di Nadia Angelucci. Giornalista e scrittrice
Il nuovo esecutivo boliviano ha deciso di tenere insieme, in uno stesso ministero, i temi culturali, quelli legati alla decolonizzazione e alla depatriarcalizzazione, ed è significativo che questo incarico sia stato affidato ad una donna indigena, Orellana Cruz.
«Sono una donna fiera delle mie radici quechua», ha detto Sabina Orellana Cruz, la nuova ministra delle culture, della decolonizzazione e della depatriarcalizzazione dello Stato plurinazionale della Bolivia durante la cerimonia di insediamento del nuovo governo, lo scorso novembre.
Un anno prima, nell’ottobre del 2019, in seguito ad elezioni che avevano dato la vittoria, sia pur di misura, a Evo Morales, bande armate, incitate dal serpeggiare di voci di una frode elettorale, in seguito ufficialmente smentita, avevano attaccato e incendiato il tribunale elettorale e sedi del partito di governo, il Movimento al socialismo (Mas), e preso in ostaggio alte cariche pubbliche.
Il presidente eletto Morales aveva dovuto lasciare il Paese mentre la whipala, la bandiera colorata emblema dei popoli indigeni andini, veniva rimossa da tutti gli edifici pubblici. Un colpo di stato al litio avevano detto molti commentatori, mettendo in relazione il rovesciamento democratico con i voraci interessi economici per lo sfruttamento del maggior giacimento del cosiddetto “oro bianco” che si trova sotto il suggestivo deserto di sale, il Salar de Uyuni, proprio in Bolivia.
Un golpe al litio, dunque, che ha però scatenato nel Paese andino una caccia all’indigeno con orribili episodi di violenza razzista e umiliazione pubblica soprattutto verso i rappresentanti dei popoli ancestrali. Si racconta che nei giorni successivi alla cacciata di Morales bande paramilitari armate di bastoni abbiano realizzato veri e propri raid per “punire” gli indigeni, saccheggiando abitazioni, picchiando e minacciando chiunque vestisse gli abiti tradizionali dei popoli ancestrali.
Particolarmente odioso quello che è accaduto a Patricia Arce, allora sindaca indigena di Vinto e oggi senatrice, presa in ostaggio, picchiata, rapata a zero, cosparsa di benzina e vernice rossa, costretta a camminare scalza per sette chilometri in mezzo ai suoi carne”ci. La Bolivia, dopo 14 anni di governo di una persona indigena, la prima volta nella sua storia coloniale e post coloniale, si riscopriva più razzista che mai, ostaggio del suprematismo bianco e del segregazionismo.
Per questo appare importante, non solo per il suo significato simbolico, il fatto che il nuovo esecutivo boliviano abbia deciso di tenere insieme, in uno stesso ministero, i temi culturali, quelli legati alla decolonizzazione e alla depatriarcalizzazione, ed è significativo che questo incarico sia stato affidato ad una donna indigena.
Sabina Orellana Cruz che porta marchiata nel suo stesso nome l’eredità del colonialismo, – Orellana come il conquistador spagnolo e Cruz come la croce simbolo di un cristianesimo imposto alle popolazioni indigene – si definisce femminista e, come ha raccontato lei stessa, ha iniziato il suo impegno per le donne a 15 anni nella comunità di Pajchapata, dove è nata. «All’inizio c’era un machismo tremendo – ha detto –. Il lavoro delle donne si svolgeva all’interno
dell’organizzazione maschile e la partecipazione alle riunioni si limitava alla cucina e al controllare chi entrava e chi usciva; non c’era voce né voto femminile. Non c’era partecipazione politica».
Le cose cambiano negli anni ‘90 quando si forma una organizzazione sindacale femminile autonoma e Orellana viene eletta come rappresentante della sua comunità. In quegli anni inizia anche a collaborare con una radio comunitaria.
«Ciò che ha motivato il mio impegno è l’umiliazione che mia madre ha subito nella mia comunità e in casa. Quella mortificazione mi ha spinto a lottare e pretendere che ci sia rispetto per le donne. Nella mia famiglia abbiamo so!erto anche episodi di violenza domestica da parte di mio padre», ha riferito.
Sabina Orellana Cruz arriva nella Confederación Nacional de Mujeres Campesinas Indígenas Originarias de Bolivia “Bartolina Sisa” nel 2005: «Il mio incarico nel governo si svolge in rappresentanza della confederazione di donne che porta il nome di Bartolina Sisa – ha detto –. Questa donna per noi boliviani rappresenta la lotta a favore dei diritti dei popoli originari, contro la colonizzazione. Ci avvicina alla Pachamama, la madre terra, al nostro saper parlare con i fiumi e con le montagne. Ci ha insegnato ad avere un pensiero e un’azione politica, cosa che gli spagnoli ci avevano proibito, trattandoci come schiavi sottomessi ai bianchi. Sono orgogliosa del fatto che stiamo realizzando, passo dopo passo, alcune delle sue idee. Porto nella mia anima e nel mio cuore la abuela Bartolina».
Nadia Angelucci
Giornalista e scrittrice