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Vaticano: l’arduo equilibrio tra Dio e mammona

by Luigi Sandri

di Luigi Sandri. Redazione Confronti

Appunti sulle ultime, complesse vicende economico-finanziarie della Santa Sede. La defenestrazione del cardinale Becciu, che si proclama innocente e chiede un processo. Quale il ruolo di Cecilia Marogna, pagata dall’ufficio del prelato per non chiarite competenze internazionali? Morte e risurrezione del cardinale australiano Pell, responsabile della Segreteria per l’economia, in dissenso da Becciu; dapprima accusato di pedofilia, e poi assolto. È possibile povertà evangelica e giustizia giusta se il papa rimane “sovrano assoluto” di un pur minuscolo Stato? Una contraddizione lacerante che supera la buona volontà personale e pone problemi storici e istituzionali di difficilissima soluzione per qualsiasi vescovo di Roma.

La legge fondamentale dello Stato della Città del Vaticano

«Il Sommo Pontefice, Sovrano dello Stato della Città del Vaticano, ha la pienezza dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario». Per inquadrare il pasticciaccio politico-economico-finanziario emerso a partire dal 24 settembre ad oggi, cioè in poco più di un mese, attorno alla basilica di san Pietro, e reso esplicito di fronte al mondo intero con le dimissioni di monsignor Giovanni Angelo Becciu anche dai diritti del cardinalato, ci sembra opportuno partire dal citato articolo 1.1 della nuova Legge fondamentale dello Stato della Città del Vaticano che, firmata da Giovanni Paolo II il 26 novembre 2000, sostituisce la precedente, che Pio XI emanò il 7 giugno 1929 per rendere operativi, in concreto, i Patti Lateranensi firmati cinque mesi prima, l’11 febbraio. 

 Fino al 1870, sessant’anni prima, il pontefice, ovviamente, era re anche nello Stato pontificio, che aveva una estensione di territorio significativa nell’Italia centrale. Distrutto del tutto, quello, dopo che il 20 settembre di quell’anno i piemontesi con la breccia di Porta Pia avevano posto fine al potere temporale dei papi, era dunque necessario, una volta creato il nuovo Stato della Città del Vaticano – un fazzoletto di terra di 44 ettari – delineare diversamente i poteri del Sovrano papa, adattandoli, se e ove necessario, alla nuova situazione.

 Prescindiamo, qui, dall’annosa valutazione degli storici su quei Patti: Achille Ratti portò pace nelle coscienze dei cittadini cattolici, risolvendo la “Questione romana”, ma al prezzo di spingere molti di essi a riconoscenza eterna verso il Fascismo che con Mussolini era arrivato alla meta sfuggita, prima, ad altri governi italiani? Soffermiamoci, invece, sul papa/sovrano assoluto; dunque su un problema giuridico. Novant’anni fa quell’approdo sembrava a tutti ovvio. Perciò, la Legge fondamentale del nuovo Stato, voluta da Pio XI, non poneva – salvo a ben rari critici – alcun problema di principio. Ma oggi?

 Introducendo la nuova Legge fondamentale, all’alba del XXI secolo Giovanni Paolo II affermava di aver «preso atto della necessità di dare forma sistematica ed organica ai mutamenti introdotti in fasi successive nell’ordinamento giuridico dello Stato della Città del Vaticano». Allo scopo, pertanto, di «renderlo sempre meglio rispondente alle finalità istituzionali dello stesso, che esiste a conveniente garanzia della libertà della Sede Apostolica e come mezzo per assicurare l’indipendenza reale e visibile del Romano Pontefice nell’esercizio della Sua missione nel mondo, di Suo Motu Proprio e certa scienza, con la pienezza della Sua sovrana autorità, ha promulgato la seguente Legge»…

Data la sua esigua estensione (il più piccolo Stato del mondo!), e la sua particolarità storica, religiosa e fattuale, non si possono fare paragoni plausibili con altri Stati che siano, in qualche modo, seppure alla lontana, quasi analoghi: nei secoli passati era ”normale” che i re avessero il potere assoluto; ma a poco a poco, almeno in Europa, il loro potere è stato temperato da Consigli della Corona e poi da parlamenti sempre più rappresentativi e dotati di autorità non più proveniente graziosamente dal sovrano, ma dalla volontà del popolo, attraverso libere elezioni. 

Una tale evoluzione non sembra affatto proponibile per lo Stato della Città del Vaticano. E, tuttavia, il pasticciaccio emerso in modo clamoroso Oltretevere, tra fine settembre e fine ottobre, suscita degli interrogativi ineludibili. 

Il papa amputa diritti cardinalizi sostanziali a Becciu

Alle 19,59 del 24 settembre (e, dunque, ad un’ora del tutto inconsueta per gli standard vaticani), la Sala stampa della Santa Sede emetteva questo comunicato: «Oggi il Santo Padre ha accettato la rinuncia dalla carica di Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi e dai diritti connessi al Cardinalato, presentata da Sua Eminenza il Cardinale Giovanni Angelo Becciu». 

 Il pontefice prese l’inattesa e asperrima decisione, convinto – si saprà poi, da voci ufficiose – che il prelato avesse compiuto, in passato, azioni improvvide, per non dire proprio sbagliate: e questo non nella sua carica attuale in Curia, ma nella precedente, di Sostituto della Segreteria di Stato, a tale alto grado chiamato nel 2011 da Benedetto XVI e in esso confermato da Francesco, fino al 2018, quando lo elevò alla porpora e lo nominò prefetto di una Congregazione preposta alle beatificazioni e canonizzazioni. 

Per la stampa, italiana e internazionale, a provocare l’ira del papa sarebbe stata la recentissima “scoperta” del coinvolgimento decisivo dell’allora Sostituto nella compra-vendita di un lussuoso palazzo in Sloane Avenue, 60, a Londra, operazione avviata nel 2012 da lui e da “faccendieri” legati a lui, utilizzando anche milioni dell’Obolo di san Pietro. Così si chiamano le offerte che una volta all’anno in tutte le diocesi e parrocchie cattoliche del mondo si raccolgono per aiutare la carità del papa. E in queste operazioni azzardate la Santa Sede ci avrebbe infine rimesso centinaia di milioni di euro. 

In tali operazioni sarebbero in qualche modo implicati, tra altri, monsignor Alberto Perlasca, allora braccio destro del Sostituto, ed Enrico Crasso, che l’inserto Economia del Corriere il 6/6/2020 aveva definito «gestore dell’Obolo di San Pietro e del patrimonio della Segreteria di Stato». I due hanno negato ogni addebito: il primo addossando tutte le responsabilità a Becciu, il secondo, invece, difendendolo. Come stanno le cose? Starà alla magistratura sbrogliare un gomitolo assai intricato.

Pignatone, presidente del Tribunale dello Stato della Città del Vaticano

Occorre, intanto, partire da un dato: la vicenda londinese non è venuta allo scoperto nell’autunno del 2020, ma già un anno fa, seppure, allora, non in tutti i suoi risvolti. Il primo ottobre 2019 un comunicato ufficiale vaticano, infatti, informava: «Questa mattina sono state eseguite, presso alcuni Uffici della I^ Sezione della Segreteria di Stato e dell’Autorità di Informazione Finanziaria [AIF] dello Stato, attività di acquisizione di documenti e apparati elettronici. L’operazione, autorizzata con decreto del Promotore di Giustizia del Tribunale, Gian Piero Milano e dell’Aggiunto Alessandro Diddi, e di cui erano debitamente informati i Superiori, si ricollega alle denunce presentate agli inizi della scorsa estate dall’Istituto per le Opere di Religione [IOR, la “banca” vaticana] e dall’Ufficio del Revisore Generale, riguardanti operazioni finanziarie compiute nel tempo».

I media sottolinearono la singolarità del provvedimento, che lasciava supporre, pur senza indicare precisi responsabili, che qualche cosa di torbido e gravemente anomalo fosse accaduto in qualche settore economico-finanziario vaticano.

Poi, il 3 ottobre la Sala Stampa informava che quel giorno Francesco aveva ricevuto in udienza Becciu. Un fatto che sembrò di routine. Lo stesso giorno il papa nominava il dottor Giuseppe Pignatone come presidente del Tribunale dello Stato della Città del Vaticano. L’eletto – siciliano, classe 1949 – era ed è una personalità di primo piano nel campo giuridico, da sempre impegnato nella lotta alla mafia. Nel 2008 il Consiglio superiore della Magistratura lo aveva nominato Procuratore della Repubblica di Reggio Calabria e, quattro anni dopo, Procuratore della Repubblica di Roma. Era in pensione da maggio 2020. I giornali scrissero che, con la sua scelta, Bergoglio dimostrava di voler sradicare eventuali germi mafiosi in Vatican

Becciu, accusato di peculato, è punito davvero?

Alcuni giorni dopo che l’ex Procuratore è entrato Oltretevere, sui media scoppia l’affair britannico, definito “opaco” dal cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato, suscitando con quella “etichetta” un’infastidita replica dell’ex Sostituto. Ma perché, nel 2020, l’improvvisa accelerazione mediatica e fattuale della vicenda? Perché solo adesso emergeva un’inquietante ipotesi: Becciu, aveva forse aiutato i suoi fratelli, con i soldi del Vaticano? 

A sostenerlo era L’Espresso che nel primo pomeriggio di giovedì 24 settembre 2020 anticipava alle agenzie un servizio della rivista che sarebbe arrivata nelle edicole la domenica 27. Secondo il settimanale, egli avrebbe aiutato i suoi fratelli a fare affari, anche mettendo in piedi una fabbrica di birra; l’industria sarebbe stata sostenuta da uno spericolato uomo d’affari angolano, amico di Becciu (che era stato nunzio a Luanda); inoltre – questa l’accusa – il prelato avrebbe inviato soldi alla sua natia diocesi di Ozieri, Sassari.

Sarebbe stata questa news a provocare l’immediata ira del papa (ma forse era solo l’ultima goccia di un vaso che stava traboccando?) che, verso le 18,00 di quel giovedì convocò l’ex Sostituto: lo accusò di peculato e di altri comportamenti impropri, e lo obbligò a rassegnare le dimissioni da aspetti sostanziali del cardinalato: poteva, sì, rimanere nel suo appartamento in Vaticano, e continuare a indossare la porpora, ma – così interpretò la stampa mondiale – perdeva il diritto di entrare in conclave. 

In controtendenza, alcuni canonisti hanno però sostenuto che Becciu ha mantenuto quest’ultimo diritto; ma se quest’ipotesi fosse vera, si dovrebbe concludere che, in realtà, l’ex Sostituto non ha perso nulla di decisivo. E in che consisterebbe, dunque, la sua punizione? Il comunicato del 24 settembre sarebbe una sceneggiata? Finora le fonti vaticane non hanno risolto l’enigma. E alcuni osservatori ritengono che Francesco abbia preso una decisione impulsiva, non ben ponderando le conseguenze giuridiche e canoniche della sua scelta.

Sotto ogni pontificato accade ogni tanto che per qualche motivo il papa sollevi un cardinale, o un vescovo, da una carica – in Curia o nelle diocesi del mondo – e lo ponga improvvisamente a riposo o lo sposti ad altro compito meno importante ma più appariscente (“promoveatur ut amoveatur”). Ma, di norma, l’interessato, quand’anche ritenga ingiusta la decisione venuta da Roma, non la critica mai in pubblico, e ancor meno in un’apposita conferenza-stampa; al massimo, in una ristretta cerchia di prelati, o di amici fidati, fa trapelare il suo rammarico, che poi nutrirà il chiacchiericcio curiale. Insomma, la regola non scritta è che il “trasferito”, in pubblico, chini la testa, obbedisca e taccia.

Becciu: “Spero che il papa non si faccia manovrare”

Sardo (classe 1948, una carriera diplomatica in diverse nunziature, tra cui di Luanda e dell’Avana), Becciu ha scelto, invece, una via di difesa inaudita in Curia, e mai vista anche da “vaticanisti” che pur seguono da vicino, sperando scoop elettrizzanti, vita e opere del pontefice in carica, dei cardinali e del mondo curiale. Il prelato, interpellato da un’agenzia non appena diffusa, nella serata, la news della sua “defenestrazione”, si rifiutò di fare dichiarazioni; ma già l’indomani cambiò radicalmente tattica, e fece una scelta forse mai ipotizzata da Francesco, da Parolin (classe 1955), e dal venezuelano monsignor Edgar Peña Parra (classe 1960), colui che nel 2018 era stato scelto da Bergoglio come “numero tre” dell’organigramma del potere vaticano, al posto del Sostituto promosso cardinale.

E il 25 settembre, di fronte alle telecamere, dopo aver definito “surreale” quanto gli stava capitando, Becciu smentì fermamente le accuse contro di lui. Affermò di non aver dato soldi ai fratelli (salvo ad uno, falegname, per lavori eseguiti nel palazzo della nunziatura in Angola e a Cuba, e concertati con la Segreteria di Stato). In quanto ai centomila euro destinati alla sua diocesi natia, egli confermò la notizia, però aggiungendo che era nel suo potere discrezionale aiutare qualche diocesi. E quei denari, aggiunse, erano per la Caritas di Ozieri, e sono ancora là a sua disposizione (dato poi confermato dal vescovo di quella diocesi, monsignor Corrado Melis).

Quanto all’acquisto di Sloane Avenue – continuava Becciu – «l’Obolo di san Pietro non è stato utilizzato. La Segreteria di Stato aveva un fondo, doveva crescere». Precisava poi che nel colloquio della sera precedente con il papa «non si è parlato del palazzo di Londra». Sempre su quella udienza, il prelato raccontò che Francesco era molto imbarazzato nel comunicargli la decisione che due ore dopo sarebbe stata resa nota dalla Sala stampa vaticana. Quindi concludeva: «Diventando cardinale ho promesso di dare la vita per la Chiesa e per il papa. Oggi rinnovo la mia fiducia». E poi: «Forse Francesco ha avuto errate informazioni… Spero non si faccia manovrare, e capisca che si tratta di un equivoco. Nessuna sfida al papa, ma ho diritto alla presunzione di innocenza”.

Sconcerto, in Vaticano, per queste parole. Esse, infatti, sottendono la richiesta di un processo, dove Becciu, come è suo sacrosanto diritto, possa difendersi. E adombra una domanda: poteva il papa, al di fuori di un processo, privare il porporato dei suoi diritti sostanziali, tra i quali – se la parola “dimissioni” ha un senso – quello di entrare in conclave? In uno Stato di diritto questo non si può fare: se Francesco aveva elementi o, a suo parere, prove evidenti di reati commessi da Becciu, poteva, e forse doveva, “sospenderlo” dalle sue cariche; non, però, “radiarlo”. Poi un processo darà la sua sentenza: se il prelato sarà proclamato colpevole, meriterà la sua punizione; ma se sarà proclamato innocente, dovrebbe essere reintegrato come cardinale di serie A

E, in questo secondo caso, potrebbe un tribunale vaticano smentire Francesco, il sovrano di uno Stato ove, avendo egli «la pienezza dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario», aveva disonorato un cardinale di fronte al mondo? Sembra emergere una stridente contraddizione nella struttura stessa del papato. Infatti, il papa è tale perché vescovo di Roma, e non viceversa, mentre i “titoli storici” di cui si adorna, come precisa anche l’Annuario pontificio 2020, sono: «Vicario di Gesù Cristo, successore del principe degli apostoli, sommo pontefice della Chiesa universale, primate d’Italia, arcivescovo e metropolita della Provincia romana, sovrano dello Stato della Città del Vaticano, servo dei servi di Dio». Un groviglio inestricabile di storia, vangelo, teologia, politica; senza contare che i citati titoli non sono tutti di uguale peso: infatti, mentre “primate d’Italia”, e “sovrano”, sono certamente legati a vicende storiche, altri tre – vicario di Cristo, successore di Pietro, pastore [=sommo pontefice] di tutta la Chiesa sono ribaditi dalla Lumen gentium, la costituzione dogmatica sulla Chiesa approvata nel 1964 dal Concilio Vaticano II.

Moneyval valuta le misure anti-riciclaggio in Vaticano

Sempre per favorire la trasparenza, Francesco ha rafforzato un “controllo” esterno sulle finanze vaticane, già avviato da Benedetto XVI. E proprio il 30 settembre ‘20 Oltretevere è iniziata la visita da parte del team del Comitato di esperti del Consiglio d’Europa «sulla valutazione delle misure di lotta contro il riciclaggio e il finanziamento del terrorismo, nell’ambito del quinto ciclo di valutazioni a cui sono progressivamente sottoposte tutte le giurisdizioni aderenti al Gruppo Moneyval. L’attuale valutazione per la Santa Sede, si inserisce nel quadro della naturale evoluzione di un processo che ha avuto inizio con la prima visita in loco del 2012», ed è proseguita con successivi Rapporti fino al dicembre ‘17. 

La visita si è conclusa il 13 ottobre: è stato fatto – dice un comunicato – un «importante passo» verso la meta prefissata «che si concluderà con l’adozione del Rapporto di valutazione reciproca da parte dell’Assemblea plenaria, prevista per la primavera del 2021, in linea con le procedure interne del Comitato Moneyval».

Lavorio importante e complesso che, in sostanza, deve aiutare il papa a prendere decisioni anche ardue. Perché non vi è persona umana che, come vescovo di Roma e papa, possa controllare tutto: le nomine dei vescovi del mondo intero (quello “latino”, almeno), dei nunzi, dei dirigenti di primo e di secondo livello della Curia e dello Stato della Città del Vaticano. A tale proposito, è vero che la stessa Legge fondamentale di Wojtyla prevede che il papa, nei vari settori, possa delegare i suoi poteri a cardinali o a commissioni. Ma è lui che di norma sceglie i loro dirigenti o i partecipanti. Per fare ciò, dovrebbe essere competentissimo in economia e finanze, oppure fidarsi di altri. Se, in questa trafila, avvengono errori (in mala e, soprattutto, in buona fede), risalendo la scala si arriva al pontefice, responsabile di quelle nomine. 

In uno Stato dove il papa è “sovrano assoluto”, Becciu può difendersi? 

Torniamo a Becciu: in attesa della sentenza di un tribunale, in uno Stato democratico l’accusato ha il diritto alla presunzione di innocenza. Ché, se per evitare che si scoprano magari “altarini”, l’affair fosse tacitato in Vaticano in via amministrativa, con un “mea culpa” da parte del porporato, o con un “perdono” da parte del papa, allora sarebbe la morte dello Stato di diritto, e della giustizia, tante volte pur proclamata dalla Santa Sede come livello di agire indispensabile nella società.

Per di più, se Becciu fosse condannato, potrebbe egli fare appello? E se anche questo andasse male per lui, sarebbe pensabile un ricorso in Cassazione, come accade in Italia? Sarebbe ciò possibile, dal punto di vista tecnico, giuridico e “politico”? Infatti, proclama solennemente il Codice di diritto canonico, varato da Wojtyla nel 1983: «Non si dà appello né ricorso contro la sentenza o il decreto del Romano Pontefice» [can. 333, § 3]. Insomma, un ricorso in “Cassazione”, nello Stato della Città del Vaticano, dove il papa è “sovrano assoluto”, potrebbe proclamare “non fondati” i motivi per cui questi aveva preso la decisione del 24 settembre? 

Il caso Becciu – quand’anche fosse archiviato in fretta attraverso un fumoso compromesso per salvare la faccia al papa e al prelato – dimostra, ci pare, come sia ormai indifferibile rivedere alla radice la Legge fondamentale dello Stato della Città del Vaticano, in quanto incrocia il ruolo del vescovo di Roma nella Chiesa cattolica. Potrebbe, la sua “sovranità”, venire esercitata senza essere anche – per il peso della storia e non per l’imperizia dei singoli papi, cirenei anch’essi di una croce ereditata dai secoli – “assoluta”? Scindere, in concreto, i due ruoli vescovo/sovrano è, sarebbe impresa gigantesca, ma, forse, affrontabile per salvaguardare il carisma del vescovo di Roma e i suoi titoli sostanziali, “dogmatici”, ribaditi dal Vaticano II. 

Sempre dal punto di vista cattolico – perché, ovviamente, altre Chiese contestano l’uno o l’altro, o tutti insieme, quei titoli – la cancellazione del titolo di “Sovrano dello Stato della Città del vaticano” non amputerebbe né la Chiesa cattolica, né il papato. Nei primi secoli il vescovo di Roma non era affatto “sovrano assoluto”; e dopo il 20 settembre 1870, pur non esistendo più uno Stato pontificio, permaneva la Santa Sede. Dunque, ciò che fu potrebbe tornare, in altri contesti, in nuovi paradigmi, con diverse prospettive giuridico-canoniche ed evangeliche.

Occorrerebbe – questa l’ipotesi – liberare il papa dal dover, in definitiva, approvare i bilanci della Santa Sede; e dal compito di sorvegliare le entrate-uscite vaticane e, soprattutto, dal diritto-dovere di nominare tutti i massimi dirigenti dello Ior e di tutti gli organismi, commissioni e board deputati a gestire l’economia e le finanze della Santa Sede. Del resto, nella meritoria impresa di rendere trasparenti le finanze vaticane, Francesco, per guidare quei settori ha scelto persone che, talora, dopo qualche tempo lui stesso ha esonerato dall’incarico. Il tam-tam dei media – ma starà ai tribunali appurare la verità! – parla di personaggi, pur scelti fior da fiore, che infine, o per imperizia, o con macchinazioni sconsiderate, hanno tradito il papa.

Non chiarite, per ora, le competenze internazionali di Cecilia Marogna

È arduo, per chi osserva dall’esterno, tacere dell’imbarazzo di fronte a un susseguirsi di news che aggiungono dubbio a dubbio, sorpresa a sorpresa. Così si apprende che, su mandato di Becciu Sostituto, una fino a quel momento ignota “esperta di questioni internazionali” (così si presentava), Cecilia Marogna, trentanovenne sarda, ha ricevuto dal Vaticano, con la causale “Versamenti per missione umanitaria”, cinquecentomila euro. Spese, a quanto pare, delle quali il prelato non ha informato Peña Parra, quando nel 2008 ha passato a lui le consegne di Sostituto. 

Ora in tv sono stati mostrati i tabulati di una banca di Lubiana: qui ha sede la Lodsic d.o.o, dove arrivavano dal Vaticano tutti i bonifici per Marogna. Essi dimostrano che più della metà di quei denari sono stati spesi in generi voluttuari – gioielli, vestiti, mobili di lusso – e non risultano documentate “opere umanitarie”. Ma, in interviste al Corriere, la signora proprio così ha giustificato quelle “uscite”, aggiungendo poi che era suo diritto spendere come voleva le entrate derivanti dal suo lavoro. 

Lei stessa spiegò, poi, di aver contattato Becciu, presentandosi come esperta di servizi segreti, e ricca di relazioni in Medio Oriente e Africa utili per proteggere anche le nunziature da attacchi terroristici. Ha anche ammesso di conoscere personalmente Flavio Carboni [più volte accusato di oscure trame, di cui però si è proclamato innocente], e Gioele Magaldi, Gran Maestro del Grande Oriente Democratico. L’incontro con il Sostituto fu assai promettente: «Doveva essere un colloquio di dieci minuti, mi ha tenuta un’ora e mezza».

Quando scoppiò lo scandalo, che alcuni media colorarono di rosa, Becciu sembrò cadere dalle nuvole e fece trapelare l’impressione di essere stato da lei ingannato, finendo in una trappola. Come stanno davvero, le cose? A rafforzare, comunque, i sospetti, è stata la Guardia di Finanza che il 13 ottobre ha arrestato Cecilia Marogna a Milano, dove gli è stato notificato un provvedimento emesso dai Promotori di giustizia dello Stato della Città del Vaticano, diramato il giorno precedente tramite l’Interpol. L’accusa è identica a quella contro Becciu: peculato. 

 L’indomani, in prima pagina, La Repubblica titolava: “Arrestata la dama del Vaticano”; e il Corriere: “Arrestata la dama del cardinale”. Ma, adesso, la signora sarà estradata in Vaticano? Che dicono, a proposito, i Patti Lateranensi? Le opinioni dei giuristi, sono diversificate; secondo Domani [16 ottobre], la Santa Sede, non essendoci accordo bilaterale in merito, non può richiedere l’estradizione della donna. Intanto, il 30 ottobre Cecilia Marogna è stata scarcerata, con l’obbligo di firma; e se (se) dovrà affrontare un processo, è quasi certo che sarà solamente in Italia.

Il cardinale Pell, accusato di pedofilia, perde il suo posto in Vaticano

Vi è poi un altro elemento, che complica la già complicata cronaca: la vicenda del cardinale George Pell. Questi – classe 1941 – dopo studi teologici a Roma, aveva intrapresa una luminosa carriera ecclesiastica, diventando nel 1987 vescovo ausiliare e infine, nel ‘96, capo della diocesi di Melbourne e, nel 2001, di Sydney; due anni dopo, fu creato cardinale da Giovanni Paolo II. Francesco, nel febbraio 2014 lo nominò prefetto della neonata Segretaria per l’economia

La scelta veniva sull’onda del conclave del marzo 2013, che a gran voce aveva chiesto, al futuro papa, una riorganizzazione radicale degli organismi economico-finanziari della Santa Sede, per garantire la loro piena trasparenza e correttezza. E così, undici mesi dopo la sua elezione, Bergoglio aveva creato questo nuovo dicastero della Curia Romana a cui è affidato il coordinamento degli affari economici e amministrativi della Santa Sede e dello Stato della Città del Vaticano. Nel luglio del 2015 il pontefice ha trasferito alla Segreteria alcune competenze precedentemente attribuite alla Sezione Ordinaria dell’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica [APSA].

La scelta papale di nominare un cardinale “straniero” per sorvegliare le finanze vaticane era stata interpretata, dai media, come un modo, per Bergoglio, di sparigliare tensioni e rivalità che serpeggiavano tra i prelati italiani preposti a quel settore. Ma non tutto è andato liscio, e il porporato si è scontrato spesso con Becciu (o questi con lui). Lo sappiamo dall’ex Sostituto stesso, che ne ha parlato alla stampa il 25 settembre, il giorno seguente la sua “defenestrazione”: «Con il cardinale Pell c’è stato del contrasto professionale perché lui voleva applicare leggi che non erano state [ancora] promulgate. Sapevo che lui ce l’aveva con me e un giorno gli ho chiesto udienza. Lui mi ha ricevuto, ha voluto che fosse presente anche il suo segretario. Mi ha fatto un interrogatorio, se io credevo nella riforma, se ero contro la corruzione, se ero con l’Apsa o con la Segreteria… ci siamo lasciati bene». 

E poi: «In un’altra occasione, in presenza del papa, discutevamo di come usare i fondi della Segreteria di Stato; io davo dei suggerimenti e lui a un certo punto mi ha tacitato: “Lei è un disonesto”, ha detto, e io lì ho perso la pazienza. Gli ho detto che i miei genitori mi hanno insegnato l’onestà e che disonesto è il peggior insulto che mi si poteva fare. Il papa alla fine mi ha detto: “Hai fatto bene”». 

 «Ma – ha continuato Becciu – ricordo anche che quando Pell tornò in Australia [per difendersi in tribunale dalle accuse di pedofilia contro due coristi tredicenni], io gli ho scritto un biglietto così: “Cara Eminenza, malgrado i contrasti professionali, soffro per queste accuse e da sacerdote mi auguro che verrà pienamente provata la sua innocenza. La saluto e l’abbraccio”. Se Pell è ancora convinto che io sia disonesto non ci posso fare niente”». 

Per difendersi dalle citate accuse di pedofilia, da lui sempre respinte, Pell, pur mantenendo formalmente la sua carica in Curia, ottenne dal papa – nell’estate del ’17 – di poter tornare nel paese natio. E, malgrado le condanne che avrebbe subito, solo il 14 novembre 2019, al suo posto Francesco nominò il successore: il sessantenne gesuita spagnolo p. Juan Antonio Guerrero Alves.

In Australia, nel processo di primo grado, nel dicembre del 2018 il porporato viene condannato a sei anni di prigione per i reati di pedofilia; ma la sentenza verrà resa nota due mesi dopo. Questa conclusione giudiziaria pone il pontefice in una difficilissima situazione: doveva, da una parte, mantenere la presunzione di innocenza del prelato, fino all’ultimo grado di giudizio; ma, dall’altra, doveva fare anche l’ipotesi che egli fosse condannato definitivamente. 

In tale contesto, il 26 febbraio 2019 arrivava un comunicato: «La Santa Sede si unisce a quanto dichiarato dal Presidente della Conferenza episcopale australiana nel prendere atto della sentenza di condanna in primo grado nei confronti del cardinale George Pell. Una notizia dolorosa che, siamo ben consapevoli, ha scioccato moltissime persone, non solo in Australia. Come già affermato in altre occasioni, ribadiamo il massimo rispetto per le autorità giudiziarie australiane. In nome di questo rispetto, attendiamo ora l’esito del processo d’appello, ricordando che il cardinale Pell ha ribadito la sua innocenza e ha il diritto di difendersi fino all’ultimo grado».

E proseguiva: «In attesa del giudizio definitivo, ci uniamo ai vescovi australiani nel pregare per tutte le vittime di abuso, ribadendo il nostro impegno a fare tutto il possibile affinché la Chiesa sia una casa sicura per tutti, specialmente per i bambini e per i più vulnerabili. Per garantire il corso della giustizia il Santo Padre ha confermato le misure cautelari già disposte nei confronti del cardinale George Pell dall’Ordinario del luogo al rientro del cardinale Pell in Australia. Ossia che, in attesa dell’accertamento definitivo dei fatti, al cardinale Pell sia proibito in via cautelativa l’esercizio pubblico del ministero e, come di norma, il contatto in qualsiasi modo e forma con minori di età».

L’appello si ritorce contro Pell, perché nell’agosto successivo la condanna viene confermata. Il 21 di quel mese il Vaticano comunica: «Ribadendo il proprio rispetto per le autorità giudiziarie australiane, come dichiarato il 26 febbraio in occasione del giudizio in primo grado, la Santa Sede prende atto della decisione di respingere l’appello del cardinale George Pell. In attesa di conoscere gli eventuali ulteriori sviluppi del procedimento giudiziario, ricorda che il cardinale ha sempre ribadito la sua innocenza e che è suo diritto ricorrere all’Alta Corte. Nell’occasione, insieme alla Chiesa di Australia, la Santa Sede conferma la vicinanza alle vittime di abusi sessuali e l’impegno a perseguire i membri del clero che ne siano responsabili».

Il porporato australiano, scagionato da ogni accusa, torna vincitore a Roma

Pell, da parte sua, fa ricorso all’Alta Corte suprema, massimo organo di giudizio australiano: e questa, composta da sette giudici, il 7 aprile di quest’anno, criticando le incoerenze della sentenza della Corte d’Appello, proscioglie all’unanimità il cardinale perché – afferma – «c’è una ragionevole possibilità che il reato non sia avvenuto e che quindi ci sia una significativa possibilità che una persona innocente possa essere condannata». Qualcuno ha paragonato la sentenza a una assoluzione per insufficienza di prove.

Il cardinale è stato in carcere per quattrocentoquattro giorni, affrontando la sua pena con grande dignità. Quando è stato liberato ha detto di non avere risentimenti verso i suoi accusatori. La felice conclusione della vicenda ha ovviamente portato grandissimo sollievo anche al papa. Il quale quella mattina (ma in Australia, agli antipodi, era già pomeriggio!) nell’omelia della messa ha detto: «In questi giorni di Quaresima abbiamo visto la persecuzione che ha subito Gesù e come i dottori della legge si sono accaniti contro di lui. È stato giudicato con accanimento essendo innocente. Vorrei pregare per tutte le persone che soffrono una sentenza ingiusta per l’accanimento». Riferimento, seppur indiretto, a Pell. 

Il 30 settembre il cardinale è tornato a Roma, e il 12 ottobre Francesco ha ricevuto in udienza il “prefetto emerito” della Segreteria per l’economia. L’inizio dell’incontro è stato ripreso da alcune tv. «Le dico grazie per la sua testimonianza», questo il benvenuto del pontefice. «Grazie a lei, Santo Padre». Quando, dopo una mezz’oretta, è uscito, ai molti giornalisti che chiedevano «Come è andata?», il porporato ha risposto «Molto bene», senza ulteriori commenti.

Il grande ritorno a Roma di Pell, pur vittorioso, non significa che tutto sia risolto; tutto, forse, potrebbe ricominciare, perché contro il cardinale pendono sempre le accuse di aver lui “tollerato”, in patria, preti pedofili [Il Fatto Quotidiano, 29/6/2017]; sul caso, l’indagine spetterebbe alla Congregazione per la dottrina della fede. Ci sarà? 

Al momento, il cardinale australiano ha di fatto acquisito un’autorevolezza centuplicata: e, ora, uno scontro tra lui e Becciu, il grande sconfitto (almeno a livello istituzionale, e poi per l’arresto della Marogna) potrebbe avviare una guerra intestina. 

Nel frattempo è stata avanzata un’ipotesi che, se accertata, aprirebbe una slavina: perché lo scandalo, gigantesco, scuoterebbe dalle fondamenta la stessa Santa Sede. Il sospetto – ripreso dai giornali, a livello italiano e internazionale – è che Becciu, direttamente o indirettamente, abbia fatto arrivare in Australia, da fondi vaticani, settecentomila euro al fine di pagare dei testimoni per incastrare il prefetto emerito della Segreteria sulla questione delle violenze sessuali contro minori. L’ex Sostituto si è detto sdegnatissimo per tali “calunnie”. L’avvocato di Pell, invece, ha ipotizzato un’indagine internazionale per chiarire la vicenda. Alcuni giornali hanno sintetizzato così l’attacco a Pell: «Cannoni australiani, munizioni vaticane». In merito, più che mai occorre ribadire: l’accusa va provata, non solo ipotizzata. 

L’insieme di queste vicende, legate ai casi Becciu e Pell, evidenzia come esistano forti contrasti, ai più alti livelli, su come gestire le finanze della Santa Sede. Il tentativo di Francesco di unificare in un solo dicastero il loro controllo, ponendo fine a nicchie “intangibili”, è una scelta ragionevole che potrebbe evitare errori, o anche aspre divergenze tra i vari dirigenti, laici ed ecclesiastici. Ma la transizione tra lo status quo e il nuovo organigramma si presenta assai ardua. 

Bilanci vaticani 2019: entrate 307 milioni di euro, uscite 318

Commentando il bilancio 2019 della Santa Sede [Corriere della Sera, 12/10/2020], Guerrero Alves ha detto che, nell’insieme, le entrate sono state di trecentosette milioni di euro (di cui cinquantasei, il 18%, da offerte dei fedeli; l’Obolo di san Pietro ha raccolto, nel 2019, cinquantatre milioni); le uscite, invece, di trecentodiciotto milioni: dunque, il “deficit” è di undici milioni. Dal consolidato restano fuori il Governatorato dello Stato della Città del Vaticano, lo IOR, l’Obolo di san Pietro e i fondi della Segreteria di Stato destinati a finalità specifiche. Il giornale valuta che tutto il “super-consolidato” vaticano sia di quattro miliardi di euro. 

 Presentando alla stampa, dodici giorni prima, questi dati, p. Guerrero sottolineava: «La Santa Sede usa le sue risorse per compiere la sua missione, il suo servizio alla missione del Santo Padre. Non funziona come un’azienda o come uno Stato. Non cerca profitti. È pertanto normale che sia in deficit». E, a obiezioni dei giornalisti, precisava: «È possibile che, in alcuni casi, la Santa Sede sia stata, oltre che mal consigliata, anche truffata. Credo che stiamo imparando da errori o imprudenze del passato…Ora si tratta di accelerare, su impulso deciso e insistente del papa, il processo di conoscenza, trasparenza interna ed esterna, controllo e collaborazione tra i diversi dicasteri. Abbiamo inserito nei nostri team professionisti di altissimo livello. Oggi esiste comunicazione e collaborazione fra i dicasteri di contenuto economico per affrontare queste questioni. La collaborazione è un grande passo in avanti» [adnkronos, 1/10/2020].

Ma la cronaca dimostra che il cammino verso la trasparenza è accidentato. Le ultime notizie dicono che anche la giustizia italiana, oltre quella vaticana, avrebbe impellenti domande da porre a Becciu: ad esempio sui settecentomila euro che lui avrebbe fatto pervenire, a fondo perduto, al fratello Tonino [La Repubblica, 23/10/2020]. Lo stesso giorno, il quotidiano riporta un colloquio con Cecilia Marogna, la quale difende a spada tratta il cardinale: «Becciu è un prete vero». 

L’indomani, quel giornale ha aperto un altro delicato fronte, fin qui mai sfiorato. Titolo e occhiello: «Quel ricatto per il palazzo londinese – le mail che accusano Peña Parra. Il successore del cardinale Becciu alla Segreteria di Stato ordinò di versare quindici milioni al faccendiere Torzi. I cinque documenti riservati e il giro “ingiustificato” dei soldi dell’Obolo su cui indaga la Procura di Roma».

Spiegazione: «L’arcivescovo venezuelano ha avuto un ruolo di primo piano nell’affair londinese del palazzo di Sloane Avenue, che ha provocato la perdita di centinaia di milioni di euro per le casse della Santa Sede. Cinque documenti riservati… raccontano come l’attuale Sostituto abbia consapevolmente deciso di mettere il denaro dell’Obolo di san Pietro nelle mani di Gianluigi Torzi. Un finanziere al quale l’attributo “spregiudicato” è quello che – secondo gli investigatori della Guardia di Finanza – meglio gli si addice, segnalato dalle banche di mezza Europa e accolto invece con i guanti in Vaticano». Altre voci di stampa rincarano la dose, sostenendo che Peña Parra sarebbe “sotto ricatto” di qualche oscura lobby: accuse provate, o fantasiose e calunniose ipotesi per demolirlo? Il Sostituto ha il pieno diritto di difendere in tribunale la correttezza del suo agire.

Infine, il 29 ottobre Repubblica torna sull’intreccio Becciu-Marogna: la Procura generale, scrive, ha dato parere negativo alla scarcerazione della signora, ravvisando il pericolo di fuga. E aggiunge: Becciu, facendo pagare a lei i compensi sopra citati, «avrebbe travalicato i poteri ordinari del suo mandato, visto che per tale attività di consulenza esterna su materie così delicate e distanti dalla delega agli “affari generali” che rivestiva, avrebbe dovuto passare per l’autorizzazione da parte del segretario di Stato, Pietro Parolin»; inoltre, egli «avrebbe omesso la vigilanza sull’effettiva portata delle operazioni che aveva affidato alla sua consulente». E ancora: stando alle chat che monsignor Alberto Perlasca ha dato agli inquirenti, «Becciu, anche dopo lo spostamento dalla Segreteria di Stato, avrebbe continuato la sua opera di tessitura e di indirizzo». Insomma, «secondo gli inquirenti, Becciu non sarebbe stato “tradito”, come dichiarato a più riprese dalla donna, ma sarebbe stato a conoscenza di ogni azione intrapresa da lei».

È possibile un papato “francescano”, libero da “mammona”?

Sullo sfondo di tali e tante vicende, e sperando che nei tribunali, vaticani e/o italiani, si accerti la verità sulle singole persone accusate, che hanno il pieno diritto di difendersi, il vero problema che si staglia sullo sfondo è: chi gestisce, e come, i beni della Santa Sede? È possibile avere milioni di euro – costruiti magari dalle piccole offerte di umile gente come la “povera vedova” citata da Gesù [Marco, 12, 42-44], oltre che da grossi investimenti nel mercato globale – facendoli fruttare in modo eticamente corretto? È saggio far gestire le finanze vaticane dal clero, siano cardinali, vescovi, religiosi? Non si potrebbero mettere solo laici, uomini e donne, a capo degli organismi che prendono le decisioni economico-finanziarie? Non vi sarebbe soluzione giuridico-pastorale possibile che liberi il vescovo di Roma dal ruolo di Sovrano dello Stato della Città del Vaticano, lasciandogli solamente la mission di vescovo di Roma e il compito di annunciare l’evangelo? 

Domande inevitabili, che però non hanno risposte facili: infatti, se il papa non avesse i poteri che ha, potrebbe governare? Se laici, e non prelati, gestissero le finanze vaticane, a chi risponderebbero, se non al pontefice? Obiezioni toste che, tuttavia, non possono demolire un dato di fatto: rebus sic stantibus il pontefice rischia molto per la sua credibilità, azzoppato da scandali di cui non ha responsabilità personale ma, in certo senso, istituzionale, avendo scelto lui quella tal persona per quel tal compito. Insomma, cambiare si deve? Ma “come”, realisticamente?

Siamo di fronte a un’insanabile contraddizione tra un papa che si ispira al Poverello di Assisi (che, davvero, non possedeva nulla!), ma che è pur sempre “sovrano assoluto” dello Stato della Città del Vaticano: colui che, in definitiva, deve dire “sì” o “no” a entrate e uscite di milioni di euro. Non è un compito personale, ma istituzionale. 

Gesù disse: «Nessuno può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro, o preferirà l’uno e disprezzerà l’altro; non potete servire a Dio e a mammona» [Matteo 6, 24]. La traduzione concreta di queste parole già lacerò il Francescanesimo pochi anni dopo la scomparsa dell’Assisano che praticava una povertà assoluta: dovendo vivere, quanta pur modesta “mammona” – parola semitica per dire ricchezza, denaro – potevano avere i frati? Nel contesto odierno, l’invito di Cristo ascoltato Oltretevere pone questioni urticanti al Vaticano (ma, ovunque, anche a ogni Chiesa, istituzione o persona, che intenda riferirsi all’Evangelo). 

E, venendo al nostro tema, si impone la domanda: in un mondo dominato dal Mercato, è possibile mantenere “francescane”, cioè sempre pure e cristalline, strutture economiche e finanziarie che manovrano milioni di euro? D’altronde, senza avere tanti sacchi di “mammona”, potrebbe il papa aiutare poverissime Chiese in zone disastrate del mondo, o soccorrere Paesi sconvolti da disastri naturali o da conflitti militari? L’equilibrio è arduo; la sfida si ripropone ogni giorno, nella tensione tra la cruda realtà e l’ideale proposto dall’Evangelo, forse, però, senza mai raggiungerlo. Non si dà, cioè non esiste povertà sine glossa fin che esiste lo Stato della Città del Vaticano; ma, pur senza quello, quando Chiese, cattoliche o evangeliche, anche senza avere uno Stato, sono ricche, perché grazie ad Accordi vari – dalla Germania all’Italia – ricevono ingenti(ssimi) sussidi.

Immaginiamo, ora, la scena che dovrebbe avvenire in Vaticano nel futuro prossimo. «Tutti in piedi. Entra la Corte». L’udienza, come sarà poi per tutte le altre, è diffusa in diretta tv; e fin che durerà il dibattimento, tre dei/delle mille corrispondenti presenti a Roma entreranno a turno, nell’aula, per seguire il “processo del secolo”. Primo, tra altri imputati, si alza Giovanni Angelo Becciu che, pur imperiosamente depotenziato dal papa, è ancora un cardinale. Poi, forse, Peña Parra; poi altri monsignori e anche “esperti” laici (Cecilia Marogna, se non estradata dall’Italia, sarà giudicata in contumacia), che in vario modo hanno collaborato con i due Sostituti o con altri autorevoli personaggi del mondo economico-finanziario legato alla Santa Sede. Comincia una ricerca della verità che dimostrerà erga omnes se, ai vertici, la Chiesa cattolica romana sia, o no, “una casa di vetro”.

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Luigi Sandri

Redazione Confronti

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