di Roberto Bertoni. Giornalista e scrittore.
Bastò il suicidio di un venditore ambulante tunisino, Mohamed Bouazizi, che si diede fuoco il 17 dicembre 2010, per cambiare il corso della storia del mondo arabo e, a pensarci bene, anche la nostra. Mohamed morì il 4 gennaio 2011 per le conseguenze del suo tragico gesto, e da quel momento nulla è stato più lo stesso.
Prima la Tunisia, poi l’Egitto, poi la Libia, infine la Siria: il volto del Nord Africa e del Medio Oriente è cambiato per sempre.
Sono caduti Ben Ali, Mubarak, Gheddafi ed è stato pesantemente messo in discussione Assad, dando il via a una guerra civile che ha ridotto la Siria a un cumulo di macerie e favorito l’ascesa di un nemico pericoloso e disumano chiamato ISIS.
In questi primi vent’anni del Ventunesimo secolo, le primavere arabe occupano un posto di rilievo, al pari dell’attacco all’Americana dell’11 settembre 2001 e delle conseguenti guerre di Bush in Afghanistan e in Iraq. Diciamo che tutto si tiene. L’ISIS, infatti, altro non è che un’evoluzione della vecchia Al-Qaeda, ancora più feroce e con al centro un progetto nazionalista basato sull’idea di ricreare quello Stato islamico che, di fatto, venne smembrato nel 1916 dagli accordi di Sykes-Picot. La storia riemerge ciclicamente e guai a pensare che vicende lontane nel tempo non abbiano influenza su quanto avviene oggi perché è vero il contrario.
In questi primi vent’anni del Ventunesimo secolo, le primavere arabe occupano un posto di rilievo, al pari dell’attacco all’Americana dell’11 settembre 2001 e delle conseguenti guerre di Bush in Afghanistan e in Iraq.
Le primavere arabe dilagano per la consunzione di vecchi regimi corrotti e ormai incapaci di assicurare ai cittadini il livello minimo di benessere. Bouazizi fu il detonatore, il fuoco covava sotto la cenere da tempo e l’esito era evidente agli occhi di chiunque avesse il coraggio di andare al di là di una visione superficiale.
Il dramma è che le primavere arabe non hanno sortito gli effetti sperati, se non in Tunisia, dove una sia pur vaga forma di democrazia si sta facendo strada. Non è accaduto in Egitto, dove oggi regna sovrano al-Sisi, la cui disumana arroganza si è rivelata ai nostri occhi attraverso l’assassinio di Giulio Regeni e l’ingiusta detenzione di Patrick Zaky.
Il golpe del luglio 2013 ai danni dei Fratelli musulmani e del loro governo costituiscono una delle pagine più nere del mondo arabo e del nostro vivere civile, specie se si considera che quasi nessuno ha avuto il coraggio di far luce sulla violenza tirannica con cui il generale esercita un potere illimitato e assolutamente privo di scrupoli.
E non è accaduto neanche in Libia, almeno finora, benché in marzo siano previste le prime elezioni libere dopo tanti anni. Fino a questo momento, abbiamo assistito a uno scontro di matrice tribale fra le diverse aree del paese e al duello fra il debole Serraj e il discutibile generale Haftar. Vediamo se la tregua e il conseguente accordo per dare alla Libia un futuro meno burrascoso reggerà o se si tratta dell’ennesima, amara illusione. Di sicuro, la Libia ci riguarda: non solo per ragioni storiche ma, più che mai, per quanto concerne l’immigrazione. Gli accordi con i tagliagole del luogo, la tacita tolleranza nei confronti delle atroci violenze ai danni degli ultimi del mondo in fuga dalla miseria e dalla guerra e l’orrore che le associazioni umanitarie denunciano da anni, con autentici lager nei quali i migranti vengono detenuti in condizioni infernali, tra pestaggi e abusi d’ogni sorta, non sono più tollerabili. Chiunque li giustifichi o se ne renda in qualche modo complice dev’essere considerato responsabile di una mattanza che ricorda da vicino i metodi nazisti.
Per quanto concerne la Siria, ora che l’ISIS sembra essere stato sconfitto, bisogna prendere atto che siamo al cospetto di una nazione in ginocchio, in cui la vita vale poco o nulla, con milioni di profughi e intere città ridotte allo stremo; senza contare lo scempio compiuto dalla barbarie terroristica ai danni di siti archeologici millenari.
Se l’Unione europea avesse una politica estera comune, se i singoli stati avessero il coraggio di cedere almeno una parte della propria sovranità in materia, a dieci anni dalle primavere arabe sarebbe necessaria una conferenza europea sul Nord Africa e sul Medio Oriente per tracciare un bilancio di quella vicenda e imparare dagli errori compiuti.
Bisognerebbe favorire i processi di pace, in accordo ovviamente con le Nazioni unite, e vigilare affinché il cammino verso la democrazia e la stabilità non venga in alcun modo compromesso. Bisognerebbe, poi, aprire dei corridoi umanitari continentali e togliere ai criminali che agiscono indisturbati in Libia il proprio business preferito. Infine, bisognerebbe favorire l’esilio di Assad e il ritorno alla normalità della Siria, e qui, piaccia o meno, servirebbe anche il consenso di Putin, altrimenti in quella regione è pressoché impossibile impostare una qualunque azione concreta di politica estera.
Bisognerebbe favorire i processi di pace, in accordo ovviamente con le Nazioni unite, e vigilare affinché il cammino verso la democrazia e la stabilità non venga in alcun modo compromesso.
In dieci anni il mondo è cambiato radicalmente. La politica estera si è spostata e ha assunto nuovi confini. L’Africa ha acquisito un ruolo centrale e il Medio Oriente, polveriera storica, è divenuto lo snodo cruciale di ogni strategia globale, come dimostra il conflitto latente fra Israele e l’Iran e come abbiamo capito, anche a nostre spese, analizzando i fragilissimi equilibri dell’Iraq e della Siria.
Dare un futuro alle primavere arabe, recuperare la politica estera filo-araba che, nella vituperata Prima Repubblica, costituì una delle caratteristiche migliori di quasi tutti i governi e di alcuni fra i nostri principali statisti, accantonare ogni genere di isolazionismo e pulsione sovranista e rendere nuovamente l’Italia un ponte fra l’Europa e le due sponde del Mediterraneo sarebbe una scelta saggia e in grado di fornire nuovamente centralità e prestigio al nostro Paese.
Illudersi che basti gridare «Tutti a casa!» o «Facciamo il blocco navale!» per governare un fenomeno epocale come l’immigrazione da un’Africa in espansione renderebbe impossibile anche il rilancio della cooperazione internazionale e del sostegno alle popolazioni del luogo che potrebbe offrire sollievo agli ultimi della Terra e, in qualche caso, regalare loro un futuro là dove sono nati.
Chiudere porte e finestre e trasformarsi in fortezza non serve a nulla e genera solo disastri, specie se si considera che in Italia, oltre alle leggi approvate in Parlamento, vige l’eterna legge del mare, capace come nessun’altra di mettere a nudo le qualità e i limiti degli uomini.
Ph. © Jonathan Rashad, CC BY 2.0, via Wikimedia Commons
Roberto Bertoni
Giornalista e scrittore