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Un premio, un segnale

by Raul Caruso

di Raul Caruso. Economista, Università Cattolica del Sacro Cuore (Milano). Direttore del Center for Peace Science Integration and Cooperation (CESPIC) di Tirana.

A vincere il premio Nobel per la pace quest’anno è stato il World Food Program, un’agenzia delle Nazioni unite la cui missione è quella di intervenire in contesti di grave insicurezza alimentare. Un segnale importante in favore delle organizzazioni che lavorano per i diritti fondamentali.

In questo anno caratterizzato dalla pandemia Covid-19, si ponevano grandi interrogativi su chi avrebbe ricevuto il premio Nobel per la pace. L’ambito riconoscimento negli anni ha mantenuto la sua attitudine a divenire un punto focale per molti osservatori e per l’opinione pubblica globale a dispetto delle critiche sovente mosse ai beneficiari.

In questi ultimi anni peraltro, a partire dalla grande crisi finanziaria del 2008, conflitti armati, militarismo e contrazione della democrazia sono apparsi in crescita e le aspettative in questo senso in merito al post-pandemia non sono certamente delle migliori. E quindi non stupisce che in particolare quest’anno tale riconoscimento fosse particolarmente atteso. A ricevere il premio è stato il World Food Program.

Il World Food Program è un’agenzia delle Nazioni Unite la cui missione è quella di intervenire in contesti di grave insicurezza alimentare. Inutile dire che l’attività contro la fame non può che essere particolarmente intensa in territori dilaniati dai conflitti armati. Questa associazione tra fame e conflitti è sufficiente a spiegare questo riconoscimento. Se ci fermassimo a questo, tuttavia, daremmo una spiegazione scontata se non palesemente oleografica. La sensazione è che il premio sia più un segnale che un riconoscimento.

Indicare un’agenzia dell’Onu come beneficiaria di un premio così prestigioso infatti non può costituire solo un riconoscimento dell’attività svolta ma è sicuramente anche un invito alla comunità internazionale e all’opinione pubblica globale a sostenere nuovamente e con maggiore intensità le istituzioni globali che lavorano per dare forma, tutela e pubblicità a diritti fondamentali dell’umanità. In altre parole, i membri del comitato Nobel hanno voluto lanciare un segnale e un invito alle leadership mondiali a dare nuovo impeto e sostegno alle istituzioni globali che all’indomani della Seconda guerra mondiale hanno costituito le basi dell’ordine liberale mondiale.

Il sistema Onu in particolare, pur con tutti i suoi difetti strutturali ed errori commessi, ha sempre rappresentato agli occhi del mondo l’organizzazione internazionale pienamente inclusiva, impegnata a realizzare avanzamenti dell’umanità a favore della pace.

Il ruolo dell’Onu, peraltro, è stato fondamentale durante le Guerra fredda come foro di dialogo tra le potenze rivali, oltre a rappresentare anche negli ultimi decenni un punto di riferimento normativo e regolamentare in tematiche quali il disarmo, il peacebuilding, la tutela dei diritti umani e lo sviluppo sostenibile.

A dispetto di ciò, il sistema Onu ha subito un processo di delegittimazione crescente. Questo andava di pari passo con un ritorno al passato che vede il ritorno al centro della scena gli stati sovrani secondo uno schema che ricorda il regime costituitosi in Europa a partire dalla Pace di Vestfalia del 1648. Ed infatti, non è un caso che negli ultimi anni abbiamo assistito alla moltiplicazione di leader “forti”, populisti, poco inclini alle prassi e alle consuetudini della cooperazione internazionale.

La pandemia ha da un lato svelato drammaticamente i limiti di questi approcci, ma quindi ha anche evidenziato la necessità di recuperare percorsi democratici e cooperativi a livello globale.
Questa è l’unica strada percorribile per tutelare i diritti umani e per costruire una pace duratura e foriera di benessere per un numero sempre più ampio di donne e uomini al mondo.

Per questo, il premio Nobel dell’anno 2020 deve considerarsi un “segnale” più che un riconoscimento. In questo senso, esso deve anche collegarsi al messaggio contenuto nella recente enciclica Fratelli tutti di Papa Francesco, pubblicata pochi giorni prima del Nobel.

Nell’enciclica, infatti, si auspica chiaramente un cambio di rotta nelle relazioni internazionali e un processo di riforma e rafforzamento del sistema Onu perché esso diventi realmente una famiglia di nazioni evitando la supremazia di pochi Paesi ricchi e potenti su altri più poveri e vulnerabili.

In pratica, Papa Francesco con la sua autorevolezza, solo pochi giorni prima, aveva lanciato all’umanità il medesimo segnale. In queste settimane di pandemia, inviare questi segnali da parte di autorità religiose o civili dovrebbe apparire pletorico, ma purtroppo il rischio di nuovi processi di introversione da parte degli stati con conseguenti effetti sui conflitti, sulla diffusione della violenza e sulla violazione dei diritti fondamentali delle persone è molto elevato.

Non resta che augurarci che ai segnali del comitato del Nobel e di Papa Francesco se ne aggiungano così tanti da spingere i leader mondiali a investire nuovamente nelle istituzioni globali che, seppur imperfette, sono ancora presidi per la pace.

[pubblicato su Confronti 11/2020]

Raul Caruso

Raul Caruso

Economista, Università Cattolica del Sacro Cuore (Milano). Direttore del Center for Peace Science Integration and Cooperation (CESPIC) di Tirana.​

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