Etiopia, 500 morti col machete: rischio nuovo Rwanda? - Confronti
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Etiopia, 500 morti col machete: rischio nuovo Rwanda?

by Osvaldo Costantini

di Osvaldo Costantini. Antropologo. Università di Messina

Da ormai un mese – a dispetto della dichiarazione di una “guerra lampo” – va avanti il conflitto armato tra il governo federale etiopico e quelle del Tigray People’s Liberation Front (TPLF), dopo che quest’ultimo ha attaccato una base militare governativa, sebbene l’atto sia negato dal TPLF. 

L’attacco è tuttavia soltanto l’ultimo tassello di una tensione che va avanti da quando l’ascesa di Abiy Ahmed (vale la pena ricordarlo: vincitore del Premio Nobel per la Pace nel 2018) ha sottratto importanti fette di potere al TPLF. La scorsa estate uno degli elementi di tensione era stato la decisione di tenere comunque le elezioni regionali nonostante il veto governativo a causa della situazione pandemica. Il conflitto attuale va letto sotto varie lenti: la prima è sicuramente quella di conflitti sedimentati negli ultimi sessant’anni e che vanno sempre più declinandosi in chiave etnica; la seconda chiave connette invece il territorio locale con le questioni più collegate ai meccanismi economici internazionali: tra donors internazionali e accordi commerciali, l’Etiopia vede oggi girare diversi fondi, ragione per cui accaparrarsi quelle risorse è sicuramente un elemento importante nella lettura di questo conflitto, sebbene sia stato meno enfatizzato nelle narrazioni mediatiche italiane e internazionali; il terzo ed ultimo riguarda le alleanze in campo in questo conflitto: stando alla maggior parte delle fonti, al fianco dell’Ethiopian National Defense Force ci sono sia parte dell’esercito somalo sia quello eritreo.

Quest’ultimo è veramente un elemento fondamentale, perché mette capo al sospetto che la pace siglata tra Etiopia ed Eritrea nell’estate 2018 fosse un passaggio propedeutico a questo conflitto e che quindi esso sarebbe tutt’altro che un fulmine a ciel sereno. 

Sul piano internazionale questa collaborazione pone il rischio di riabilitare a livello internazionale quell’Issaias Afewerki fino a qualche mese fa descritto come un feroce dittatore a capo di un paese descritto come “la Corea del Nord africana”. Le ragioni per cui l’Eritrea collabora in questa guerra sono al momento difficili da interpretare, almeno che non ci si voglia fermare alla superficie, che è quell’inimicizia tra il governo eritreo e il TPLF creatasi nella guerra di confine nel 1998-2000, scoppiata solo pochi anni dopo che i due fronti “gemelli” (il TPLF e l’Eritrean People’s Liberation Front) avevano collaborato nella sconfitta di Menghistu Haile Mariam nel 1991. 

Questo, in estrema sintesi, il quadro politico. Gli aspetti sui quali ci si può soffermare sono quelli che riguardano le condizioni dei civili, il possibile allargamento del conflitto ai paesi confinanti, e le conseguenze umanitarie, alcune delle quali già visibili.  

Nei primi giorni del conflitto un episodio ha sconvolto gli osservatori internazionali e le chat dei vari gruppi della diaspora: nell’area di Kirakir (regione Amhara) 500 persone sono state uccise a colpi di machete e coltello (modalità che ricordano in maniera inquietante il Rwanda del 1994). Fonti tigrine sostengono si trattasse di vittime tigrine, mentre fonti Amhara sostengono il contrario. A prescindere dall’appartenenza dei 500, naturalmente, non può non inquietare questo evento di violenza che si è sicuramente dispiegato lungo le coordinate dell’etnicità.

Dal Tigrai, invece, le notizie trapelano con grande difficoltà per diversi motivi, tra cui una scarsissima disponibilità della connessione. A fronte, però, delle dichiarazione del governo centrale di aver centrato soltanto obiettivi militari, le notizie che ho potuto raccogliere in maniera del tutto personale vedrebbero invece diverse vittime civili nei diversi attacchi, soprattutto aerei, che nelle scorse settimane hanno colpito la regione.

L’altro elemento di discordia sembra essere invece proprio su elementi militari: il governo centrale, dopo vari ultimatum e varie fasi belliche, dichiara di fatto di aver preso il Tigrai. Nonostante la decisione del TPLF di lasciare il capoluogo Mekelle senza combattere, il livello di radicamento del partito nel territorio, la disponibilità di forze ed armi, l’obiettivo sembra davvero difficile e ogni giorno di combattimento si traduce in nuove vittime e nuove vessazioni su una regione già colpita dall’invasione delle locuste che mette in pericolo la sussistenza alimentare della popolazione. In molti sono preoccupati in questi giorni per le possibili conseguenze del conflitto nei paesi circostanti: diversi sono stati i missili lanciati dal Tigrai verso l’Eritrea, da dove pare partano gli aerei militari dell’aviazione etiopica. Dall’altro lato non sappiamo quali siano le conseguenze del coinvolgimento dell’esercito somalo negli eventi bellici.

Ciò che tuttavia sembra molto preoccupante riguarda le conseguenze umanitarie: il Sudan ha già registrato circa 50.000 rifugiati dall’Etiopia. Ma il dato preoccupante riguarda le conseguenze del coinvolgimento dell’esercito eritreo nella partita. È notizia di questa settimana un fatto che, se confermato, sarebbe probabilmente tra i più gravi della vicenda: l’esercito eritreo avrebbe “prelevato” circa 6.000 rifugiati eritrei dai campi profughi del nord dell’Etiopia. Tale circostanza violerebbe le norme della convenzione di Ginevra e condannerebbe quelle seimila persone a violenza, tortura e, in molti casi, morte. 

Quello che succederà nei prossimi giorni, settimane e mesi, è difficile da immaginare, ma niente di buono sembra apparire all’orizzonte.

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Osvaldo Costantini

Antropologo. Università di Messina

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