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Donne e ministeri

di Fulvio Ferrario

di Fulvio Ferrario. Professore di Teologia sistematica e Decano della Facoltà valdese di teologia di Roma.

Nel numero di febbraio di Confronti, Luigi Sandri riferisce sulla querelle relativa al motu proprio papale nel quale si apre alle donne l’accesso ai ministeri del lettorato e dell’accolitato nella Chiesa romana: il testo, come l’Autore riassume, è stato interpretato da alcuni/e come conferma del niet all’ordinazione delle donne, mentre altre/i vi individuano un’apertura. Se questo fosse il caso, rileva l’articolista, si imporrebbe alla Chiesa romana un «arduo processo di “ravvedimento evangelico”»: cioè una riforma. Lo so: quanto sto per dire non è ecumenically correct e in un certo senso può infastidire proprio alcuni settori cattolici con i quali condivido, quasi quotidianamente, il non semplice tentativo di vivere frammenti di discepolato in questo tempo; d’altra parte, credo che l’eterna discussione sul rinnovamento o meno del Cattolicesimo dopo il Vaticano II legittimi un’opinione protestante. L’“omertà ecumenica”, alla lunga, non aiuta.

La Chiesa d’Occidente ha vissuto diversi tentativi di “rinnovamento evangelico”: uno di essi, la Riforma protestante, ha generato una forma ecclesiale che, se da un lato si richiama alle origini bibliche e patristiche, dall’altro è portatrice di considerevoli elementi di novità. Nel XVI secolo, essi non comprendevano l’ordinazione al ministero della Parola di uomini e donne, ma delineavano un tipo ecclesialità che, nel secolo scorso, ha permesso, accanto ad altri processi di rinnovamento, anche quello relativo al ministero ordinato.

Il Cattolicesimo moderno respinge questo modello di riforma. Non ho alcuna difficoltà a riconoscere che ne ha messi in atto altri e che, nel secondo Novecento, il Vaticano II ha proposto un progetto certo contraddittorio (come ogni altro, ovviamente compresi quelli protestanti) ma significativo di “aggiornamento”. Esso però continua a considerare aberrante la forma ecclesiale
protestante: lo fa in termini diversi rispetto a prima, ma che sarebbe banale ritenere, per questo, meno complessivi, coerenti e radicali. I vari pontefici che si sono succeduti si collocano, del tutto naturalmente, in questo processo, con accenti marcatamente diversi, ma senza incertezze. I papi sono cattolici e, mi pare, hanno tutto il diritto di esserlo, con le logiche conseguenze.

Francesco ritiene, come i suoi predecessori (e lo ha detto anche recentemente), che l’ordinazione delle donne esprima una logica ecclesiale diversa dalla sua e che egli condanna. Non condivido, ma capisco. Nel suo rifiuto, teologicamente motivato, Roma non è del resto sola: anzi, fa costantemente notare che sono le chiese protestanti ad essere isolate, in un’ecumene cristiana che, nel tempo e nello spazio, condivide la posizione cattolica. In effetti, le chiese della Riforma che ordinano uomini e donne ritengono di essere passate per quel processo di conversione che Sandri invoca e che Roma, coerentemente con la propria identità, rifiuta.

In tutto l’articolo di Luigi Sandri, le Chiese della Riforma non sono nemmeno menzionate. A mio sommesso avviso, è anzitutto questa rimozione a suggerire una riflessione critica: la negazione romana della piena ecclesialità delle Chiese figlie della Riforma non è frutto di un equivoco, bensì di una valutazione di fede. Questa permanente scomunica (si tratta infatti di questo, come evidenzia la discussione sulla cosiddetta “ospitalità eucaristica”) ha, se non altro, il pregio della chiarezza, così come la risposta protestante, e richiede una presa di posizione.

Una ecclesiologia radicalmente sinodale, un modello non monarchico di esercizio dell’autorità, un diverso modo di comprendere la ministerialità ecclesiale (e non solo il ministero della predicazione e della celebrazione dei sacramenti), la ricerca di percorsi etici che prendano il carico le complessità del presente: ciò che Sandri invoca nell’articolo in questione e in molti altri, non sono riservati a un futuro indefinito, bensì sono realtà (complessa, contraddittoria, spesso precaria, carica di errori, insomma: realtà umana, vissuta nella fede) nelle chiese della Riforma. Si tratta di prenderne atto, il che può accadere in forme diversissime: ciò che conta è la disponibilità ad assumersi la responsabilità delle conseguenze.

SE IL PROFESSOR FERRARIO SFONDA UNA PORTA APERTA

di Luigi Sandri

Mi è arduo accogliere le pur simpatiche osservazioni del prof. Ferrario: egli, infatti, sfonda una porta aperta, in quanto condivido del tutto quanto afferma sulla Riforma; ma ha sbagliato porta. Infatti, il mio articolo non riguardava il rapporto ministeri femminili e Chiese, ma con una Chiesa, quella romana. Nella prima ipotesi, peraltro, avrei dovuto parlare anche di Ortodossia, o di Anglicanesimo (il che ho fatto, in altra sede e su Confronti).

In quest’ottica, la mia cronaca apporta delle news note, immagino, al professore, ma ignote al 98% dei cattolici e al 99% di quanti e quante si riconoscono nella Riforma. Come, ad esempio, che la stessa Pontificia commissione biblica aveva affermato che le Scritture cristiane non permettono, da sole, di escludere l’ordinazione delle donne; e che Paolo VI ignorò questo per lui inaudito responso e, nascondendolo, nel 1976 anche sulla Bibbia fondava il suo “no”. Idem, nel ’94, papa Wojtyla e, ora, Francesco.

Mi sorprende, poi, che il professor Ferrario sottovaluti le prospettive che adombro: 1) non si può attribuire alla volontà di Cristo l’esclusione delle donne dai ministeri “alti”; 2) il concetto di “sacerdozio” sacrale e personale è estraneo al pensiero di Gesù e del Nuovo Testamento. I due enunciati demoliscono la dottrina cattolica ufficiale; e mi sembrano la traduzione… in pillole, di alcuni pilastri teologici della Riforma. Non so se nell’Aldilà vedano le cose di quaggiù: se sì, mi piace pensare che Martin Lutero, commosso, mi abbia applaudito.

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Fulvio Ferrario

Professore di Teologia sistematica e Decano della Facoltà valdese di teologia di Roma.

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