determinata a conservare la sua enorme influenza mai abbandonata da quando nel 1960 concesse l’indipendenza alla sua colonia) è impegnata in una missione militare nel nord dove divampa una feroce guerra sommersa contro i terroristi islamisti.
Mentre le Nazioni unite schierano 16 mila soldati (provenienti da 57 paesi) per la stabilizzazione dell’area senza risultati apprezzabili. Con la dissoluzione del regime libico guidato da Gheddafi, il nord del Paese è diventato la comoda e sicura culla dell’insurrezione islamista internazionale, neanche scalfita dagli interventi militari di Francia, Stati Uniti e Gran Bretagna nel 2011.
Il Mali di questo passo rischia di diventare un tassello fondamentale nel puzzle che da tempo cerca di comporre il terrorismo islamista.
Con la caduta del colonnello libico, le milizie che lo supportavano (in particolare i tuareg) si sono riforniti generosamente di armi nei suoi arsenali prima di far ritorno nei loro territori di origine, nei deserti nel nord del Mali. A diffondere il malcontento tra l’esercito maliano hanno contribuito le basse paghe e gli equipaggiamenti inadeguati. E così sono stati costretti a subìre molte umiliazioni in battaglia.
Il Paese inoltre è profondamente cambiato dalla indipendenza ottenuta 60 anni fa. La pratica di un islam sempre più radicale ha cancellato le caratteristiche laiche della società con una accelerazione sempre più profonda a partire dal 1991.
Se a dividere oggi i militari da partiti e società civile è la designazione del presidente ad interim, ad unire invece tutti questi soggetti è la comune volontà di mandare via dal paese le forze militari internazionali, giudicate alla stregua di eserciti di occupazione.
Non a caso i golpisti hanno avviato contatti con i tuareg (fino al 18 agosto combattuti perché nemici giurati) per coinvolgerli insieme ai leader religiosi in un comune obiettivo politico: la cacciata degli stranieri.
Questa ipotesi getta nel panico la comunità internazionale. Il Mali di questo passo rischia di diventare un tassello fondamentale nel puzzle che da tempo cerca di comporre il terrorismo islamista. Insomma il paese potrebbe trasformarsi nella nuova testa di ponte di un califfato jahidista da tempo vagheggiato dai terroristi.
[pubblicato su Confronti 10/2020]
Enzo Nucci
Corrispondente della Rai per l’Africa subsahariana