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Perché riconoscere lo stato di Palestina

by Giorgio Gomel

di Giorgio Gomel. Economista, è membro dell’Istituto Affari Internazionali (IAI), del Comitato direttivo di Jcall-Italia e dell’organizzazione Alliance for Middle East Peace

Il 29 novembre, in occasione della Giornata internazionale di solidarietà con il popolo palestinese indetta dalle Nazioni Unite, si è svolto ad Assisi un incontro sulle ragioni e l’urgenza di un riconoscimento dello stato di Palestina, promosso da sindacati, associazioni della società civile e ONG (dalla Rete Pace e disarmo, all’ANPI, dall’ARCI alla Fondazione Basso alla Legambiente). Dall’incontro è scaturito un forte appello al Parlamento e al governo a tal fine (vedi Dichiarazione finale Pace e Giustizia).

Partecipanti numerosi e significativi: il sindaco di Betlemme Salman, l’inviato delle Nazioni Unite nella regione Mladenov; figure del mondo religioso quali Izzedin Elizir, Imam fiorentino, Arik Ascherman, rabbino israeliano attivista di Torah for Justice, Jamal Khader, parroco di Ramallah; esponenti politici quali Yasser Rabbo e Jamal Zakout, palestinesi ambedue fra i promotori degli accordi di Ginevra del 2003, Avraham Burg, ex Presidente del parlamento israeliano e Alon Liel, ex Direttore del ministero degli Esteri e fra i fondatori di J-Link, la rete internazionale delle organizzazioni ebraiche progressiste. Sono intervenuto a nome di JCall e di J-Link che sostengono l’esigenza del riconoscimento in conformità con la risoluzione dell’Assemblea dell’ONU che lo approvò nel 2011 con il sostegno di 137 paesi membri (vedi Appello di J-Link per il riconoscimento della Palestina).

Il 29 novembre 1947 le Nazioni Unite con la risoluzione 181 decisero la spartizione di quella piccola terra contesa – Palestina o Eretz Israel – in due stati, l’uno ebraico, l’altro arabo. Il primo esiste dal maggio 1948, pur senza confini sicuri e riconosciuti e nell’opposizione di parte ancora rilevante del mondo arabo-islamico; il secondo non c’è ancora come stato sovrano.

Il 29 novembre 1947 le Nazioni Unite con la risoluzione 181 decisero la spartizione di quella piccola terra contesa – Palestina o Eretz Israel – in due stati, l’uno ebraico, l’altro arabo.

Se non si giunge ad un accordo sui confini, gli insediamenti e lo status di Gerusalemme, la stessa nozione di “due stati per due popoli” affermatasi come paradigma dominante dagli anni ’80 e sancita diplomaticamente con il trattato di Oslo del ’93 rischia di evaporare nel mondo onirico del mito. L’espansione degli insediamenti israeliani nei territori occupati nel ’67, la confisca di terre possedute da soggetti privati palestinesi, la demolizione di case e strutture e il conseguente abbandono coatto da parte dei residenti rendono da tempo la nascita di uno stato palestinese che abbia contiguità, solidità economica, sovranità effettiva via via più difficile.

Nel frangente attuale il conflitto israelo-palestinese è quasi “relegato” in secondo ordine dalla frantumazione del Medio Oriente e dal cataclisma umanitario che lo investe, dagli orrori degli omicidi di massa in Siria, Irak, Yemen ed Afghanistan, dalla violenza non piegata del terrorismo islamista. 

I palestinesi hanno compiuto gravi errori, dalla violenza terroristica inferta contro Israele fra gli anni 2000 e 2005 all’inutile guerra di guerriglia scatenata da Hamas dalla striscia di Gaza. Sono oggi largamente impotenti, divisi da Cisgiordania e Gaza, fra il moderatismo di Abu Mazen e il settarismo ideologico di Hamas. Sono emarginati, quasi oggetto di ostracismo in parti rilevanti del mondo arabo, dove al sostegno popolare nelle “piazze” si contrappone una sorta di fastidio insofferente dei governi. Non sono cittadini del “non stato” in cui vivono – le aree A e B della Cisgiordania dove l’ANP estende la sua giurisdizione – dove dal 2006 non esercitano il diritto di voto né votano per le istituzioni dello stato, Israele, che di fatto controlla la loro esistenza quotidiana.

Ritenere peraltro che il conflitto fra i due popoli sia poco rilevante per le parti in causa e il resto del mondo e che lo status quo possa essere sostenuto per l’eternità è un errore. I costi umani e materiali della “non pace” sono enormi, come attestano il ripetersi di atti di guerra fra Israele e la striscia di Gaza, gli scoppi di violenza fra l’esercito israeliano e palestinesi a Gerusalemme e in mille località della Cisgiordania, nonché le conseguenze nefaste del perdurare dell’occupazione sulla stessa democrazia e la convivenza fra arabi ed ebrei in Israele.

I costi umani e materiali della “non pace” sono enormi, come attestano il ripetersi di atti di guerra fra Israele e la striscia di Gaza, gli scoppi di violenza fra l’esercito israeliano e palestinesi a Gerusalemme e in mille località della Cisgiordania.

Un atto di riconoscimento dello stato di Palestina da parte dei governi in particolare europei – nella UE solo la Svezia ha finora agito in tal senso – sarebbe un gesto coerente con il sostegno da essi proclamato per la soluzione “a due stati”. Un gesto in larga misura simbolico dato che il controllo del territorio dell’eventuale stato sarebbe limitato all’area A della Cisgiordania (appena il 20%); l’area B, pur amministrata dall’ANP, resta sotto il potere militare di Israele; l’area C, che occupa il 60% del territorio, pur scarsamente popolata, è infatti sotto il pieno controllo di Israele e in parte occupata dagli insediamenti abitati ormai da oltre 400.000 israeliani. La striscia di Gaza poi resta nelle mani di Hamas e priva di alcun legame fisico e politico con la Cisgiordania, con un processo di riconciliazione, in vista di un governo unitario che diverrebbe il governo legittimo della Palestina, più volte faticosamente avviato e poi interrotto senza esiti.

Tuttavia, con l’atto di riconoscimento, il conflitto diventerebbe un conflitto più “normale”, di natura politico-territoriale fra due stati; non più fra l’occupante e un movimento sul quale gravano ancora il retaggio “guerrigliero” dell’OLP e le istanze dei profughi palestinesi dispersi nei paesi del Medio Oriente.

Infine, il riconoscimento di uno stato palestinese sarebbe il compimento del piano di spartizione sancito dalla risoluzione dell’ONU del 1947. Per Israele ciò sarebbe la conferma del riconoscimento da parte della comunità delle nazioni dell’esistenza legittima dello stato ebraico nelle frontiere scaturite dalla guerra d’indipendenza del 1948-49 (con modifiche concordate tra le parti in ragione degli esiti della guerra del 1967); fra quelle nazioni vi sarebbero anche i paesi arabi ed islamici che , malgrado le recenti aperture con gli accordi di normalizzazione, oppongono tuttora nel loro assolutismo ideologico un rifiuto ad Israele.

[Articolo apparso originariamente su www.cespi.it]

Dichiarazione finale Pace e Giustizia

Da Assisi, città di pace, oggi 29 Novembre 2020, Giornata Internazionale di Solidarietà con il popolo palestinese, lanciamo un appello al Parlamento ed al Governo italiano affinché la Repubblica Italiana riconosca formalmente lo Stato di Palestina per la pace giusta tra Palestina ed Israele. 

Con il riconoscimento dello stato di Palestina, come già fatto da 138 su 193 Stati membri delle Nazioni Unite, oltre al Vaticano, entro i confini antecedenti la guerra del 1967 e con Gerusalemme capitale condivisa, si porrà fine all’occupazione, all’isolamento, alle demolizioni ed all’annessione dei territori palestinesi. 

Riconoscendo lo Stato di Palestina e non più la sua annessione unilaterale allo Stato d’Israele, si compie quell’atto che completa il quadro politico indispensabile per la costruzione della pace giusta, ponendo fine al conflitto territoriale e delegando alle istituzioni dei due stati la responsabilità di garantire la pace, la convivenza e la sicurezza, con il concreto sostegno e con la cooperazione della comunità internazionale. 

Solo così, con lo stesso status, con il reciproco rispetto, autonomia ed indipendenza, i due Stati potranno sedersi al tavolo del negoziato per il bene reciproco, aprendo la strada della riconciliazione e della convivenza. 

È questo l’auspicio dichiarato nelle numerose risoluzioni delle Nazioni Unite, ed oggi ribadito dal Segretario Generale dell’ONU, nel messaggio per la 43ma Giornata di solidarietà con il popolo palestinese. 

Messaggio che per noi si traduce nell’impegno di dialogo e di confronto con le nostre istanze istituzionali affinché l’Italia ritorni ad essere protagonista della pace giusta, della convivenza, della cooperazione e della sicurezza nella regione del Mediterraneo e del Medio Oriente.

Appello di J-Link per il riconoscimento della Palestina

Il 29 novembre è il giorno dedicato alla solidarietà internazionale con il popolo palestinese.

J-Link, una rete internazionale di organizzazioni ebraiche progressiste, riconosce il diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione e fa appello alle nazioni del mondo che non hanno riconosciuto lo stato di Palestina ad agire in tal senso.

L’assemblea delle Nazioni Unite riconobbe nel 2011 lo stato di Palestina come stato non-membro con statuto di osservatore con il sostegno di 137 paesi e 9 contrari.

La maggior parte dei paesi del mondo riconosce la Palestina e molti di essi ospitano ambasciatori palestinesi nelle proprie capitali. I Parlamenti di 13 paesi dell’Europa occidentale hanno chiesto ai loro governi di riconoscere lo stato di Palestina.

J-Link sostiene una soluzione pacifica del conflitto israelo-palestinese e ritiene che un ulteriore riconoscimento internazionale della Palestina potrà consolidare la possibilità di un futuro accordo negoziato fra le parti che soddisfi i bisogni e le aspirazioni di ambedue i popoli.

Il Comitato di coordinamento di J-Link

Kenneth Bob (Ameinu, USA), Barbara Landau (JSpaceCanada, Canada), Alon Liel (Policy Working Group, Israele), Pablo Lummerman (J-AmLat, Argentina), Giorgio Gomel (Jcall Europe, Italia), Gabriella Saven (Jewish Democratic Initiative, Sud Africa).

J-link è una rete internazionale che comprende organizzazioni ebraiche attive negli Stati Uniti, Canada, paesi d’Europa, America Latina, Sud Africa e Australia. Insieme ad organizzazioni israeliane intendiamo cooperare per esprimere una voce comune in sostegno alla democrazia, al pluralismo religioso ed a una risoluzione pacifica del conflitto israelo-palestinese attraverso la creazione di uno stato palestinese accanto a Israele. Continuiamo a credere nei valori iscritti nella Dichiarazione di indipendenza dello Stato di Israele, che proclama Israele come patria democratica del popolo ebraico che garantisce “la piena eguaglianza di di diritti politici e sociali dei suoi abitanti indipendentemente da religione, razza o sesso”. 

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Giorgio Gomel

Economista, è membro dell’Istituto Affari Internazionali (IAI), del Comitato direttivo di Jcall-Italia e dell’organizzazione Alliance for Middle East Peace

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