di Fulvio Ferrario. Professore di Teologia sistematica e Decano della Facoltà valdese di teologia di Roma.
Ormai è un fatto risaputo: la decrescita delle Chiese in Europa è ben lontana dall’aver toccato il fondo. Se per molte persone il cammino di allontanamento è irreversibile, per altre un riavvicinamento con la Chiesa è possibile attraverso una pastorale da progettare.
Le statistiche sono note e ne abbiamo parlato più volte anche in questa sede: l’Europa cristiana ha cessato di esistere e la “decrescita”, come viene chiamata, delle Chiese è ben lontana dall’aver toccato il fondo.
Per Chiese come ad esempio quelle evangelica e cattolica in Germania che, complessivamente, hanno perso oltre il 30% dei propri membri nel giro di pochi decenni, e si apprestano a perdere più o meno la metà di quelli rimasti, il contraccolpo è grave: sul piano organizzativo e finanziario, ma anche su quello psicologico. In alcuni paesi (Repubblica ceca, Olanda, diversi cantoni svizzeri), la situazione è anche più drammatica, in altri meno, ma la tendenza è generale.
In una fase così difficile, sarebbe però utile unire all’analisi giustamente spaventata dell’emorragia uno sguardo al bicchiere “mezzo pieno”.
In una fase così difficile, sarebbe però utile unire all’analisi giustamente spaventata dell’emorragia uno sguardo al bicchiere “mezzo pieno”: non, come dicono gli sciocchi, perché «bisogna sempre essere ottimisti», che in questo caso significherebbe ignorare una catastrofe che non è “imminente”, ma in atto da un pezzo; bensì perché tale sguardo potrebbe suggerire misure per circoscrivere, almeno in parte, la gravissima malattia della quale soffrono le chiese del nostro continente.
Prendendo ancora come riferimento la Germania, il “bicchiere mezzo pieno” può essere descritto così: a oggi, i membri delle due grandi chiese tedesche assommano a circa il 50% della popolazione di quel grande Paese.
Nessuna organizzazione, di nessun tipo (partiti, sindacati, associazioni varie) può ambire, nemmeno lontanamente e nemmeno sommando tutte le sigle sul mercato, a numeri di tal genere.
Le Chiese cristiane dispongono dunque, pur nel pieno della più grande crisi numerica della loro storia, di un potenziale immenso; e anche in questo caso, ciò si può affermare, pur con diverse percentuali, di tutti i paesi europei occidentali.
L’elemento di debolezza è nel fatto che la stragrande maggioranza di questi cattolici e, ancor più, protestanti, si tiene bene alla larga dalla vita delle comunità: praticamente in nessun Paese la frequenza media al culto domenicale raggiunge il 20%, a volte scende fino al 3% (dei membri, non della popolazione!). Naturalmente, è in questa area “distanziata” che si collocano le persone che poi se ne vanno anche formalmente.
L’elemento di debolezza è nel fatto che la stragrande maggioranza di questi cattolici e, ancor più, protestanti, si tiene bene alla larga dalla vita delle comunità.
In particolare, dove l’appartenenza alla Chiesa è legata a un’imposizione fiscale, un rapporto debole con la comunità conduce facilmente alla decisione di tagliare il costo costituito dalla “tassa ecclesiastica”.
Le ricerche sociologiche mostrano infatti che le uscite raramente sono legate a drammatiche crisi di fede, di solito semplicemente alla presa d’atto del dissolversi della motivazione.
Se li leggo bene, mi pare che i dati offrano un’indicazione pastorale limitata, ma chiara. La priorità, per le chiese, sembra consistere nel tentare di ridurre l’area che potremmo chiamare dell’“indifferentismo interno”. Si tratta di persone che conoscono, sia pure superficialmente, i linguaggi della fede, che non hanno un atteggiamento ideologicamente avverso al messaggio cristiano e che in qualche modo sono «note all’ufficio» e dunque raggiungibili, in varie forme.
In molti casi, il cammino di allontanamento risulterà comunque irreversibile; ma è ragionevole pensare che persone che finora hanno mantenuto una relazione, per quanto debole, con la Chiesa possano essere incontrate da una pastorale che, certo, va progettata.
Modalità comunicative nuove finiranno per condurre a comunità diverse da quelle che conosciamo, per quanto riguarda sia le dinamiche interne, sia le modalità di presenza sociale: chi però conosca, anche superficialmente, la storia del cristianesimo, sa che simili trasformazioni costituiscono non l’eccezione, bensì la norma.
Individuare una priorità nella ricerca delle “pecore perdute ma non troppo” non vuol dire, evidentemente, rimuovere l’esigenza di interloquire con chi oggi, in Europa, ritiene che il cristianesimo sia semplicemente morto: un proclama, del resto, non precisamente inedito.
Tale missione ai pagani, però, può essere condotta solo da Chiese più profilate e più compatte. Se fossero tali, il loro significativo ridimensionamento non costituirebbe necessariamente l’anticamera del decesso.
[pubblicato su Confronti 11/2020]

Fulvio Ferrario
Professore di Teologia sistematica e Decano della Facoltà valdese di teologia di Roma