di Enzo Nucci. Corrispondente della Rai per l’Africa subsahariana.
In Kenya fin dal 2014 si fa strada l’idea di ergere un muro che separi lo Stato africano dalla Somalia. Un’opera faraonica che doveva separare i due Paesi lungo i 708 chilometri di confini comuni in zone desertiche e impervie, partendo dalla costa dell’Oceano indiano (nei pressi dell’isola di Lamu) fino al confine con l’Etiopia.
Tra le eredità politiche che ci lascia l’archiviata presidenza di Donald Trump, c’è la balzana idea della costruzione di muri per contenere i flussi. Ma in Kenya questo modello ha fatto capolino già nel 2014 quando la nazione fu investita da un’ondata di attacchi terroristici degli islamisti somali di al-Shabaab, culminati nella strage al centro commerciale Westgate di Nairobi del 21 settembre 2013 con 71 vittime e 175 feriti.
Per fermare quello stillicidio (contrassegnato quotidianamente da bombe nei mercati, granate alle fermate di bus, etc.) il governo del presidente Uhuru Kenyatta decise di costruire un muro per fermare l’arrivo dei terroristi dalla confinante Somalia.
Un’opera faraonica che doveva separare i due Paesi lungo i 708 chilometri di confini comuni in zone desertiche e impervie, partendo dalla costa dell’Oceano indiano (nei pressi dell’isola di Lamu) fino al confine con l’Etiopia. Il progetto prevedeva barriere in cemento armato, recinzioni, fossati, caserme di sorveglianza dotate di videocamere e allarmi. Oltre a un grande dispiego di personale addestrato.
Con un assordante tam tam mediatico la costruzione partì alla fine del 2015, confortata anche dalla strage di Pasqua all’università di Garissa dove il 2 aprile furono uccisi 148 studenti. Nel 2019 un primo bilancio fece emergere che era stata costruita a stento una recinzione di semplice filo spinato lunga 10 chilometri al costo di 35 milioni di dollari. Tanto bastò per far scoppiare lo scandalo, bloccare i lavori, approdare in parlamento per l’inevitabile discussione, nominare una commissione di inchiesta da cui dipende la ripresa dell’opera.
Sembra la triste parodia del sogno di Fitzcarraldo ma almeno l’eccentrico imprenditore peruviano rischiava di tasca propria. In questo caso soldi e sicurezza sono dei cittadini kenyani.
Come è emerso anche nel dibattito parlamentare, forse si sarebbero ottenuti risultati concreti e immediati investendo quei fondi in tecnologie e nella raccolta di informazioni per limitare le incursioni dei terroristi. Ma al di là di valutazioni militari e di intelligence, emerge la volontà di cancellare errori storici di tutti i governi che si sono succeduti alla guida della nazione africana. Le contee di Garissa, Wajir e Mandera (lungo le quali doveva scorrere il muro) sono le aree più arretrate del Kenya dove non sono mai stati fatti investimenti per risollevare popolazioni ridotte alla sopravvivenza. Paradossalmente (ma non troppo) il campo profughi di Dadaab (nella regione di Garissa) che è arrivato a raccogliere fino a 600 mila somali in fuga dalle violenze è stato un incredibile volano di sviluppo economico che dal 1991 ad oggi ha consentito la creazione di un sistema commerciale ricco e variegato.
Gli scambi tra gli abitanti del posto e i profughi (che nel campo hanno avviato commerci e negozi) hanno consentito una crescita impensabile. Lo svuotamento progressivo del campo profughi sta penalizzando proprio i kenyani.
Va inoltre evidenziato che i confini tra Kenya e Somalia furono segnati con un tratto di matita in epoca coloniale. Senza tener dunque conto che quelle aree (dove il concetto di confine è estraneo a popolazioni nomadi che vivono di pastorizia) sono abitate in prevalenza proprio da somali, magari appartenenti allo stesso clan, con forti legami familiari, che si muovono con disinvoltura tra le due nazioni e che faticano a riconoscersi nello spirito di una sola di esse. Insomma i 708 chilometri di confini comuni (impossibili da controllare) hanno sempre ospitato il passaggio del contrabbando di ogni merce.
Oggi le frontiere sono attraversate senza difficoltà dai terroristi islamisti somali che hanno messo salde radici nel Kenya nordorientale, in particolare a Mandera, una zona strategica per il controllo del territorio. Il governatore della contea ha denunciato pubblicamente le estorsioni di bestiame, l’imposizione di tasse ma anche omicidi di inermi cittadini che osano opporsi agli Shabaab. Scuole deserte perché il terrore regna sovrano.
Insomma un pezzo importante di Kenya è sotto stretto controllo dei seguaci somali di Al Qaeda e con il silenzio delle autorità centrali di Nairobi. L’esponente politico squarcia il velo del silenzio ma è anche un atto di accusa contro il fallimento della missione militare kenyana inviata nel 2011 nel sud della Somalia. Un conflitto che ancora oggi si trascina con il ritiro delle rispettive rappresentanze diplomatiche. Sul banco c’è anche una ricca area petrolifera contesa dai due Paesi.
Ph. CIAT, via Wikimedia Commons
[pubblicato su Confronti 02/2021]
Enzo Nucci
Corrispondente della Rai per l’Africa subsahariana