di Stefano Allievi. Sociologo, Professore di Sociologia presso l’Università degli studi di Padova.
I crimini contro le donne hanno vissuto di una lunga legittimazione storica, culturale e anche religiosa. Ma come sarebbe il mondo se…
È possibile che la violenza contro le donne possa finire? Che in futuro ce ne sia di meno? Non è solo possibile: è probabile, oltre che giusto. Le tendenze misurabili – i dati – vanno in questa direzione.
I crimini contro le donne (violenze, stupro, femminicidio) hanno vissuto di una lunga legittimazione storica, culturale e anche religiosa.
L’inferiorizzazione della donna ne era la premessa antropologica, che ne ha fatto quasi un universale culturale.
Ma non è un destino: e i passi avanti fatti anche solo nell’ultimo mezzo secolo mostrano un’accelerazione incoraggiante. Nel campo del diritto forse anche più velocemente che in
quello del costume. Basti pensare che molte forme di violenza, a cominciare da quella verbale, di harassment (molestia), di stalking, non erano – ma sono diventati – reati, sempre più spesso effettivamente perseguiti, seppure ancora occasionalmente giustificati.
Il comune sentire è cambiato. E cambierà ancora. Grazie alla mobilitazione delle donne, e concretamente alla loro sempre maggiore presenza nelle istituzioni legislative, nella magistratura, fino alle forze di polizia e ai media. C’è ancora una quota di sottosegnalazione di questi reati che deve far riflettere – troppo spesso non denunciati – ma è cresciuta la disponibilità a farlo, e ad andare fino in fondo. Gli strumenti ci sono.
Quella che viaggia meno in fretta della legge è la capacità maschile di cogliere il problema. Perché la comprensione di questo processo è un dato di genere: le donne lo capiscono benissimo che cosa è violenza – gli uomini non sempre.
Difficile non notare che questo dramma sociale è infatti figlio di un problema culturale. Che c’entra con la definizione del ruolo del maschio (non dell’uomo: del maschio) nelle società contemporanee.
La modernità ha messo in crisi la sua centralità: ha liberato le donne dal giogo del dominio maschile, dando loro – grazie alle loro lotte e alle loro conquiste: l’emancipazione non è stata un regalo – un potere che prima era loro negato. Di scelta, di autodeterminazione, di appropriazione di spazi e ruoli, di creazione di nuovi mondi e modi di relazionarsi. Con gli uomini, ma anche a prescindere da essi.
Una parte degli uomini ha saputo cogliere le opportunità di questa trasformazione, da cui ha tutto da guadagnare. Una parte invece – e non importa se laici e progressisti, o al contrario tradizionalisti e in cerca di motivazioni religiose – proprio non ci riesce: restando ancorata a un ordine patriarcale considerato come un dato, inamovibile, e trasversale rispetto a opinioni, credenze, livello di istruzione, classe sociale.
Non stupisce quindi che alcuni, tra i maschi, non ci arrivino. Che non capiscano che sarebbe anche un loro vantaggio e una loro vittoria superare l’idea di donna che ancora passa in molto immaginario maschile. Che non sappiano superare un’idea di proprietà individuale, di possesso esclusivo, di gelosia ossessiva – di un potere malinteso e malsano – che non ha nulla a che fare con la gratificazione e men che meno con l’amore.
Che dunque non sappiano rendersi conto del fatto che il problema sta soprattutto nel non riconoscerlo, il problema, al punto di non accettare la sua esistenza. E quindi nell’incapacità di chiedere aiuto: alla donna, magari. Ricercando una forma di relazione diversa, autenticamente paritaria e con-divisa, basata sulla col-laborazione, il lavoro fatto insieme, e non sul dominio e la sopraffazione.
Se il correlativo al maschile del femminicidio non esiste, la spiegazione sta qui. C’è un problema di maggiore tutela delle donne, quindi: specie quando si tratta di aiutarle a denunciare le violenze e a proteggerle una volta fattolo.
Troppe volte la società non è stata capace di fare nemmeno questo, e molto di più si potrà fare e si farà. Ma i femminicidi – e più in generale le violenze di genere – sono questione degli uomini. Perché sono loro a compierli.
E su di loro bisogna dunque soprattutto lavorare. Con un lavoro di prevenzione che è eminentemente culturale. È la cultura buona a sconfiggere quella cattiva. È l’educazione ai sentimenti, e l’apertura alle diversità nelle definizioni di genere e di modelli familiari, che sconfigge l’ineducazione del paternalismo possessivo e l’analfabetismo affettivo.
È un lavoro lungo: che la società ha cominciato a fare. Forse riuscirebbe meglio se cominciasse onorando le vittime. E chiedendo loro scusa.
[pubblicato su Confronti 01/2021]
Stefano Allievi
Sociologo, Professore di Sociologia presso l’Università degli studi di Padova.