di Maurizio Ambrosini. Professore di Sociologia delle migrazioni. Dipartimento di Scienze Sociali e Politiche, Università di Milano
Intervista a cura di Asia Leofreddi (Redazione Confronti)
Quando pensiamo alla cittadinanza, spesso la immaginiamo come un concetto chiuso fatto di passaporti, confini e nazionalità. Ma è davvero così? In che modo sta cambiando? E, soprattutto, perché il momento che stiamo vivendo rende necessario un suo ripensamento? Ne abbiamo parlato con Maurizio Ambrosini, sociologo e professore all’Università degli Studi di Milano. Il suo ultimo libro s’intitola Altri cittadini: gli immigrati nei percorsi della cittadinanza e, a partire dall’analisi dei suoi rapporti complessi con l’immigrazione, ci permette di guardare alla cittadinanza da un’altra prospettiva, delineando percorsi più “aperti” e concreti per un futuro più giusto e inclusivo.
Il libro amplia la nostra concezione della cittadinanza, non limitandola solo alla sua dimensione legale, ma definendola come istituto dinamico e relazionale. Cosa intende e perché è importante perseguirne, anche concretamente, una diversa concezione?
La cittadinanza va vista non solo come un dato, ma anche come un processo; non solo come un insieme di privilegi e benefici che vengono concessi da uno Stato per via normativa, ma anche come un insieme di piccole e meno piccole conquiste, acquisizioni, espressioni di sé.
Si parla in proposito di “cittadinanza vissuta”, ossia di come la cittadinanza è soggettivamente sentita, interpretata e praticata dalle persone nel contesto in cui vivono. A parità di diritti formali, un conto è tenersi informati, partecipare al voto, seguire incontri pubblici, dedicare del tempo a iniziative di volontariato e forme di impegno civico. Un altro è rinunciare a tenersi informati, a votare, a partecipare. Anche nella disuguaglianza dei diritti, come nel caso degli immigrati, le persone possono negoziare le modalità del loro rapporto con il contesto sociale e prendere parte ad alcune pratiche di cittadinanza.
In questa concezione della cittadinanza come un istituto composito e dinamico, in che modo gli immigrati hanno contributo a una ridefinizione del concetto di cittadinanza e dei suoi rapporti con la dimensione nazionale?
La cittadinanza è un istituto composito, legato allo Stato nazionale sotto il profilo legale, ma esposto ad allargamenti e ridefinizioni se analizzato da un punto di vista più ampio, e ancor più mettendo in gioco processi soggettivi di identificazione e pratiche politiche di partecipazione. L’ingresso e l’insediamento stabile di popolazioni immigrate immette nuove tensioni e dinamismi imprevisti nella sua concezione e nel suo funzionamento effettivo.
Il primo e più visibile effetto della mobilità delle persone sull’architettura della cittadinanza consiste nell’espansione della facoltà di possedere due o più cittadinanze. Oggi questa possibilità è prevista o almeno tollerata in oltre 100 Stati nel mondo.
Uno sviluppo concomitante si riferisce alla facoltà concessa agli emigranti di esercitare il diritto di voto dall’estero in un crescente numero di paesi, anche in questo caso ormai più di 100. In alcuni casi, assai più rari, possono eleggere propri rappresentanti nei parlamenti nazionali, come avviene in Italia. Quello che fino a epoche recenti era un fenomeno molto circoscritto, limitato per esempio a militari e diplomatici in missione all’estero, è diventato un fenomeno di massa: un aspetto tipico delle appartenenze e relazioni transnazionali messe in moto dalle migrazioni.
Che cos’è un “atto di cittadinanza”?
Questo concetto non solo contrappone lo status legale di cittadino alle pratiche effettive mediante le quali la cittadinanza viene esercitata, ma focalizza l’attenzione sugli atti, individuali e collettivi, con cui i soggetti si costituiscono come cittadini.
Nell’accezione originale, gli atti di cittadinanza hanno un significato di rottura, spesso di protesta. Reinterpreto invece il concetto in maniera più ordinaria e vicina alla quotidianità, intendendo per atti di cittadinanza le azioni intenzionali, socialmente rilevanti, soprattutto formali, mediante le quali i soggetti si affermano come cittadini, acquistano diritti o li esercitano in forme pubbliche. Vi possono quindi rientrare manifestazioni collettive e azioni di protesta, come pure l’atto individuale di iscriversi a un’organizzazione sindacale o a un partito politico, nonché le varie procedure istituzionali con cui gli individui acquisiscono delle facoltà, dei riconoscimenti, dei veri e propri diritti: per es. iscriversi a un corso di formazione o concluderlo positivamente sono atti di cittadinanza.
Perché oggi sarebbe importante una riforma della legge sulla cittadinanza e quale sarebbe il modello da intraprendere (jus culturae, cosa significa? Quali sono i suoi punti di forza?)?
L’attuale legge sulla cittadinanza è stata approvata nel 1992, dunque quasi trent’anni fa, e appare oggi superata. Rifletteva soprattutto le ansie di un paese che si stava accorgendo di diventare multietnico. Riaffermava pertanto, reattivamente, i legami con l’emigrazione italiana nel mondo, mentre alzava barriere nei confronti dell’inclusione degli stranieri sconosciuti e tendenzialmente sgraditi. Abbiamo bisogno invece di norme che dopo un tempo ragionevole di ambientamento, sollecitino le persone a identificarsi con il paese in cui vivono. Questo vale in modo particolare per i giovani. È paradossale sollecitarli a studiare con impegno lingua, letteratura, storia, principi costituzionali, e poi tenerli fuori il più possibile dalla comunità nazionale, con riflessi che investono anche il loro ingresso nel mondo del lavoro: spesso i datori di lavoro richiedono il possesso della cittadinanza.
La proposta dello ius culturae prevede l’attribuzione della cittadinanza a chi frequenta alcuni anni di scuola e consegue un titolo di studio nel paese ricevente. In Grecia esiste già una norma del genere, e se ne parla molto anche in Italia, per evitare le obiezioni contro lo ius soli automatico. Questo criterio pone in risalto l’importanza della scuola come luogo di formazione dei futuri cittadini: un luogo in cui si parla e s’impara la lingua del posto, si leggono gli autori della sua tradizione letteraria, si apprende la sua storia, si visitano i monumenti, si studia la Costituzione e le norme fondamentali dell’educazione civica. Nello stesso tempo si cresce insieme e si socializza con i coetanei.
Il terreno fertile per una riforma, tuttavia, non si prepara solo nell’ambito della politica. Qual è il ruolo della società civile italiana in questo processo?
Nell’ultimo capitolo del libro riporto alcuni risultati relativi a una recente ricerca sulla partecipazione degli immigrati a varie forme di volontariato. Propongo un ragionamento che può essere esteso dalle associazioni di volontariato ad altre espressioni della società civile. L’insieme della società civile organizzata è chiamato, ricorrendo a un’immagine, ad allargare i paletti della tenda per fare posto a soggetti e gruppi provenienti dall’immigrazione A far crescere al proprio interno le persone di origine straniera, affidando loro compiti di responsabilità. A valorizzarne le capacità di leadership. A promuoverne le intuizioni innovative. Ad aguzzare grazie a loro lo sguardo per individuare bisogni nuovi, scoperti, mal conosciuti.
La società civile solidale vive oggi una sfida: realizzare al proprio interno quel mondo di relazioni più giuste, fraterne, accoglienti, che si sforza di realizzare nel mondo esterno. La cittadinanza vissuta delle persone di origine immigrata è stimolo e banco di prova per la società che l’accoglie, e soprattutto per le forze sociali che intendono promuoverla.
Maurizio Ambrosini
Professore di Sociologia delle migrazioni. Dipartimento di Scienze Sociali e Politiche, Università di Milano