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Una voce sottile

by Marco Di Porto

di Marco Di Porto. Giornalista e scrittore.

Intervista a cura di Michele Lipori. Redazione Confronti

Memorie familiari e fantasia si intrecciano in Una voce sottile (Giuntina, 2020), un romanzo ambientato negli anni ’30 del Novecento nella piccola comunità sefardita di Rodi, dove gli ebrei in fuga dalla Spagna avevano trovato riparo alla fine del XV secolo e costruito una realtà di pace, nonostante le vessazioni del fascismo. Realtà sconvolta nel ’43 con la deportazione dell’intera comunità ebraica, che ha cancellato questo pezzo di mondo dalla storia ma non dalla memoria dei suoi discendenti.

Il protagonista del libro, Solly, riflette l’esperienza di vita di una persona realmente esistita. In che modo i fatti storici si intersecano con le memorie personali? Qual è stata la sua metodologia di lavoro?

La figura principale è quella di Solly, mutuata dall’esperienza di Salomone Galante, mio nonno, cresciuto a Rodi, un’isola dell’Egeo che dal 1912 è diventata un possedimento italiano, e dove l’ascesa del fascismo ha determinato per gli ebrei locali lo stesso trattamento riservato agli ebrei italiani, a cominciare dall’espulsione dalle scuole, dai pubblici uffici, dall’esercito e dalla vita pubblica, fino quando – l’11 settembre del ’43 – non è passata in mano nazista. A quel punto quasi tutti i componenti della comunità ebraica sono stati deportati ad Auschwitz, tra cui gran parte della famiglia di mio nonno Solly.

È stato un viaggio lunghissimo e molto faticoso, come è ben raccontato nel documentario Il viaggio più lungo girato da Ruggero Gabbai e scritto da Marcello Pezzetti e Liliana Picciotto. Si parla di un viaggio di una settimana in barca e di quasi tre settimane in treno. Questo è avvenuto nel luglio del ’44 a guerra quasi terminata. Mio nonno Solly è stato tra i pochi sopravvissuti di quel viaggio e a guerra finita, poiché in possesso della cittadinanza, è tornato in Italia, dove ha conosciuto mia nonna. Si sono sposati per procura e sono andati in Argentina, dove li aspettavano i fratelli, emigrati circa dieci anni prima. In seguito, sono tornati in Italia e mio nonno, sopravvissuto ad Auschwitz, è morto in un incidente stradale a Roma, lasciando orfani mio zio e mia madre. Una sorte che ha segnato fortemente la storia della famiglia. Da questa storia drammatica – ma anche molto bella, perché i miei nonni si sono amati tantissimo nei dieci anni che sono stati insieme – ho costruito un romanzo di fantasia ma inquadrato in una cornice storica fedele alla realtà. Su questa base ho inventato anche il personaggio di Solly, utilizzando oltre al nome e al cognome di mio nonno anche altre informazioni a mia disposizione. Tuttavia, tutto quello che riguarda la sua vita, i suoi amici e i suoi amori è frutto della mia fantasia.

Quali sono state le tappe della sua ricerca?

Sono andato a Rodi più volte e lì ho iniziato le mie ricerche per ricostruire i fatti storici. La ricerca dei documenti necessari è partita dagli archivi della comunità ebraica locale, che da vent’anni ha iniziato ad accogliere turisti e ha costruito un museo per preservare la memoria della lunga storia della comunità. In questo modo è stato possibile colmare le lacune delle memorie della mia famiglia, dato che da quegli eventi sono ormai passati settantacinque anni. Poi ho raccolto altre informazioni presso l’Archivio storico del Dodecaneso, in attività da pochi anni, che contiene le schedature ad opera della polizia politica fascista di quasi tutti gli abitanti di Rodi e dunque anche di quelli ebrei che erano “sorvegliati speciali”.

Tutti i membri della mia famiglia sono stati schedati e grazie all’archivio ho potuto risalire al loro mestiere, a dove abitavano, oltre ai problemi che hanno avuto con le autorità. Ho ricostruito così un pezzo di mondo che era stato cancellato dalla storia. Ma, nel mio lavoro di ricerca delle fonti, ho viaggiato anche in Argentina, in Israele e in Polonia. La genesi di questo libro è stata lunga, circa otto anni, di cui due e mezzo di scrittura, anni intensi che hanno rappresentato un viaggio alla scoperta delle mie radici e di ricostruzione della mappa di ciò che è stata la Shoah di Rodi. Un viaggio che personalmente è stato importante, perché mi ha permesso di colmare un vuoto e rendere omaggio alla mia famiglia e a quel mondo scomparso di cui in Italia si continua a conoscere poco.

Quali sono le origini della comunità ebraica a Rodi? 

I primi insediamenti risalgono a duemila anni fa. Era un mondo di mercanti e viaggiatori, quindi c’era una grande circolazione di persone nel Mediterraneo, ma la vera comunità nasce alla fine del XV secolo con la cacciata dalla Spagna e l’approdo sulle coste del Nord Africa, in alcuni posti d’Italia e in Europa, oltre che nell’impero Ottomano. Rodi era una provincia dell’Impero ottomano lontana dal resto dell’Europa e di certo non era il centro del mondo, ma in quell’angolo di mondo la comunità sefardita trapiantata nell’Egeo ha vissuto a lungo e in armonia, mantenendo intatti alcuni tratti specifici della propria cultura come la lingua giudeo-spagnola e la cucina. Almeno fino all’inizio del Novecento.

A partire dagli Anni ‘30 molti giovani sono emigrati per cercare fortuna all’estero, tra cui quattro degli otto fratelli di mio nonno che sono andati in Argentina, dove si parlava spagnolo. Quindi, quando sono state promulgate le Leggi razziste, gran parte della popolazione era già emigrata, in particolare i giovani. Fino ai tragici avvenimenti della Seconda guerra mondiale, Rodi era un luogo quasi idilliaco, sia per le bellezze naturali dell’isola, sia per il clima di serena convivenza di chi l’abitava, fossero essi ebrei, cristiani (perlopiù ortodossi) o musulmani.

Qual è stato il rapporto fra l’autorità italiana e la comunità ebraica di Rodi?

Dopo l’arrivo degli italiani nel 1912 è stato creato un Collegio rabbinico italiano, quindi una realtà di studi importante, in cui si sono formati tanti rabbini. Un direttore di questo collegio rabbinico fu il nonno di Riccardo Pacifici (già presidente della Comunità ebraica di Roma) che poi dopo il ’38 sarà deportato ad Auschwitz. Sicuramente a Rodi si respirava una cultura e una storia diverse se si fa il paragone con le comunità ebraiche italiane come quelle di Roma o di Torino, ma il fatto che fosse stato istituito un Collegio rabbinico italiano è indicativo della vicinanza che c’era fra le due realtà. Altrettanto indicativo è che il re Vittorio Emanuele III abbia incontrato la comunità nel suo viaggio a Rodi del 1929 e che Mario Lago (Governatore del Dodecaneso dal 1922 al 1936) avesse un buon rapporto con la comunità ebraica e promosse molte migliorie sull’isola. In sostanza, quello che era stato il percorso post-risorgimentale del mondo ebraico si ritrovò anche a Rodi negli Anni ’20 e ’30 del Novecento.

Nel ’38 però gli ebrei furono esclusi dalla vita pubblica e dalle scuole anche a Rodi. Secondo le sue ricerche, il destino della comunità ebraica rhodense è stato lo stesso delle altre comunità in Italia?

Purtroppo la comunità ebraica di Rodi subì esattamente lo stesso destino di quelle italiane. Perdipiù,  nel 1936 succedette a Mario Lago, nel suo ruolo di Governatore, Cesare Maria De Vecchi, un gerarca fascista che era stato quadrumviro della Marcia su Roma, che a Rodi ha applicato le Leggi razziste con grande severità.

L’11 settembre del ’43 poi l’isola entra in mano nazista…

Sì, i soldati italiani a Rodi erano circa 37.000, mentre i tedeschi, che iniziano ad affluire sull’isola a partire dal ’42, erano circa 8.000. Gli italiani fino all’8 settembre del ‘43 avevano il controllo di tutte le infrastrutture, poi Badoglio fa il suo proclama e l’allora Governatore della colonia delle isole italiane dell’Egeo – l’ammiraglio Inigo Campioni – ingenuamente incontra il generale Ulrich Kleemann, che era a capo dei tedeschi, per tentare una mediazione e stabiliscono un accordo di non belligeranza in attesa di sviluppi. Questo sarà fatale per la comunità ebraica a Rodi perché Kleemann tradisce il patto e fa attaccare i siti strategici delle forze armate italiane, che perdono il controllo dell’isola in un solo giorno. Rodi cadrà in mano tedesca e la juderia, il quartiere ebraico vicino al porto, sarà occupato. La comunità inizia a patire la fame, poi i tedeschi chiedono agli italiani la lista degli ebrei presenti in città e loro prontamente gliela consegnano. Per prima cosa vengono convocati gli uomini nella sede dell’aeronautica militare, il giorno seguente vengono convocati tutti gli altri – donne, anziani e bambini – e con un pretesto vengono trasferiti su un’altra isola. Nel luglio del ’44 saranno tutti deportati. Si parla di circa 2.000 persone, di cui ne sopravviverà solo circa il 10%. A queste persone se ne sono aggiunte altre prelevate dall’isola di Kos e una manciata da altre isole. Questa storia è rappresentativa della follia criminale di quel momento storico, perché la guerra era  praticamente finita e ci si accanì contro delle persone inermi. 

Cos’è accaduto dopo la guerra?

Quella che ho voluto raccontare è un pezzo di storia di cui in Italia si è poco parlato, perché percepita come una storia non italiana. Purtroppo un atto criminale ha di fatto distrutto un’intera comunità che da secoli viveva sull’isola. Dopo la guerra qualcuno degli ebrei sopravvissuti alla deportazione ha fatto ritorno e qualcuno degli ebrei che aveva mantenuto la cittadinanza turca (e che quindi aveva scampato la deportazione), ha continuato a vivere sull’isola, ma di fatto non c’è stata più una comunità ebraica residente. Gli ebrei che hanno un legame con Rodi vi soggiornano ormai perlopiù in concomitanza nel periodo turistico ma nonostante ciò, questo legame persiste anche nei discendenti di quella comunità scomparsa che, da tutto il mondo, a Rodi continuano a fare ritorno. 

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Marco Di Porto

Giornalista e scrittore.

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