Le memorie della Shoah della “generazione del deserto” - Confronti
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Le memorie della Shoah della “generazione del deserto”

by Lia Tagliacozzo

di Lia Tagliacozzo. Giornalista e scrittrice

Intervista a cura di Michele Lipori. Redazione Confronti

La Shoah non riguarda solo chi l’ha vissuta: le generazioni successive è come se attraversassero un deserto. Quel deserto che, nella Bibbia, è una progressiva assunzione di responsabilità. Con La generazione del deserto (Manni, 2020) Lia Tagliacozzo offre contributi personali, narrativi, al racconto dei fatti storici affinché la memoria diventi critica.

Lia Tagliacozzo è ebrea, figlia di due sopravvissuti alla Shoah. Quando nel 1938 vennero promulgate le Leggi “razziali”, i suoi genitori erano bambini: durante le persecuzioni il padre si salvò per caso da una retata e restò nascosto in un convento per tutti i mesi dell’occupazione, la madre si rifugiò in un casolare di campagna e poi, dopo la fuga attraverso le Alpi, in un campo di internamento in Svizzera. Nella sua attività di giornalista collabora con varie testate, fra cui Sorgente di Vita, il manifesto e non da ultima Confronti, per la quale ha anche diretto il documentario Le date della memoria, che raccoglie interviste con diversi testimoni della Shoah. Nei libri Anni spezzati (Giunti, 2009), Il mistero della buccia d’arancia (Einaudi Ragazzi, 2017) e La Shoah e il giorno della memoria (EL, 2017) ha raccontato la Shoah e la storia di famiglia rivolgendosi inizialmente a bambini e ragazzi. La generazione del deserto. Storie di famiglia, di giusti e di infami durante le persecuzioni razziali in Italia (Manni, 2020) si rivolge ad un pubblico adulto e offre contributi personali, narrativi, al racconto dei fatti storici.

Da sempre ti occupi di “memoria” e in particolare della memoria della Shoah. Qual è la tua storia? Come e perché hai iniziato questo percorso?

Sono ebrea e vengo da una famiglia che è stata travolta dalle persecuzioni e dalla Shoah. Ho sempre desiderato scrivere, fin da quando ero bambina, e mi ero ripromessa che se ne avessi avuto la possibilità  avrei raccontato le storie della mia famiglia durante la guerra. Quando sono cresciuta  e scrivere è diventato il mio mestiere ho scritto quindi anche di queste “memorie”. Mi sono occupata e ho scritto anche di memoria della Shoah nelle testate in cui ho lavorato o collaborato: a Sorgente di Vita, al manifesto e anche su Confronti.  Poi ho avuto l’opportunità di scrivere dei libri e ho iniziato a raccontare la storia di famiglia proprio scrivendo per bambini e ragazzi (Anni spezzati, Il mistero della buccia d’arancia e La Shoah e il giorno della memoria). Ho cercato di utilizzare un linguaggio adatto ai bambini senza omettere la verità a cui anche i bambini hanno diritto. Raccontare quanto accaduto è una forma di memoria civile, di educazione alla cittadinanza attiva e consapevole, un modo per tenerci allerta non solo sulle tragedie del passato ma anche sui rischi del presente. E adesso è uscito La generazione del deserto. Storie di famiglia, di giusti e di infami durante le persecuzioni razziali in Italia che è un contributo personale, narrativo, al racconto di queste vicende.

La memoria è, per definizione, lacunosa i cui “buchi” sono spesso determinati da omissioni e rimozioni più o meno inconsce. Quali sono le strategie che hai usato per ricostruire la storia della tua famiglia?

Nella mia famiglia fino a pochi anni fa non si parlava affatto del periodo della guerra. Sapevo alcune storie ma in modo frammentato. La nostra identità ebraica o civile non si reggeva sul paradigma della memoria della Shoah. Poi, crescendo, mi sono resa conto che il silenzio è stato una strategia di protezione reciproca tra le generazioni: non fare domande significava non provocare un dolore che – anche se non si conosceva – si intuiva e si percepiva. Poi, piano piano, frammenti di conversazioni, fotografie e gli stessi silenzi hanno iniziato a formare una specie di mosaico. Sono partita da lì, dai ricordi – pochi ricordi – che mia nonna aveva condiviso e dalle informazioni disponibili per poi poterne scrivere utilizzando anche lettere famigliari, documenti e inserendo il racconto “dentro” la storia, quella con la “s” maiuscola. Prima i libri per bambini e adesso La generazione del deserto che è destinato ad un pubblico di lettori adulti. Nella mia famiglia, ma non solo nella mia, si è cominciato a parlare adesso che c’è anche la generazione dei nipoti di chi da bambino patì la persecuzione e così la “congiura del silenzio” a protezione reciproca è parzialmente, e solo parzialmente, venuta meno. Perché comunque, anche a distanza di tanti anni il dolore e l’offesa patita restano.

Parliamo del tuo ultimo libro La generazione del deserto. A prima vista sembrerebbe un diario familiare ma storia e memoria si intrecciano continuamente nella narrazione. Parlaci di più di questo aspetto.

Penso che storia e memoria siano due facce di una stessa medaglia. Per noi “nati dopo”, noi “della generazione del deserto” , la storia – quella condivisa, quella dei fatti importanti – è irrinunciabile. È necessario contestualizzare e immettere le storie di famiglia  – e le tragedie familiari – dentro il corso della storia complessiva. Quanto accaduto  ai miei nonni – a Roma, a Firenze o in Svizzera per chi riuscì a fuggire – altrimenti diventa incomprensibile; invece esistono dei motivi per cui in Germania alla Repubblica di Weimar è seguito il nazismo o perché in Italia si sia giunti al fascismo. Il fascismo non è “solo” le leggi “razziali”, è stata la violenza delle “squadracce”, i tribunali speciali, l’assassinio Matteotti, la censura sulla stampa, la persecuzione degli omosessuali, il proseguimento di una politica coloniale intrecciata con il razzismo colonialista. E poi l’alleanza con la Germania e l’entrata in guerra. Io credo che sia necessario collocare le storie “piccole” all’interno della Grande storia e utilizzare la memoria individuale e collettiva per mettere in luce aspetti altrimenti incomprensibili. Storia e memoria si parlano e anche questo è quello che ho cercato di fare nel mio libro: raccontare non solo la storia della mia famiglia ma la storia di come io ho scoperto, ricostruito e fatto i conti con questa storia, di fatto è un libro sulla “mia” memoria e sul peso che questa  storia e questa memoria hanno avuto nella mia vita e nelle cose che faccio quotidianamente. 

Da chi è composta e come si caratterizza la “generazione del deserto” a cui ti riferisci nel titolo?

La mia ipotesi di lavoro e la mia proposta di definizione si rifà al racconto biblico, quando nell’Esodo si racconta della fuga degli ebrei dall’Egitto del Faraone.  In apparenza con l’attraversamento del Mar Rosso la libertà “sica è riconquistata ma non basta per diventare realmente liberi da ciò che la schiavitù ha lasciato dentro. Per arrivare effettivamente alla Terra promessa da gente libera sono necessari quarant’anni di peregrinazioni nel deserto. Quaranta anni di prove, di litigi, di rivelazione di una nuova legge. Allo stesso modo la mia generazione non ha vissuto la Shoah, è nata dopo, avrebbe dovuto o potuto essere libera eppure è una storia che ci appartiene comunque, è nostra, si riverbera nei nostri incubi, nelle nostre scelte, nell’educazione dei figli. Per questo siamo la “generazione del deserto” non siamo più schiavi ma non siamo ancora liberi. Per questo però – dato che ci facciamo testimoni di storie non nostre – la storia è fondamentale compagna della nostra memoria, per non dare spazio ad alcun negazionista. La storia della Shoah è già stata scritta e la si sta continuando ad approfondire ed è compagna di viaggio delle nostre memorie.

Stiamo rapidamente passando dall’era del testimone a quella dell’assenza di testimoni. Pur avendo a disposizione una mole archivistica imponente, non si spengono le voci che minimizzano o negano la Shoah. Quali sono le sfide del futuro?

Temo che siano voci che continueranno a circolare, la cosa fondamentale è che il discorso pubblico – quello di politici, intellettuali, insegnanti, giornalisti – sia fermo e rispettoso. La sfida – anche se la parola non mi piace, parlerei piuttosto di percorsi di lungo periodo e di ancor più lungo respiro – è dare voce alla storia, alla ricerca, non farsi sovrastare (anche in buona fede) da un’immagine “verosimile” della Shoah. Si tratta di tenere ferma la sua verità: quella dei nomi dei morti e dei sopravvissuti ed anche le storie dei responsabili, dei conniventi, dei complici, degli osservatori, dei meccanismi della persecuzione e della distruzione delle vite. Della storia di come un sistema politico arrivi al totalitarismo. D’altro canto le voci dei testimoni non hanno impedito ad una volgare versione negazionista di diffondersi ma a noi resta il compito dello studio e della responsabilità civile e dei comportamenti civili nel presente.

Nel tuo libro parli spesso di “responsabilità” sia nei confronti di chi ha vissuto la Shoah, sia nei confronti delle nuove generazioni. Qual è il senso delle “giornate istituzionali” per il ricordo delle vittime? Cosa si può fare per rendere giustizia al lascito dei testimoni?

Si tratta di domande complesse a cui è necessario dare risposte diverse. La Shoah – nata e consumatasi in Europa – ha avvelenato la modernità, la nostra responsabilità è fare del ricordo privato memoria civile e a questo servono anche le giornate istituzionali, anche quando rischiano la retorica. Le giornate istituzionali – quest’anno saranno venti anni dalla prima celebrazione del giorno della memoria – concorrono a creare un calendario civile che ha due caratteristiche fondamentali: quello di essere condiviso da tutti i cittadini (e per questo il ruolo delle istituzioni è comunque fondamentale) e quello di essere civile nel senso di contrassegnare i valori fondamentali in cui la nostra collettività si riconosce.

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Lia Tagliacozzo

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