di Stefano Allievi. Sociologo, Professore di Sociologia all’Università degli studi di Padova.
I luddisti combattevano contro le l’innovazione tecnologica, convinti che un certo progresso avrebbe impoverito i lavoratori poiché ormai superflui. Ma come sarebbe il mondo se…
Non è stato il progresso, come molti immaginavano pochi decenni fa (e sembra un’era geologica), che ha messo in crisi il rapporto tra lavoro e denaro, tra la fatica fatta e le risorse ottenute. È stata la crisi…
L’innovazione tecnologica rende obsoleti molti lavori, sostituendo la manodopera con le macchine. Tutto dovuto ad una banale equazione: P=xT, dove P è ovviamente la produzione, T è il tempo di lavoro e x il coefficiente di produttività. Se il coefficiente di produttività – grazie alle macchine – aumenta, il tempo di lavoro diminuisce, e i posti di lavoro di cui c’è bisogno, di conseguenza, anche.
L’innovazione tecnologica rende obsoleti molti lavori, sostituendo la manodopera con le macchine.
D’altro canto, fin dalla prima rivoluzione industriale – quella delle macchine a vapore contro cui combattevano i luddisti – ci siamo accorti che nel lungo periodo il lavoro non è diminuito, ma aumentato, man mano che la complessità sociale apriva nuovi settori e diventavano rilevanti funzioni che hanno bisogno di capitale umano, di conoscenza e di beni relazionali (dalla knowledge economy al lavoro di cura).
Nel pieno della «produzione di merci a mezzo di merci» (Piero Sraffa), ci si poteva illudere che il lavoro sarebbe sì diminuito, ma l’abbondanza di merci sarebbe aumentata, migliorando la qualità della vita di tutti e aprendo a splendide utopie di reddito di base e salario universale garantito anche in assenza di corrispettivo lavorativo.
Poi, appunto, è arrivata la crisi, anzi una rapida sequenza di crisi inanellate l’una nell’altra (di cui l’ultima, quella provocata dal Covid, è stata il colpo di grazia), e ci siamo risvegliati. Con risposte molto diverse agli interrogativi emersi. Sì, le macchine producono e produrranno sempre più beni (ma c’è un limite, anche ambientale, alla loro produzione come al loro stoccaggio e consumo). No, il lavoro non è stato redistribuito, e la ricchezza ancora meno.
Si amplia la forbice tra chi ha e chi non ha, tra chi conta e chi può essere solo contato, tra chi sa come impiegare il proprio tempo e chi no.Si amplia la forbice tra chi ha e chi non ha, tra chi conta e chi può essere solo contato, tra chi sa come impiegare il proprio tempo e chi no. Dove bisogna soprattutto lavorare è dunque nella (re-)distribuzione – a valle, delle risorse, e a monte, del lavoro stesso – nel diverso e più egualitario apprezzamento dei diversi tipi di lavoro, e infine nell’ingegneria sociale, che può consentire non solo forme di ripensamento del lavoro (part-time orizzontale e verticale, job sharing, reengineering della settimana lavorativa, lavoro intermittente, discontinuo, intervallato da momenti di lifelong learning, ecc.). Ma non è cosa che si risolva nel mercato del lavoro: occorre lavorare sulla stessa organizzazione sociale, reintroducendo principi comunitari, anche di proprietà, e beni relazionali nel vivere comune, cominciando da modalità di urbanizzazione che favoriscano questi scambi. Lavorare meno, lavorare tutti, consentirsi di chiamare lavoro quello creativo e sociale – il piacere, non l’obbligo – e retribuire quello non salariato (domestico e di cura, in primo luogo). Lord Keynes, nel suo saggio sulle Prospettive economiche per i nostri nipoti, già negli anni ‘30 sosteneva che «tre ore di lavoro al giorno sono più che sufficienti per soddisfare il vecchio Adamo che è in ciascuno di noi». Il resto è tutto da riempire: possibilmente non di vuoto, o di solo consumo.
Stefano Allievi
Sociologo, Professore di Sociologia all’Università degli studi di Padova